venerdì 11 marzo 2022

DON LUIGI GIUSSANI: LA FEDE È UN CAMMINO DELLO SGUARDO

30 agosto 1995 - Meditazione di monsignor Luigi Giussani all’assemblea internazionale degli universitari di Comunione e Liberazione.

Fonte : 30 Giorni


Un Incontro con Don Giussani (1993)

Vorrei fissare in questo momento di improvvisata o improvvisa memoria quello su cui abbiamo trascorso mente e occhi in questi giorni, che di essi sia quindi significativo e riassuntivo. 

Una delle esperienze più umanamente compassionevoli, emozionanti, ma anche commosse, è voltarsi per dire al proprio fratello uomo, voltarsi per dire a te, amico, fossi anche qui da solo (ma da solo o in diciannovemila è lo stesso), «che cosa sei», «da che cosa vieni» e, soprattutto, «dove vai». Perciò dovete avere compassione di noi che vi parliamo. Il primo aspetto di questa compassione è la benevolenza dell'attenzione, che non è arrestata da nessun ostacolo, che, istintivamente, giustamente, sconsiglierebbe di udire oltre. Invece, l'udire oltre, nonostante l'impaccio di chi parla, l'approssimazione dell'espressione e, come dire, l'impazienza che rimane per una completezza che non è ancora raggiunta dalla parola o dalla logica che ci viene comunicata, seguire oltre non è soltanto un atto di carità e di bontà verso un nostro amico che ha un compito che tutti rifiuteremmo: è il modo migliore e, secondo me, più efficace, per dire a se stessi che Dio compirà l'opera sua. Dio compirà l'opera sua, che, evidentemente, è ancora in cammino, in drammatico cammino. E quanto più uno è uomo, tanto più drammatico è il cammino. E un uomo in cammino. In colui che parla si vede da tutti i buchi del suo discorso. Si vede in lui come in te, nella tua vita morale, che è piena di buchi, come il mio discorso. Perciò dobbiamo parlare di pietà tra di noi, come il Vangelo parla di pietà, di quella pietà che provò Cristo quando si voltò e vide sul pendio della collina tutta la gente che la gremiva ed era tesa alla Sua parola più che al cibo, più che al mangiare e al bere. 

Ma questa parola "pietà" prelude - noi non possiamo prevederlo, ma vi prelude - all'ultima grande parola del vocabolario umano scritta da Cristo, la parola "misericordia". Tu non puoi avere misericordia verso di me; avrai pietà di me che sono pieno di buchi nel parlare e io avrò pietà di te che sei pieno di buchi nella tua vita morale, come io nella mia. Avrò pietà di te, tu avrai pietà di me. Ma la parola "misericordia" è inconcepibile, è come qualcuno che entrasse in aula, nell'aula gremita, menando colpi d'anca e di braccio a destra e a sinistra per farsi strada, fino ad arrivare davanti a tutti: ed ecco, tutti dimenticano quello che hanno in mente e che sentono, dimenticano tutto, tanto è spaventosamente umana quella faccia, la faccia di quello che è andato davanti. E così spaventosamente umana, così esageratamente umana - "esageratamente" umana -, da essere inconcepibile, umanamente inconcepibile. E questo che ci introduce nella parola "misericordia", che nessuno può definire, ma che è il Mistero da cui tutto in noi s'origina, a cui tutto in noi è diretto, di cui tutto è fatto, così evidentemente necessario per poter sopportare l'esistenza propria delle cose, quanto incomprensibile. Non c'è infatti nessun'altra parola che la eguagli nell'indicare l'ultimo traguardo da cui l'eterno si apre sul tempo. 

I

Vorrei partire da una frase di un famoso filosofo e teologo americano, che ha dominato la scena letteraria, specialmente laico-protestante, degli anni '30 e '40, Reinhold Niebuhr; un uomo di una cultura immane, suggestivo a leggersi, che i miei amici italiani mi hanno sentito citare tante volte perché è stato l'autore della mia tesi di laurea, quando nessuno in Italia ancora parlava di queste cose. Una sera lasciai la lettura della sua opera principale, Natura e destino dell'uomo, mettendo il segnalibro nel punto in cui ero giunto. La mattina seguente, alzandomi, la prima cosa che feci, dopo le veloci preghiere, fu di riaprire il libro (perché dovevo fare in fretta la tesi, i tempi premevano). Forse questo stupido caso, questa stupida situazione o occasione, mi fece rimanere impressa questa frase, la frase con cui incominciava il nuovo capitolo, che io lessi per prima quella mattina e che mi valse molto di più di tutte le preghiere che, distratto, avevo appena detto: «Nulla è tanto incredibile quanto la risposta ad un problema che non si pone». Leggetela, rileggetela adagio, perché le parole pesano in modo tale che se ne lasciate via una si fa un vuoto incolmabile, cioè si tralascia tutto, e non si impara niente da un' osservazione metodologicamente formidabile come questa. "Metodologicamente", cioè come descrizione della dinamica con cui l'uomo parte per l'avventura della conoscenza e per l'avventura del giudizio e della valutazione, che è molto più rischiosa e importante della prima (perché senza essa è amaramente inutile anche !'istinto della conoscenza). 

«Nulla è tanto incredibile quanto la risposta ad un problema che non si pone». Se io do la soluzione di un problema o di un'equazione che nessuno dei presenti mi ha proposto, a chi interessa? A nessuno! La mia risposta è, per i presenti, identica a zero: non c'entra, non c'entra con la loro vita! E, perciò, non "è" , la mia risposta non" è" . Quanto più io sento un problema, tanto più anche la più lontana eco, che accenna ad una formula di risposta, mi fa tendere l'orecchio, mi incuriosisce, mi fa andare adagio se sono in macchina, mi fa fermare se sono a piedi: tendo l'orecchio. E poi..., poi capisco di essermi illuso, il discorso parlava d'altro, ma c'era dentro quella mezza parola che sarebbe potuta andar bene anche in una risposta alla mia domanda. Allora quella illusione mi esalta per dieci secondi. 



Quanto più io sento un problema, tanto più una risposta pretesa o conclamata o suggerita o interrogativamente delineata mi interessa. Questa è la grande premessa all'utilità e all'imponenza di un discorso, di un colloquio, di un dialogo in cui noi due parliamo di te, di me, parliamo di nostra madre, parliamo della tua ragazza, parliamo delle due signore croate che abbiamo visto l'altro ieri, due donne straziate dalla guerra, questa «inutile strage», come disse della Grande Guerra Benedetto XV e come si deve dire di ogni guerra. 

Se Cristo è risposta al bisogno umano, se Cristo definisce il destino cui tendono gli input che ci gremiscono cuore e istanti, persona e tempo, se Cristo si pone risposta a questi urti, a questi input che ci gremiscono, allora tanto più interessante è il problema di Cristo, tanto più il suo nome è importante, tanto più io centro opportunamente su di esso occhi e indagine, tanto più mi apro a quello che questo nome indica, tanto più leggo le tracce dei suoi pensieri e le sue parole rimaste, quanto più sento quello che mi urge dentro, quanto più sono uomo. 

Questa è la condizione per capirci qualche cosa o per trarne comunque vantaggio, per rendere comunque utile, supremamente utile, l'interessamento a Cristo: !'interesse per se stessi, il gusto di sé, la tristezza di sé, la malinconia di sé, il dolore di sé, l'angoscia di sé, la paura del domani, le esperienze fatte, le esperienze possibili, il disastro che capita all'amico e alla persona conosciuta o alla persona non conosciuta e di cui si è avuta notizia dal giornale. Ma è un disastro che può accadere a me, perché quello che accade in Croazia e in Serbia e in Bosnia ed in altre parti del mondo (di cui i giornali neanche parlano, pur lasciandosi sfuggire qualche volta qualche accenno, semplicemente perché l'America o l'Inghilterra o la Germania o la Russia non hanno interesse a parlarne di più), quello che capita, dunque, in Croazia, in Serbia e in Bosnia può capitare domani qui. Come ad Ancona si è potuto udire in qualche momento il rombo del cannone che sparava a duecento chilometri di lontananza, così il cannone può far fuoco da venti chilometri su di noi qui. 

Quanto più uno è interessato all'uomo, cioè a sé (a sé, perché l"'uomo" può raggiungere lo stato neutro di una cosa astratta), quanto più uno sente in sé, per sé, su di sé ciò che urge l'umanità, ciò che gli urge l'umanità, quanto più lo sente, tanto più gli interessa una risposta, tanto più trema di fronte al sospetto che legge nelle pagine di Nietzsche, tanto più si strugge di fronte al dolore consapevolmente e criticamente vissuto come quello descritto in certe pagine di Dostoevskij, tanto più è travolto di simpatia per l'Appassionata di Beethoven, tanto più ogni risposta, da qualunque parte venga, ottiene la sua attenzione, e non mai inutilmente, mai! E capisce quel che diceva il nostro Leopardi quando scriveva: «Di questa età superba,! che di vote speranze si nutrica,! vaga di ciance, e di virtù nemica;/ stolta, che l'util chiede,/ e inutile la vita/ quindi più sempre divenir non vede;! maggior mi sento»1. Lui che si disprezzava per la sua situazione d'anima e di corpo, per la sua incapacità di farsi notare nella società, di tutta «questa età superba» si sentiva più grande! Si sentiva più grande, perché? Perché sapeva che cosa è l'uomo nel suo cuore, originalmente. Quanto più uno, dunque, prende sul serio quello che è dentro... E uno è dentro non quel che sente al momento, ma tutta l'onda di quel desiderio e di quell'attesa che si rivela quando non vi si pone ostacolo, quando la si lascia libera nel suo impeto naturale, originale: «Desiderii infiniti! e visioni alte re/ crea nel vago pensiere,/ per natural virtù, dotto concento;/ onde per mar delizioso, arcano/ erra lo spirto umano,! quasi come a diporto/ ardito notator per l'Oceano>>[2], dice Leopardi in una strofa che riecheggia il mito dell'Ulisse antico. Perché tutti gli abitanti del mondo conosciuto di allora, giungendo alle Colonne d'Ercole, a Gibilterra, tornavano indietro? Perché quello era l'estremo limite, così che chi pretendeva raggiungere o conoscere qualche cosa oltre quelle Colonne era un illuso. Ora, per l'uomo moderno, le Colonne d'Ercole sono diventate le apparenze delle cose, l'oggetto dell'esperienza sensibile: è l'empirismo alla inglese. 

Comunque sia, è chiaro che quanto più uno sente un problema tanto più è teso alla risposta. Quanto più un bambino si rende cosciente dell'assenza della mamma, gli scoppia il bisogno della mamma, tanto più urla e piange, ché se è stato strappato alla madre dalla guerra e portato lontano, questo urlo, questo pianto, se cessa fenomenicamente, gli rimane come volto, addirittura come volto - non condizione o qualifica del volto, ma volto. 

Se Cristo è una proposta di liberazione, si pone come una proposta di liberazione, come strada alla liberazione, la prima condizione per interessarsi e capire qualcosa di Cristo è quella di sentire l'umano, è quella di prendere sul serio l'umano, è quella di prendere sul serio se stessi. Infatti, l'oppositore radicale di Cristo, il suo contraddittore radicale, accanito, che, come dice il quindicesimo capitolo di san Giovanni, cioè Cristo stesso nel suo ultimo discorso, si esprime sensibilmente nella parola "mondo", quale arma ha per destituire di attrattiva la sua figura, per sconsigliarne l'ascolto? Che arma ha? La distrazione! Solo la distrazione! Il suggerito «no» alla sua stessa esistenza; il suggerito «no» ha poca chance, ha poca possibilità di vincere, perché una proposta di liberazione come quella di Cristo la puoi dimenticare oggi e dire: «Sì, ti ho sentito fin troppo, basta!», ma poi ritorna, c'è il momento in cui ritorna. C'è il momento in cui ritorna: e la morte, che è un aspetto inerente alla vita, un'esperienza inerente alla vita (non si può pensare o parlare di vita senza implicarvi l'esperienza della morte), la morte attende tutti, casomai, al varco. 

La prima condizione per capire qualcosa di Cristo come proposta, come indicazione dell' attore supremo della liberazione dell'uomo, come il luogo della promessa della salvezza, la prima condizione è ammettere, guardare, riguardare, lasciare spazio all'importanza del cuore. "Cuore", nel senso biblico del termine, è il luogo delle esigenze ultime e costitutive dell'uomo. Esigenze "ultime e costitutive" vuol dire che qualsiasi azione tu faccia, qualsiasi, di qualsiasi tipo, comunque impegnativa di aspetti tuoi, è dettata da una fiammella, da un colore di quella urgenza originaria che la natura, ciò che ti ha fatto nascere, ha collocato alla tua radice: è il seme del tuo io. Quanto più uno dice sul serio «io», tanto più Cristo come risposta alle carenze di questo «io» può essere interessante. Un' epoca è tanto più anti-cristiana quanto più è anti-umana. La nostra è un'epoca in cui poco manca al ridiventar selvaggi, come cannibali però, dove l'uccisione dell'uomo diventa normale. Per risolvere qualsiasi tipo di problema l'uccisione è diventata la via normale. L'uccisione. Primo capitolo del Libro della Sapienza della Bibbia: Dio ha fatto l'uomo per la felicità; ma l'uomo sceglie la morte, non più come esperienza della vita, bensì come tentata eliminazione della vita - che è un po' diverso, perché se la morte è un' esperienza della vita, fa conoscere che cosa è la vita; se è l'eliminazione della vita, è la grande menzogna, la più grande menzogna che ci sia. 

Noi apparteniamo a quella gente, a quella parte del mondo umano per cui l'uomo è grande. E nostro proverbio potrebbe essere una frase del Vangelo: «Che importa se ti prendi tutto quello che vuoi, se riesci in tutte le tue imprese e ti prendi tutto quello che vuoi, e poi perdi te stesso?». L'io è più grande di qualsiasi cosa che possa possedere, più importante di qualsiasi dominio cui possa arrivare. Oppure: «Che darà l'uomo in cambio di sé?». È la frase che, riecheggiata dalla voce tonante di Ignazio di Loyola, convertì quel giovane spagnolo che divenne il più grande avventuriero della storia di tutti i tempi: san Francesco Saverio. Questa è soltanto la premessa, ma è la premessa senza della quale non si capisce più niente. E la grande premessa che indica in quale misura noi possiamo sentirci interessati, coinvolti nella "cosa" e affrontarla con tale luminosità, criticità, insonne continuità, da intravedere là in fondo il lumicino, quella luce appena accennata, ma che c'è: è là, è là! Adesso, però, non possiamo attardarci ancora su questo. Ma è come quando si abborda una cosa vera, totalmente vera: se uno si macchia un po' della sua colla non riesce più ad andar via, non vuole più andar via, la colla lo tiene lì. 

II

Questo richiamo è comunque la premessa a quello che vogliamo dire della storia del movimento, che è oggetto della sintesi cui desideriamo arrivare prima di lasciarci. Che cosa abbiamo detto dunque della storia del movimento? 

I nostri amici di Trujillo, nel Perù, mi hanno consegnato ieri la lettera di un grande amico di Che Guevara, di cui ha condiviso tutti i rischi e tutta la vita. Lui, però, non è stato ucciso, c'è ancora, è ultrasettantenne e ha un figlio che partecipa alla vita del movimento, il quale gli ha dato da leggere Il senso religioso. Ecco il testo della lettera. «Monsignor Luigi Giussani", Milano, Italia. Con grande stima. E un onore per me rivolger mi a lei per esprimerle il mio deferente saluto approfittando del viaggio del mio grande amico Andrea Aziani che ha avuto la bontà di farmi conoscere il movimento di Comunione e liberazione, di spiegar me ne gli obiettivi così da riconoscere la sua grande considerazione per il cammino dell'uomo in questi tempi di confusione e di ricerca di vie di salvezza. Sono un cittadino peruviano che nel trascinarsi della sua turbolenta esistenza mantiene inattaccabili le sue convinzioni cristiane. Considero, infatti, Cristo come il più grande rivoluzionario di tutti i tempi. Credo in Cristo-sentimento, Cristo-pensiero, Cristo-azione e vita. Credo in Cristo vivente. Senza dubbio egli è l'unica luce immacolata capace di illuminare l'uomo, la famiglia, la società nel suo insieme nel processo evolutivo che cambia il mondo. Le esperienze vissute durante la mia vita di lottatore sociale per la libertà e la giustizia del mio Paese sono senza dubbio testimonianza che alimenta le mie convinzioni e rafforza la mia fede. Ho letto Il senso religioso, La coscienza religiosa nell'uomo moderno e alcune copie della rivista 30Giorni, che comunicano il suo pensiero fondante, nel quale trovo corrispondenza e mi identifico. Comprendo il suo lavoro intenso e la sua preoccupazione nel condurre un movimento tanto importante come Comunione e liberazione, e quindi la prego di scusar mi per aver tolto con la presente qualcosa al suo prezioso tempo. Rispettosamente, Juvenal Nique Rios».

«Cristo come il più grande uomo),: tutti potrebbero essere disposti a dirlo, a sottoscriverlo, non con quella punta ultima - che è presente, mi pare, in questa lettera - che trascende la questione portandola ad altro significato, ma così come è formulato qui e inteso. «Cristo come il più grande uomo", l'esempio della liberazione per l'uomo, il suggerimento, l'aiuto, la formula per la liberazione dell'uomo: tutti, tutti gli atei, i non-cristiani, tanto più i non-cattolici, tutti potrebbero essere pronti a sottoscriverlo. Se la proposta cristiana fosse questa, "Cristo" sarebbe realmente la parola più amica per tutta la gente, per tutti gli uomini di tutte le estrazioni, lo diventerebbe, almeno, facilmente; gli strumenti di diffusione del pensiero - televisione, giornali, ecc. - ospiterebbero molto più facilmente questo nome, lo illustrerebbero molto più facilmente, invece di combatterlo. 

«Cristo è il più grande uomo». C'è una caratteristica che bisogna subito dire: che la tragedia sta alla fine di questo nome. Una tragedia. Nessuno parla di liberazione o fa sentire la liberazione come l'ideale per cui fare qualsiasi cosa, per cui gettare la vita, più che le Sue parole, più che Lui, più che la Sua figura. Ma proprio Lui assicura che questa liberazione non ci può essere, che la liberazione totale non ci può essere. Amici, quello a cui aspiriamo non può avvenire. La tragedia - come hanno intuito i più grandi uomini pensatori e poeti dell'umanità, che sono i greci antichi - la tragedia sta alla fine, come la morte alla fine del tempo. E perciò vi è una tristezza, come si nota anche da questa lettera, che non ha niente di speciale, ma da cui uno non è più abbandonato, mai, se ha pensato qualche volta a se stesso. Se uno si è attardato una volta a pensare su di sé, non è più abbandonato dalla tristezza che ne è conseguita. Starei per dire che la possibilità di questa tristezza è !'indice del suo avanzamento. Ma perché? 

Nel 1968 abbiamo affermato che l'uomo non può darsi quella liberazione cui tende, intendendo per liberazione la somma adeguata delle risposte alla fame e alla sete che urgono e latrano dal di dentro di noi, nel cuore. La liberazione può venire soltanto da altro da sé, da altro che l'uomo. Se l'uomo non è libero, non può venire da chi non è libero la liberazione! La liberazione deve venire da qualcosa che è libero, e l'uomo non è libero. Nessun uomo è libero! Neanche Cristo in quanto uomo era libero da condizionamenti e il potere lo ha eliminato. La liberazione può venire soltanto da qualcosa che sia liberazione come natura, che sia origine di liberazione, qualcosa che viene dal di fuori, da oltre, da oltre l'uomo. La liberazione viene, possiamo dire, da altro che l'uomo: da altro. Da "oltre" è un'immagine geografica; da "altro" indica un soggetto, un altro soggetto. Questo è l'annuncio cristiano, il messaggio che è contenuto nel cristianesimo, la pretesa che la fede cristiana stende davanti agli occhi smarriti, intimiditi, meravigliati, ribelli, accusatori o pacificati o riempiti di speranza, dell'uomo: Cristo è il liberatore dell'uomo e di tutta la storia dell'uomo. Perché Cristo è Dio fatto uomo, è un uomo che è Dio. È il Verbo da cui tutto deriva: «ex uno verbo omnia», come si legge nell'Imitazione di Cristo, tutte le cose sono fatte di questo grido originale, di questa parola originale, di questo comandamento originale, di questa volontà espressa, di questa intelligenza che ha voluto realizzarsi: creò. Cristo è il Verbo da cui tutte le cose escono, perché in ogni istante non c'è niente, nessuna cosa che si faccia da sé, come dice il decimo capitolo del primo libro della Scuola di Comunità. La liberazione viene da Cristo proprio perché è oltre, altro dall'uomo pur essendo uomo, vero uomo e vero Dio. Si tratta di un avvenimento accaduto. Di un avvenimento, cioè di qualcosa che è accaduto. 

Nel 1968 siamo stati dalla parte di quella realtà umana, di quell’insieme o di quel pezzo di popolo umano che si chiama Chiesa, il cui significato è esaurientemente identificabile nel suo compito, che è quello di annunciare, di riecheggiare nella storia l'avvenimento di Dio che si è fatto uomo. Cristo è il liberatore, amico peruviano, e in te spero che sia implicito. Ma fino a quando non è esplicitato, non si è nemmeno sicuri che sia implicito. Questo Cristo di cui parli è Dio, Dio! Egli trascina dentro il suo avvenimento il concetto di liberazione, non tanto la liberazione dal governo al potere, dal potere che è al governo, o il trionfo del tal trend rivoluzionario, ma trascina dentro tutto: trascina dentro il suo significato, il suo annuncio, il trend di Che Guevara come il trend di Stalin e di Lenin, le stelle del cielo come il pianto di quella madre dietro il feretro del figlio a cui Gesù disse: «Donna, non piangere!», con una apparente irrazionalità, perché non si può dire ad una donna che sta dietro al figlio morto, unico, «Donna, non piangere!», è assurdo! Era, infatti, non un invito, ma una conferma della pietà che il cuore di Cristo provava, della tenerezza che condivideva. Nel 1968, dunque, siamo stati da questa parte, fedeli allungo cammino di questo popolo che si chiama Chiesa, che era iniziato con un gruppetto attorno a Lui - a Lui! «Chi è costui, che anche la tempesta e le acque del mare gli obbediscono?! Chi è costui?!" -. Era incominciato con un gruppetto che poi si raccoglieva, diventato un po' più largo, sotto il Portico di Salomone. E poi dopo, l'uno dicendolo all'altro, andando in viaggio da Antiochia a Roma, coinvolsero anche la gente di Antiochia, dell'Asia Minore, e di Roma, del centro dell'Impero, e poi arrivarono fino in Spagna, e poi... Insomma, quel flusso si allargò, si allargò finché fu diffuso in tutto il mondo di allora. Ma era un mondo piccolo, anche se sembrava grande. Quello che però ne fa sentire la grandezza è che perforò ogni resistenza, la resistenza che il tempo oppone alla continuità delle cose, e che si chiama morte, perforò tutte le possibilità di morte e giunse fino a mia mamma - come dico sempre e ho anche scritto -; e mia mamma lo disse a me, così come la ragazza che seguiva Gesù, che si è sposata ed è diventata madre, lo disse ai suoi bambini. E continuerà fino a quando il tempo sarà bloccato, finito, la fragilità delle cose sarà sterminata e tutto consisterà e si chiamerà per questo eternità. 

III

Qual è stato il secondo momento della storia del movimento che ha costituito una svolta importante? Il 1976. Non si trattava tanto, come questione centrale, di Cristo, perché, di fatto, Cristo era diventato interessante anche per coloro che prima lo deridevano e neanche lo citavano - neanche lo citavano: leggete certi testi scolastici della fine del 1800, certi testi scolastici, dagli Stati Uniti, anzi, dovremmo dire "dall'Inghilterra», all'Italia, perché il comando è sempre unico. "Cristo" era diventato una parola molto più comune di prima, molto più conosciuta di prima, molto più interessante di prima, molto più stimata di prima, molto più citata di prima, anzi, era visto come discriminante, come criterio tra il bene e il male, starei per dire da tutti anche se la minoranza che non è in questo "tutti", la minoranza che ancora lo contraddiceva si era fatta più accanita di prima, e mirò al potere più di prima (comunque, le cose, dice Solov'ev, nella storia, si accaniscono man mano che il tempo va verso la fine). 

Allora, che problema c'era se tutti ammettevano Cristo, se Cristo era più riconosciuto? Sì, Cristo era riconosciuto, da chi lo riconosceva reale, molto più come esistente nei cieli, accanto agli angeli, a legioni di angeli di cui poteva servirsi quando e come voleva, che sulla terra. Sulla terra, infatti, la ragione dell'uomo, la capacità di misura e di possesso dell'uomo (la capacità di misura è una capacità di possesso: non si può misurare se non quello che si ha in mano), sulla terra, dunque, nello spazio terrestre dell'uomo, questa capacità di misura dell'uomo, illimitata, perché il possesso dell'uomo è su tutto, questa capacità di misura e di possesso che l'uomo ha e che si chiama, ultimamente o innanzitutto, "ragione", tutto questo era ritenuto molto più definitivamente evidente di prima. Starei per dire che, con la scoperta di un interesse molto più grande a Cristo: al Cristo in quanto citato nella storia, entrato nella storia come nome, a prescindere da ogni altra considerazione e analisi, dominò !'idea della sua presenza nella varietà delle opzioni umane. Insieme a ciò, il diffondersi di una stima della sua parola come criterio etico, come indicazione etica, di valore, quindi di bontà, come simbolo di umanità, progrediva la convinzione operativa che l'umanità era fatta dall'uomo, realizzata dall'uomo, e che il valore della realtà è autonomo. la realtà ha valore in sé, le cose hanno il loro valore in se stesse. E il valore dell'uomo, da solo o insieme, in società, è l'impegno che sviluppa verso la realtà, potenziandola, esaltandola, utilizzandola comunque. Domina, cioè, possiamo anche dire Cristo», ma come termine morale, come ideale morale, come simbolo morale, come riferimento morale. 

In questi tempi domina la stima della moralità. Si parla, infatti, solo di valori; valori "cristiani", si aggiunge magari nell'Occidente europeo e nell'eco che questo ha oltre oceano. la morale domina. Cioè: Cristo, una volta detto, è nei cieli. Si rivelerà, casomai, se si vuoi proprio procedere, alla fine: si chiama "escatologismo". Egli è il centro di tutto, ma adesso è nel cielo e si rivelerà alla fine, premiando o non premiando l'uomo in base al suo impegno, !'impegno della volontà umana con le cose, in base alla moralità: impegno dell'energia umana con le cose così come sono, per correggerne la traiettoria, per utilizzarle, per cambiarne l'uso cattivo. 

Perciò è il trionfo di quale parola? Nella lunga epoca razionalista, che va dal '400 ad oggi, il nome della ratio, della ragione, sintetizza in genere la forza dell'uomo, il protagonismo dell'uomo come artefice dell'andamento di questo mondo. Ma quale parola trionfa in un'epoca moralistica, dove la morale è tutto, e il valore è un valore morale? Poi, tra parentesi, c'è tutta un'accusa che noi abbiamo subito fatta; fin dagli inizi siamo usciti allo scoperto con questa accusa: che la morale è secondo il potere e ogni potere stabilisce i termini e la scala di valutazione morale. E una parola morale quella che domina le immagini dell'uomo e le pagine dei giornali! Quale sarà? "libertà"! Non è "ragione", com'era nel '600, nel '700, anche nell'800, la parola più ripetuta. Adesso no. Nel '900 non è la parola "ragione", ma la parola "libertà" che domina (ma già nell'800 era così). la parola "libertà" fa esplodere il valore del termine "ragione" molto più opportunamente che neanche la parola stessa "ragione". La libertà. Perché la libertà aggiunge alla ragione un'aura suggestiva, una vibrazione di fresco respiro e, soprattutto, un ritorno della realtà alla mano dominatrice dell'uomo e un ritorno dell'uomo stesso alla sua capacità di opzione, di decisione, che va dal giudizio teorico all'uso immediato della forchetta. 

La libertà: il luogo dove si decide dell'atteggiamento di fronte a tutto il reale e al particolare, nel momento e in tutta la vita. Il luogo della opzione, cioè della decisione: la libertà. La libertà è diventata, perciò, in questo ultimo scorcio dell'evo moderno, il dio. Il dio è la libertà. La Russia, la tradizione russa fu travolta dalla libertà, non tanto dalla ragione. La ragione era la partenza da cui si prendeva l'avvio per la critica e la disamina al fine di assicurarsi una motivazione, ma era la libertà !'ideale a cui s'andava a finire. La libertà. Perfino Napoleone parlava in nome della libertà! La libertà sembra governare realmente la storia dell'Inghilterra. La libertà fece rinunciare alla vita certe figure gentili e forti, suggestive, uomini o donne che fossero, dell'aristocrazia del Sud Italia, come l'Italia non aveva mai conosciuti. In nome di questa libertà, quanti delitti. Ho visto di recente una fotografia della prima grande Guerra Mondiale: «per la libertà,). Libertà da che? Dagli asburgici. Leggete, per favore, dovete leggerlo appena potete, il libro intitolato Requiem per un impero defunto di François Fejtö, un ungherese (il libro è tradotto in italiano da Mondadori). Dovete leggerlo, perché leggere un libro del genere fa capire, è una chiave di volta. Liberazione? Ma l'impero austro-ungarico è il regime più umano e più liberale che ci sia stato in tutta la storia dell'Europa! E chi è stato sotto questo impero, i vecchi dell'alto Trentino, del Triestino, che sono stati sotto questo impero, lo ricordano ancora adesso con nostalgia. Liberazione dall'impero austro-ungarico? Inghilterra e Francia che vengono qui a liberarci dall'impero austro-ungarico? Ridicolo! Ma chi dicesse in pubblico: «E ridicolo!", sarebbe condannato per lesa maestà. 

Libertà. In nome della libertà tutta l'Europa fu conquistata e sottoposta (per poco, per relativamente poco tempo) al dominio della Francia napoleonica, che livellò tutto secondo i propri criteri: in nome della ragione che vuole affermata la libertà. Invece della nobiltà amica dell'Austria, l'Italia settentrionale (Lombardia e Veneto) fu giocata dai giovani leoni delle correnti politiche nuove che parlavano di libertà. Come sapete, da un certo Silvio Pellico, un cristiano reale, ma investito dall'aura che determinava il tempo, fu scritto un libro intitolato Le mie prigioni, che fece grande scandalo e fu per l'Austria più che una guerra persa, come dissero i giornali di allora commentando. Bene, Le mie prigioni non sarebbero potuto essere scritte per le prigioni dell'Inghilterra, a Londra o altrove. I "piombi" c'erano infatti anche altrove, non solo a Venezia; le condizioni amare e disumane della prigionia c'erano dappertutto. Ma ci sono ancora adesso, quando i "piombi" di Venezia sono, da tanti anni, scomparsi! Adesso la "galera" è molto più diffusa di allora: protetta, favorita, finanziata dalle nazioni che proclamano al mondo ancora la libertà come era predicata allora. 

La libertà, la capacità che l'uomo ha di aderire all'essere, non solo di decidere, non solo di giudicare, ma di aderire all' essere, di abbracciare l'essere, di farsi una cosa sola con l'essere e, dal di dentro del cuore dell'essere, di trasformare l'essere, dare umanità all' essere, rendere utile al destino dell'uomo qualsiasi essere; questo connubio, questo sposalizio profondo, come concezione del rapporto tra l'io e tutto ciò che lo circonda, tutto l'universo, come immagine sponsale universale, questo è stato tradotto in un fantasma usato per combattere e per uccidere, per tenere schiavi, in modo tale da assicurare gli interessi di chi ha in mano il governo. Adesso è così! Ora è così! Perché l'Inghilterra ha diritto alle Malvinas? Perché? Comunque l'Inghilterra non ha diritto alle Malvinas, eh! 

Queste cose sono evidentemente giocabili,come dadi, come il gioco dei dadi. E evidente che quello che conta è qualcosa d'altro, per cui tu puoi vivere più intensamente di prima, più coscientemente di prima, sei un po' più triste di prima se guardi la tua patria, ma sei più intenso di prima, più consapevole di prima: sai di più cos' è amare, sai di più cos'è l'amico, sai di più cos'è la donna, sai di più cos'è ciò che ti aspetta domani, sai di più quel che ti aspetta in fondo. Perché la vita è una strada, e la strada termina dove incomincia lo scopo della strada. E «tutto, o Signor, fuor che l'eterno, al mondo è vano". Ma l'eterno, ha detto il Papa qualche mese fa, incomincia nel tempo. Già sulla strada l'uomo incomincia a sperimentare l'eterno. "Sperimentare l'eterno": c'è un modo di guardare la donna e c'è un modo di amare il proprio dovere, il proprio lavoro, in cui l'eterno riverbera in anticipo, profeticamente, la sua attrattiva. Cercare l'inizio di questo eterno nel tempo, in ogni rapporto, questo è il nostro gusto, questa è la nostra morale. 

Per questo, nel 1976, la nostra funzione fu quella di affermare che Cristo è il liberatore dell'uomo. Il nostro compito supremo non è quello di riuscire a render liberi. Il nostro compito supremo è annunciare che la liberazione è Cristo, uomo-Dio. E se noi Lo seguiamo, o nella misura in cui Lo seguiamo, Lo riconosciamo e Lo seguiamo, incominciamo a portare questa liberazione in questo mondo, incominciamo a vivere i nostri rapporti con libertà. "Incominciamo": tracce di libertà, tracce profetiche di libertà ci sono nel rispetto che hai verso tua madre e tuo padre, nel rispetto riconquistato verso tuo padre e tua madre, nella capacità di mortificazione, di tolleranza, di pazienza che hai nella convivenza con i compagni, nel rispetto enigmatico verso la donna, nel distacco da ciò che tende a renderti automatico, schiavo di un automatismo, .nella capacità di sacrificio, perciò, perché uno incomincia a capire che non può amare - amare! - la persona della ragazza con cui entra in rapporto affettivo, non può rispettare la dignità di quell'essere se non la guarda in un certo modo, con un distacco dentro, se non ne vive il rapporto con un distacco dentro, con un rispetto dentro, che costa strappo, attesa, sacrificio, taglio, il coraggio di un arresto, il favorire l'emergenza di una prospettiva più globale, in cui l'abbraccio che porta all' essere che ama coinvolge l'universo. Lo senti l'universo che ti preme ai gomiti mentre l'abbracci, perché è un compito per l'universo il compito che hai verso quell'essere, e se non hai compito verso quell'essere, tu vuoi dominare semplicemente quell'essere, possederlo e basta. 

Quindi il nostro compito per la liberazione del mondo e dell'uomo diventava un'affermazione di Cristo come unico liberatore dell'uomo - unico, unico! -. Questo implicava una purificazione, la necessità di una purificazione, la necessità di accusare l'imperfezione, l'approssimazione, la debolezza, l'incoerenza in qualsiasi rapporto; e implicava il timore, il timore giusto della propria incapacità, che si definiva in una tensione senza tregua, in uno sforzo senza suspence, in una ripresa continua. E la moralità come ripresa continua verso un termine chiaro, definito - tanto è vero che il suo nome è insostituibile e inconfondibile -: verso Cristo! Ed è la libertà come adesione alla realtà e "favoreggiamento" del moto con cui la realtà, per impeto originale, va verso un destino, il destino, quel destino: Cristo. La libertà come tensione a un fine, a un ideale, tensione continua ad un ideale, movimento continuo verso la totalità della realtà come significato, e Cristo è la parola che definisce questo significato. La dignità morale è, dunque, molto più una tensione continua verso l'ideale che non un esito riuscito, che non una riuscita. Nella civiltà medioevale, potentemente unitaria, la morale era realizzare la perfezione imitando, realizzare la perfezione con cui Cristo avrebbe trattato quella cosa con cui entriamo in rapporto, quel dovere che noi dobbiamo esperire. Nel Medioevo questo era l'ideale chiaro: l'imitazione di Cristo. Il crollo dal Medioevo all'Umanesimo ha posto come ideale il riuscire; l'ideale fu il riuscire; in qualsiasi modo, in qualsiasi caso, comunque, ma riuscire: questa è l'origine dell'unica cosa buona cui puoi aspirare, che è la "fama", la dea fama, e ciò avviene, in fondo in fondo, ironicamente (è l'ironia umanistica), per "fortuna", per la dea fortuna. La dea fama e la dea fortuna erano gli idoli dell'Umanesimo. L'ideale umanistico rientrava. Sentivamo, nel 1976, che questo rientrava: ma in noi non era più identico. Rientrava, ma ritornava un'origine, una completezza originale. 

IV

E ora l'ultimo passaggio, di questi tempi. Se la libertà viene da Cristo, la possibilità di trattare qualunque persona e qualunque cosa, la possibilità di vivere il rapporto col reale in modo giusto, vero, suggestivo, tanto da essere profezia della felicità, da contenere una profezia della felicità, è da Lui che viene. Ma se la libertà viene da Cristo, se da Lui viene tutto, allora è perché Cristo c'entra con tutto: «In Lui tutto consiste", di Lui tutto è, tutto a Lui appartiene. È la sconfinatezza dell'oggetto del desiderio di conoscenza, di possesso e di compagnia umana che si documenta nello sviluppo del fenomeno della "cultura": questa destinazione universale dell'abbraccio della mente e del cuore dell'uomo ha come criterio, come formula, che Cristo diventi forma di tutti i rapporti con le cose e con le persone. La conoscenza e l'uso di tutte le cose, la conoscenza e l'amicizia con tutte le persone, il rapporto con le cose, con sé e con l'altro è Cristo che lo rende possibile, collocandosi come il punto di vista totalizzante per la conoscenza e l'azione, punto di vista totalizzante cui dunque tutto il proprio sforzo dinamico (sforzo in tutti i sensi, fatica in tutti i sensi, gusto in tutti i sensi) tende, come una lente che riflette il sole: riflettere il rapporto di possesso che Cristo ha di me, di appartenenza mia a Cristo, riflettere questo nell'azione che compio, nel rapporto che vivo - nel rapporto che vivo! -. Cristo non è nel cielo tra le legioni degli angeli e sulla terra indice di valori morali da rispettare! Cristo è dentro il mio rapporto con qualunque cosa, con qualunque persona, in qualunque caso; Cristo è dentro come criterio ultimo, come sole che deve riflettersi nel rapporto stesso. Il rapporto con le persone e con le cose è una lente che riflette la presenza, una presenza! Cristo è la presenza che permette la tensione verso il perfetto di ciò che facciamo. 

In questo senso dico che il Mistero e il segno di esso sono la stessa cosa: l'azione, il momento umano ed esistenziale è segno dell' eterno, dice il rapporto con l'eterno, rimanda all'eterno. Perciò il Mistero e il segno sono la stessa cosa, nel senso che l'eterno, senso del mondo, Cristo, è dentro qualsiasi segmento di rapporto tra me e il mondo. Qualsiasi segmento di rapporto tra me e il mondo - con la donna, con la madre, col padre, con l'estraneo, col padrone, con la macchina, con lo Stato, con tutto ha dentro come suo ideale da tradurre in atto, da tradurre in esistenza, ha dentro di sé la presenza di Cristo senso del mondo. Cristo è la presenza del punto di vista totalizzante la conoscenza e l'uso e quindi il dominio veramente umano di un nesso con la forma, di un riferimento alla sua presenza con la forma d'applicazione dell'intensa sete che l'uomo ha di perfezione ("perfido", conduco a termine). Cristo è la presenza guardando la quale stringo la tua mano, fratello, e la compagnia mia a te, l'amicizia mia a te, tende ad essere perfetta: ciò che è mio è tuo, ciò che è tuo è mio. L'origine di tutto ciò che faccio di te, con te e per te, questo amore, questo dono di me, attinge al grande pozzo della presenza di Cristo. Guardo in faccia Cristo, allora guardo in faccia te veramente. 

Questo non è più il trionfo, dunque, della libertà che decide, ma è il trionfo di uno sguardo che ama. E non è l'esito, non è la riuscita che io misuro, che posso misurare, che posso prevedere e misurare, non è più questo che trionfa, non è l'esito come misura possibile a farsi da me che domina, ma è l'amore della creatura con cui entro in rapporto guardando una presenza che non viene meno mai, perché è presenza in ogni cosa, in ogni istante: la presenza di Cristo. È lo sguardo alla faccia di Cristo che mi permette di trattare la tua faccia con rispetto amoroso come non avrei mai pensato di fare. E per quanto riesca, so che sarà imperfetto l'esito, ma tutto in me è teso alla perfezione. Come è teso? In che senso è teso alla perfezione? Mentre tratto con te, amico mio, ti tratto e tratto con te chiedendo nel cuore, senza dirlo, senza farlo sentire da te con parole espresse: chiedo a Cristo di riuscire, chiedo a Cristo la perfezione. La perfezione è il dono finale di Cristo, ma è ciò a cui si tende in ogni istante. «Santo» diceva sant'Ambrogio «non è chi non sbaglia mai [l'esitò], ma chi continuamente riprende a tendere».

Dunque, siamo insieme perché c'è Uno tra noi che permette, nello sguardo a sé, di riflettere il compimento cui il cuore aspira. E la mia debolezza, la debolezza del mio cuore non sarà mai più forte di quella Presenza: questa Presenza è più forte di ogni mia debolezza. In questo senso, l'ultima parola della mia vita, della mia vita come rapporto con te o con qualunque altra cosa - perché la vita è rapporto, implica continuo rapporto -, la parola definitiva della mia vita è la parola che esce dalla suggestività senza limiti di una Presenza, è una parola che esce da Cristo, ma investe me, mi fa camminare verso una identità con Lui e con tutte le cose e le persone in Lui, che è esattamente quello che gridava Jacopone da Todi o che diceva l'Imitazione di Cristo: tutto è una cosa sola, e tutti i giorni noi siamo invitati a sperimentare che tutto è una cosa sola. Infatti, quando t'ho visto? Non t'ho mai visto, tanto che non ti ho ancora visto! Tu che sei qui presente: ancora non ti ho visto; non ti ho mai visto, tanto che non ti ho ancora visto. Ma con te, di schianto, prima di ogni altra cosa, dico che sono una cosa sola e che sono pronto, se Cristo mi aiuta, anche a dare la vita per te. Se sto con te due giorni, quanti errori commetto, quanto disagio ti procuro, quanta imperfezione c'è nel mio rapporto, nella mia storia con te! Ma adesso, in ogni "adesso" di questi due giorni, io sono pronto a morire. Per amore si è più pronti a morire che non a realizzare la perfezione. Perché la perfezione è Cristo: avviene quando abbraccerò Cristo definitivamente. Ora è soltanto profeticamente, come per speculum in aenigmate, è un abbraccio misterioso ed enigmatico, che non so come, ma c'è; c'è questo abbraccio, ma non saprei come... so che immaginarlo è un modo di approssimarsi a esso, un modo di esprimerlo, ma ,non definisce, non finisce nulla. E un cammino senza sosta. Siamo in cammino senza sosta verso Cristo, trascinando nel nostro abbraccio tutti coloro che Cristo ci fa incontrare, innanzi tutto disposti a morire per loro, e poi, di ora in ora, a far la fatica che, nel suo disegno, Cristo ci chiede. «Chiunque ha questa speranza si purifica come Egli è puro» (1 Gv 3,3). 

Anche qui, è un errore parlare di certe cose in promptu, come dire, di schianto: quanto più sono preziose, tanto più bisognerebbe che esse fossero elaborate. Ma è ancora la questione dell' esito e della tensione, del dare la propria vita fino alla morte, che significa distenderla momento per moment9 in sacrifici imperfetti. Imperfetti. E paradossale: per essere disposti a morire per te adesso, "adesso", devo distendere nel tempo questa mia volontà, questo mio amore, che deriva direttamente dalla coscienza che siamo una cosa sola in Cristo, siamo di Lui - perché questo" di Lui" mette pace ovunque -, devo distenderlo nell'approssimazione di ogni momento: così che quando mi chiedi una cosa io ti tralascio e corro avanti, e tu ci resti male. Eh, certo! Questo paradosso è il paradosso della nostra vita che riconosce Cristo dentro ogni rapporto: la Grande Presenza in ogni rapporto, che di ogni rapporto detta !'ideale e il sacrificio. Per !'ideale bisogna dare tutto subito. Non si può, di fronte all'ideale, dare metà: se è l'ideale, bisogna dare tutto. Ma per realizzare questo tutto, o !'ideale stesso, Cristo stesso, entra e decide la morte subito (un colpo di scimitarra, come quando ci volessero travolgere gli integralisti islamici e non ci saranno più una Lepanto e una Vienna, perché non ci sarà più la gente che avrà ideali per resistere, mi spiego?); o, se non la morte fisica, quella morte che è l'umiliazione, amara e benevola e quasi tenera verso se stessi, di sentirsi arrestare in un'approssi~azione, ma in un'approssimazione che è salvata nella speranza, la quale è la certezza che nel futuro questa totalità avverrà. E infatti avviene: la certezza che nel futuro avverrà, la fa avvenire adesso. Così sono stato estremamente indiscreto nel rapporto con voi stamattina, senza accorgermi. Ma lo sapevo che sarebbe finita così, perché finisce sempre così. 

Comunque, sono stato indiscreto. Ma questo non mi ferma neanche per un millimetro nella benevolenza, nella simpatia, nella volontà di felicità, nell'augurio di felicità che vi faccio, e con cui termino. 



NOTE
1) G. Leopardi, 1/ pensiero dominante, vv. 59-65. 
2) G. Leopardi, Sopra il ritratto di una bella donna, vv. 39-46. 


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