sabato 17 settembre 2022

CAMISASCA E HADJADJ : UNA REGOLA ANTIMORALISTICA PER SALVARE LA FAMIGLIA

Come (e perché) provare a riattizzare oggi quel “focolare domestico” che appare così irrimediabilmente affievolito da individualismo, consumismo, paradigma tecnologico, crisi della fede? 

Appunti da una formidabile conversazione con Camisasca e Hadjadj

Rodolfo Casadei

Il 26 giugno si è concluso l’Anno della Famiglia Amoris Laetitia voluto da papa Francesco, che ha approfondito i contenuti dell’esortazione apostolica del 2016. Sulle difficoltà che la famiglia incontra oggi Tempi ha organizzato una tavola rotonda con due dei suoi più apprezzati collaboratori: monsignor Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia e Guastalla, e Fabrice Hadjadj, filosofo e direttore dell’Istituto Philanthropos di Friburgo. Questa è una sintesi degli interventi.

* * *

Casadei: In Italia i matrimoni sono scesi da 320 mila nel 1990 a 184 mila nel 2019, l’ultimo anno senza Covid. Abbiamo molti casi di famiglie che hanno dato un’educazione cristiana ai figli, hanno dato il buon esempio per quanto riguarda lo stile di vita, e oggi si ritrovano a fare i conti con le “convivenze”: figli e figlie rimandano il matrimonio e intanto convivono coi loro partner. E non vedono nulla di male in tutto ciò. I loro genitori chiedono agli amici: «In cosa abbiamo sbagliato?». Gli si potrebbe rispondere: «In nulla, perché non avete scelto voi di vivere in un’epoca in cui il condizionamento sociale a favore dell’edonismo e della non assunzione di responsabilità troppo vincolanti è più forte del buon esempio che i genitori hanno dato. I figli apprezzano l’amore genitoriale, ma fanno di testa loro». O meglio: fanno quello che detta lo “Spirito del tempo”, come lo chiamava Hegel. Le famiglie si sono indebolite al punto che non ci si riesce a sottrarre ai condizionamenti della cultura dominante. Siete d’accordo con questa diagnosi?

Camisasca: L’Italia è un paese di lunga tradizione cristiana. Ciò che accade nella Chiesa prima o poi influisce fortemente sulla vita sociale e viceversa, perché la Chiesa vive dentro la realtà storica che vivono tutti. All’origine della crisi del matrimonio, in particolare di quello in chiesa, vi è una crisi radicale della fede nelle nostre comunità. Improvvisamente, nell’arco di due generazioni, i figli non hanno più saputo riconoscere la convenienza della fede che i loro genitori vivevano. Uso la parola “convenienza” nel significato che le ha dato don Luigi Giussani: non sono stati aiutati a riconoscere la pertinenza della fede alle attese della vita, hanno sentito la comunità cristiana come un mondo a parte che non sapeva più vivere in questo mondo con gioia.

Non è immediato vedere la convenienza della fede. Io ho vissuto la mia adolescenza senza vederla. Solo nell’incontro con don Giussani l’ho riconosciuta. Sempre di più dai ragazzi la fede è stata vista come qualcosa di giustapposto alla vita e incapace di essere fiamma. Mentre le fede è una fiamma. Ma una fiamma ha bisogno dell’aria per restare accesa, e qual è l’aria della fede? La sua capacità di illuminare la vita, di mostrare che essere cristiani è fonte di gioia, di un’umanità più vera e di una maggiore consistenza nel mondo, nel mentre che si attraversano persecuzioni.

In secondo luogo direi che la fede non è stata più mostrata come la radice della maturità affettiva. La Chiesa in molti casi non ha saputo indicare strade autentiche di maturità affettiva. Talvolta è rimasta chiusa nei “no” dell’educazione ottocentesca. E a questo proposito bisogna dire che la crisi della fede in Italia, che si riverbera sul matrimonio, è stata preparata dal moralismo dell’educazione cattolica dell’Ottocento e primo Novecento, cioè da una predicazione legata ai “no” ai desideri della Terra e ai “sì” ai desideri del Cielo, che però non erano mostrati nella loro incidenza sulla vita quotidiana. Oppure, nella stragrande maggioranza si è adeguata alle risposte del mondo. Quindi non ha saputo mostrare delle relazioni capaci di far risorgere dal narcisismo e dalla morbosità, i due rischi che impediscono la maturità affettiva.

La crisi della fede si è incrociata con una crisi della società sempre più individualista, sempre più insicura perché governata dai sentimenti, e governata dai sentimenti perché così piace al mercato. Il mercato vuole l’uomo solo, che può consumare perché non ha molte responsabilità, che è governato dalla mutabilità dei sentimenti i quali lo spingono a cercare il suo volto nel prodotto che gli viene offerto.

Per quanto riguarda il fenomeno delle convivenze, io ho accostato decine di conviventi e molti li ho accompagnati al matrimonio sacramentale. Vedo nelle convivenze soprattutto un grido: «Vorremmo, ma non ne siamo più capaci». Perché l’uomo abbandonato alle sole sue forze psichiche ed emotive non è capace di fedeltà, non è capace di futuro. Cancellando Dio si cancella anche l’uomo nelle sue aspirazioni più profonde.

Hadjadj: La domanda chiede di spiegare perché il buon esempio genitoriale si riveli insufficiente. La risposta è che nella formazione cristiana non c’è niente di automatico: gli esempi migliori possono sfociare nei risultati peggiori. Basta guardare al giardino dell’Eden: Adamo ed Eva hanno ricevuto la loro educazione direttamente da Dio, eppure gli hanno voltato le spalle. Perché c’è una cosa che si chiama libertà umana, che costituisce la dimensione drammatica della nostra fede. Nella storia non c’è nulla di lineare: grano e loglio crescono insieme, c’è una dimensione apocalittica per cui andiamo contemporaneamente verso il meglio e verso il peggio. Non guardiamo solo ai fallimenti, consideriamo i tanti che vivono il matrimonio cristiano oggi senza il sostegno di una cristianità e senza il sostegno della società umana: sono testimonianze più forti di quanto siano mai state in passato. Non dobbiamo avere paura della crisi odierna: la dimensione drammatica fa parte del dato della Rivelazione.

Fa brice Hadjadj

Nella domanda poi c’è l’idea che se ci si allontana dal matrimonio è a causa dell’edonismo. Così si sottintende che il matrimonio è faticoso e noioso, e che andare a donne è il vero piacere. Su questo ho grossi dubbi: io credo che è anche per edonismo che si dovrebbe scegliere il matrimonio! Non dico che si tratti di un piacere facile, ma ci sono delle gioie nel matrimonio. Io che sono padre di nove figli so che è dura, che ci sono sempre delle crisi, ma allo stesso tempo so che sono nel posto giusto, perché sperimento gioie di una profondità inaudita. I single che vanno tutte le sere in discoteca per rimorchiare devono seguire una dura disciplina: devono mantenersi in forma nonostante l’avanzare dell’età, e sono dei miserabili. Lo so bene perché ho avuto familiarità con loro.

Invece sono d’accordo con la sottolineatura del condizionamento esercitato dall’epoca: non viviamo in un’era edonistica, ma in un’era mercantile dove tutto può essere scambiato con qualcos’altro. C’è una pressione per passare da una cosa all’altra rapidamente. Dunque non si tratta solo di un collasso religioso. Certo, c’è un collasso della fede viva che ha avuto luogo a partire dall’Ottocento ed è continuato fino agli anni Settanta del ventesimo secolo; Comunione e Liberazione e don Giussani arrivano in questo quadro a mostrare la vitalità della fede, cammino di vita per l’uomo contemporaneo. Ma il problema è che oggi non abbiamo perduto soltanto la fede: abbiamo perduto la ragione. Non abbiamo perduto soltanto il soprannaturale: abbiamo perduto il naturale. Viviamo l’epoca della fine del progressismo e anche del romanticismo. La società industriale credeva che l’uomo, tornato a casa dal lavoro, poteva trovare un’isola di tenerezza: oggi non più. Quando si torna a casa non si approda a un’isola: si è ancora dispersi, sollecitati dalle merci, dagli schermi, eccetera.

La modernità è stata un’affermazione della razionalità senza la fede, di un progresso esclusivamente umano, fondato sulle forze della natura senza bisogno della Grazia. Ma oggi le forze della natura stesse vengono meno, l’idea di progresso è contestata dal sentimento dell’imminenza di una catastrofe e nessuno crede più nella ragione. Non è più attraverso il progresso del diritto e della morale che la gente aspira a migliorare, ma unicamente attraverso la tecnologia, cioè attraverso una ragione puramente strumentale. Ciò a cui noi assistiamo è un collasso dell’umanesimo stesso e della fiducia che la modernità aveva nell’umanità. E a questo punto ciascuno cerca di fare il proprio gioco per cavarsela col minor danno possibile. Valga l’esempio del movimento Lgbt: ci si dà l’obiettivo della distruzione della differenza sessuale perché si pensa che nemmeno la natura è più un punto di riferimento.


Casadei: Nel 2018 in Italia le separazioni sono state 98.925 di cui 31.651 – cioè quasi un terzo – relative a coniugi sopra i 50 anni. Nel 1990 le separazioni erano 44 mila, di cui solo 7.800 di coniugi sopra i 50, cioè meno di un sesto. L’andamento è simile per quanto riguarda i divorzi. Quel che colpisce nella crisi dei matrimoni è che si separano o divorziano le giovani coppie, ma si separano anche coniugi che hanno convissuto 30-40 anni. Come vi spiegate questa verticalità del fenomeno?

Camisasca: La paura della morte e l’aspettativa di una vita più lunga che in passato sono all’origine della crisi dei matrimoni nei sessantenni-settantenni. La somma delle due cose induce a pensare che anche a sessant’anni ci si possa reinventare la vita completamente, cancellando il passato. Ma noi non possiamo cancellare il passato, solo possiamo rigenerarlo. Non possiamo inventarci tutto da zero, non possiamo inventarci di nuovo chi siamo. Perché siamo corpo e tempo, viviamo nel tempo, e il tempo ci segna e ci condiziona, nel mentre che noi segniamo il tempo e ciò che sta intorno a noi. Siamo corpo, e possiamo perciò riscattare il tempo, ma non cancellarlo. Nel dialogo fra il cardinal Federigo Borromeo e don Abbondio nei Promessi sposi Alessandro Manzoni mette sulle labbra del cardinale un’espressione di san Paolo agli Efesini: «Redimiamo il tempo» (Ef 5,16). Ma la traduce «ricompriamo il tempo», perché pensava in francese: re-acheter, comprare di nuovo. Compriamolo di nuovo, il tempo, ma non immaginiamo che si possa tornare in una situazione edenica in cui ciò che ci precede non conta più niente per noi.

In realtà, tutto ciò che ci ha costituito nel tempo precedente non è un peso. Per capirlo meglio dobbiamo imparare a perdonare. L’assenza di perdono ci impedisce di volare verso il futuro, ma anche di riscattare il passato. Talvolta il nostro passato cancella la possibilità del futuro, se non c’è il perdono; e quindi perdonare vuol dire cominciare a guardare in modo diverso il passato, l’intrigo che esiste fra il bene e il male; cominciare ad accettare la propria limitatezza, la propria fallibilità, le proprie cadute, ad amare veramente se stessi come diceva Gesù; cominciare ad amarci nei nostri limiti, ad assumere una consapevolezza umoristica della vita, che sola può farci vedere la nostra grandezza.

Hadjadj: Le cifre su separazioni e divorzi che Casadei ha citato andrebbero collegate a quelle dei suicidi e dei tassi di fecondità. In Italia il tasso di fecondità è uno dei più bassi d’Europa, in Sardegna è addirittura inferiore a 1, quando il tasso di rimpiazzo è di 2,1 figli per donna. Poi c’è l’aumento dei suicidi giovanili in Europa, che cominciano a essere numerosi come quelli della Corea e del Giappone. Da dove nasce questo odio di sé dell’Occidente, questa disperazione profonda della nostra epoca? Ci preoccupano le cifre dei divorzi, ma il divorzio è anzitutto interiore: oggi si critica ancora l’individualismo, ma come ha spiegato Günther Anders, oggi non ci sono più individui, noi siamo ormai dei “dividui”, cioè esseri sempre più divisi in se stessi, programmati per avere più finestre aperte nello stesso momento, per fare 4-5 cose contemporaneamente. Nel multitasking si manifesta questa sorta di divisione di sé, questa incapacità di dedicarsi a una cosa sola. La divisione in noi stessi ci fa andare molto velocemente da una cosa all’altra, in un ordine che chiamerei pulsionale: premiamo dei bottoni per ottenere dei risultati.


A causa dei nostri schermi la nostra anima è diventata una lavagna magica dove una cosa appare e poi tutto viene cancellato. Il risultato è che non abbiamo più nemmeno il desiderio dell’unità: non dico l’unità con la propria moglie, dico l’unità con se stessi. L’economia di mercato, tecnologico-consumista, è un mondo dove si passa velocemente da una cosa a un’altra e dove la nostra vita è frammentata, e l’innovazione fa sì che sempre si può essere nell’amnesia del tempo precedente. Dunque la struttura stessa del mondo contemporaneo è una struttura che chiama l’uomo alla frammentazione. La questione del divorzio nel matrimonio è la questione della divisione in sé e di una struttura della vita tecnologico-consumista che impone questa divisione e che ci fa disprezzare l’idea stessa di unificare la nostra vita. Per capirlo bisogna ritirarsi da questo gioco di diversione, di dispersione, di smembramento. Se non guardiamo le cose che crescono lentamente, che fruttificano nel tempo, se guardiamo solo l’agitazione dei nostri schermi, la nostra vita interiore sarà a immagine di quest’ultima.

Don Massimo ha introdotto la questione della morte e della longevità. Immaginate un mondo dove tutti gli uomini fossero immortali: non potrebbero fare posto ai loro figli. Terrebbero sempre loro le redini del potere e competerebbero con loro anche per le stesse donne, o per gli stessi uomini. C’è un romanzo di fantascienza intitolato “Time. Enough of love [in italiano Lazarus Long l’immortale, ndr]” che propone la distopia di un mondo dove le persone vivono 300-400 anni. E si vede che quando uno vive così tanto, diventa impossibile amare qualcuno. Se ho tantissimo tempo, posso rifare la mia vita più volte, posso sempre ricominciare da zero. Ma ci sarà competizione fra le generazioni e incapacità a fissare il proprio amore. Ora è evidente che l’attuale aumento della speranza di vita crea una dispersione rispetto al passato; nel passato si divorziava meno anche perché le donne morivano prima: le donne morivano di parto a 30-40 anni, e gli uomini si risposavano senza bisogno di divorziare. La nostra società è la prima che generalizza il fatto di invecchiare insieme al di là dei 50-60 anni, cosa in precedenza piuttosto rara. Ora è diventata la norma; siamo davanti a un’esperienza nuova, di modo che occorre pensare l’amore senescente: amarsi ancora quando si è vecchi.

Per questo torno sulla citazione di Manzoni e di san Paolo che ha fatto don Massimo e che riguarda il “ricomprare il tempo”, il “redimere” il tempo secondo la traduzione francese della Bibbia di Gerusalemme. Non c’è che Cristo che può redimere il tempo: è la grande affermazione di san Paolo. Detto in altre parole, è l’eternità che riscatta il tempo. Oggi mi sembra sempre più che sia compito del cristiano riscattare il tempo. Non basta sapere che il tempo è salvato nell’eternità: occorre che a partire dall’eternità noi si ritrovi la nostra storicità, si ritrovi il senso dell’invecchiare insieme e morire sazi di giorni, come Abramo e Sara. L’unità temporale della vita contro la frammentazione avviene se quello che farò lo farò in Cristo, attraverso l’unità della fede, della speranza e della carità. Questo riunificherà la vita che vivo; che è divisa in numerosi compiti, ma a partire dal Cristo c’è un filo rosso che è il filo del suo sangue redentore che riscatta il tempo e permette di rimettere tutte insieme le piccole perle frammentate della nostra vita.

Casadei: La tecnologizzazione della vita umana a cui stiamo assistendo comporta anche un’intensa tecnologizzazione dei rapporti sessuali e della fecondità: contraccezione, fecondazione assistita, Viagra, pillola del giorno dopo hanno avuto un impatto sul nostro rapporto col sesso e con la fecondità, e quindi sulla famiglia; al centro non c’è più il mistero del rapporto fra uomo e donna, la tensione fra il desiderio di unicità e di eternità dell’amore a quell’unica persona e la tentazione di nuovi rapporti; i dispositivi tecnologici applicati ai rapporti sessuali contribuiscono decisamente a far pendere la bilancia dalla parte dell’adulterio, come temeva Paolo VI nell’Humanae vitae, e spostano l’attenzione sulla performance e sul prodotto (il concepimento diventa un prodotto), a scapito dell’approfondimento del rapporto col coniuge. Cosa si deve fare per salvare la famiglia dalla liquidità dei rapporti? Fuoriuscire dalla società della tecnologia, costituire una polis parallela, più naturale? Ma il compito dei cristiani è di essere sale della terra, testimoniare Cristo agli uomini, e non si assolve questo compito se ci si separa dagli uomini. Come si esce da questa impasse?

Hadjadj: Nella contraccezione il seme dell’uomo non è più il liquido che va verso l’altro e che può generare la vita, ma è il liquido che si può gettare per terra, così come nella matrice di una donna, senza nessuna differenza. Non è che un puro liquido che non approda a niente. Quando si parla di società liquida, di liquefazione dei rapporti, forse il primo luogo dove questo si manifesta è il fatto di utilizzare pillole contraccettive che riducono ciò che è seme a liquido sterile.

Humanae vitae è un testo assolutamente eccezionale, dove si vede il carattere profetico del Magistero. E bisogna ricordare che a quell’epoca molti cristiani erano favorevoli alla contraccezione, persino l’ambiente attorno a Paolo VI era orientato in quel senso. Perché si credeva che la contraccezione avrebbe impedito gli aborti. Si pensava: più c’è contraccezione, meno ci sono aborti, e sembrava una cosa molto logica. E invece che cosa è successo? Che più c’è contraccezione, più ci sono aborti. È un dato controintuitivo, ma che ha una spiegazione: più si avanza nella logica della contraccezione, più il figlio diventa un progetto di benessere, ma per essere un progetto di benessere deve venire quando quando voglio, se lo voglio, come lo voglio… Evidentemente non stiamo più parlando di figli. Ma al tempo tutto questo era controintuitivo, ed ecco che Paolo VI vede, fra i primi, che attraverso la contraccezione c’è una tecnologizzazione del rapporto sessuale e l’avvento del paradigma tecnocratico. Quando la tecnologia tocca la sessualità, diventa la matrice della vita umana. E tutto viene assorbito nel paradigma tecnocratico, di cui parlerà Francesco nella Laudato si’.

Questo è il tipo di società in cui noi siamo: siamo nel pensiero della pianificazione, un pensiero calcolante. E la questione di avere un figlio è affrontata anch’essa in termini utilitaristici: cosa ci guadagno ad avere un figlio, cosa ci guadagna lui, che soffrirà e morirà, che vivrà in un mondo che va male? E io sarò un buon padre? Al termine di questi calcoli, non posso dirmi «è una cosa buona avere figli». Non è bene per me, ma non è una cosa buona nemmeno per loro. Le logiche utilitaristiche non partono dalla bontà intrinseca dell’essere. Leggiamo nell’Ecclesiaste 7,29: «Ecco, solo questo ho trovato: Dio ha fatto l’uomo retto, ma gli uomini hanno ricercato molti artifici», che si può tradurre “molti calcoli”. E che cos’è questa “dirittura”? Ho un corpo che va nel senso del donare la vita, il mio corpo è indirizzato verso quell’avvenire, ed ecco che con i miei calcoli posso spezzare questa “dirittura” e far sì che l’avvenire non sia più un avvenire, ma una proiezione dei miei calcoli.

Ma riscattare il tempo significa anche ricordare che il tempo è segnato da avvenimenti. Il faraone ha ordinato che tutti i figli degli ebrei siano affogati nel Nilo. Ed ecco che un bambino nasce e non viene annegato, e sarà adottato niente meno che dalla figlia del faraone, una cosa assolutamente inimmaginabile: diventerà il liberatore del suo popolo. Abbiamo l’avvenimento della Natività: siamo nel mondo di Augusto, Roma e l’Impero dominano, ed ecco che il grande avvenimento è la nascita in un luogo ignorato dal mondo del Salvatore del popolo. Tutto ciò significa che il tempo è l’avvenimento. Anche se la Terra è condannata, anche se la fine del mondo è annunciata dalla scienza, può esserci uno strappo: lo strappo dell’avvenimento, del Messia, di un avvenire che non poteva essere previsto. La Rivelazione cristiana ci permette di riscattare il tempo e di ricomprenderlo come “dirittura”, di smettere di distorcerlo in funzione della nostra pianificazione che diviene sempre sterile e distruttrice. Non dico che non bisogna avere progetti, perché certamente la prudenza umana lo esige, ma pensare che il dono della vita sia fondato lui stesso su questi progetti, è sbagliato. Il dono della vita non fa parte di ciò che si può catturare.
Nella domanda viene chiesto come si può uscire dal paradigma tecnologico. È molto difficile, perché la domanda stessa è marcata da questo paradigma: presuppone che per uscire dal paradigma occorra una ricetta. Il mondo tecnologico non è semplicemente il mondo degli oggetti tecnologici, ma un paradigma, e questo significa che riguarda la nostra mentalità, che noi vediamo tutto in una prospettiva tecnologica: il techno logos ha sostituito il logos. Non si può uscirne semplicemente attraverso ricette o progetti tecnici, e nemmeno con una teoria. L’unico modo di uscirne è trovare dei luoghi di vita dove è proposto un altro atteggiamento. Questo ci porta alla questione della polis parallela: non può essere completamente parallela, perché altrimenti saremmo come gli Amish, separati dal mondo; ma Dio ci ha voluti nel mondo per operare in esso. Tuttavia è molto importante ritrovare delle pratiche che ci strappino al mondo pulsionale della tecnologia. Come la preghiera regolare, la liturgia delle Ore, il lavoro della terra, il lavoro manuale artigiano. Come la regolarità di mettersi intorno alla tavola, che è luogo vero di raduno della comunità cristiana: se ciascuno mangia per conto suo in funzione dei suoi affari… Il tema fondamentale è ritrovare delle buone pratiche che ci permettano di riscattare il tempo.

Camisasca: Sono istintivamente contrario ad ogni immagine di città parallela: tradirebbe il cristianesimo. Si tratta di tradurre in ogni tempo l’espressione sintetica e problematica di Gesù: «Voi siete nel mondo ma non siete del mondo». Non si può essere nel mondo se si è del mondo, questo è il paradosso che il mondo non capisce. Come suggerisce Cristo, per essere nel mondo bisogna scoprire continuamente un’origine fuori dal mondo. Non si tratta di costruire città parallele, ma di avere chiara consapevolezza di ciò che si è ricevuto e delle forme nuove in cui ciò che si è ricevuto esige di essere vissuto e tramandato. Le pratiche a cui Fabrice faceva riferimento sono quelle di san Benedetto: la preghiera, il lavoro manuale, sedersi a tavola insieme. Questo non significa che dobbiamo ripetere Benedetto, vuol dire però che dobbiamo immergerci in quell’acqua per potere trovare delle forme per questo nostro tempo. Tenendo conto che la città parallela è illusoria anche perché noi cristiani viviamo le stesse tentazioni degli altri uomini. Noi non siamo mai paralleli agli altri, siamo sempre con gli altri, perché viviamo le stesse tentazioni. La libertà è l’esperienza a cui dobbiamo continuamente rifarci: la libertà non è volare di fiore in fiore, come pensava don Giovanni, ma scoprire l’infinita possibilità di bene che ci è offerta da quel fiore che nel tempo abbiamo riconosciuto come il fiore della nostra esistenza. Non mi riferisco soltanto alla moglie per il marito, o al marito per la moglie: i fiori sono i figli, gli amici, le poesie e la musica che amiamo, eccetera.

Anch’io più leggo l’Humanae vitae e più scopro la grandezza di Paolo VI, che ha avuto il coraggio di entrare in contrasto con la stragrande maggioranza dei teologi del suo tempo e con le stesse commissioni che lui aveva nominato. Ha avuto il coraggio di una grande solitudine profetica. Qual è il cuore dell’insegnamento di Paolo VI? Che non dobbiamo mai separare affettività e sessualità. Perché la separazione fra sessualità e affettività porta ad un impoverimento del rapporto sessuale, che è sganciato dalla progressività della conoscenza di sé e dell’altro. La sessualità viene così ridotta a fonte di un piacere meccanico, troppo breve per essere veramente umano. Una delle frasi che più mi colpiscono di Agostino dice: «Tutto ciò che finisce è troppo breve». Agostino di amplessi se ne intendeva molto più di me, eppure scrive «tutto ciò che finisce è troppo breve». La separazione fra affettività e sessualità porta a una difficoltà nel rapporto con il proprio corpo, e infine a un rifiuto della sessualità. Mi colpisce vedere, nel dialogo con tanti giovani, che per molti la sessualità è qualcosa di negativo, di brutto. Forse il diffondersi della pornografia radicalizza questa divisione tragica fra sessualità e affettività. Fa dell’uomo una macchina destinata alla morte e del desiderio di vita qualcosa di confinato nella mente, slegato dal corpo e dalla terra.

Casadei: Hadjadj ha parlato di pratiche per riscattare il tempo, don Massimo in un intervento su Tempi recentemente ha citato “La piccola regola per le famiglie” di don Gianluca Attanasio, parroco a Torino. Cosa deve contenere una regola per la vita familiare che sia veramente di aiuto?

Hadjadj: Che cos’è una Regola di vita? Ci sono regole per la scienza e ci sono regole per l’artigianato, ma la vita non è né una semplice idea, né una cosa da fabbricare. Si può pensare una Regola di vita solo al di fuori di una logica procedurale. Papa Francesco parla spesso di processo, che è qualcosa di molto diverso dalla procedura. La procedura ha regole che le preesistono, mentre un processo scopre le sue regole man mano che si dispiega. Una Regola di vita non può essere un precetto che basta applicare, perché la vita non è una costruzione, ed è sia spirituale che carnale. Una Regola di vita deve necessariamente strapparci al moralismo e allo spiritualismo ottocenteschi, ai quali ha fatto riferimento don Massimo, le cui regole non erano le regole della vita, ma regole imposte dall’esterno.

È molto importante che nelle famiglie cristiane si legga la Bibbia. Perché la Bibbia ci ricorda che la vita cristiana è drammatica, che i nostri precetti nascono da una storia viva, ricca di imprevisti e fallimenti, dove spesso si ricade ed è necessario il perdono per unificare il tempo: pensate alle cose terribili che accadono nella storia di Davide. Io vedo oggi molti cristiani che divorziano, perché non riconoscono la dimensione drammatica della vita, e quando si imbattono nelle difficoltà del matrimonio non superano lo scandalo. Occorre ricollocare la morale cristiana in una drammatica biblica, è una maniera molto importante di ritrovare che cos’è una regola di vita, cioè non “di vita” ma “da vita”.

Se si vuole un Regola di vita, un focolare deve essere ancora un focolare. Che cos’è un focolare? Un fuoco, che raccoglie le persone intorno. In passato nelle case non c’era un termosifone in ogni camera, toccava mettersi tutti attorno al fuoco. E la nozione di focolare suppone giustamente delle pratiche focali con le quali ci si raccoglie. Che cosa si fa insieme? Si parte dalla disponibilità gratuita, non da preoccupazioni utilitaristiche: passando del tempo insieme si arriva a fare delle cose insieme. Le pratiche manuali sono molto importanti, può essere anche il gioco, gli strumenti musicali suonati insieme, eccetera. Ma la cosa più importante è collegare lo sguardo di Dio su di noi con il nostro sguardo sugli altri. Il modo in cui ci si lascia guardare da Dio e in cui ci si dice che Dio ci ama e ci ammira malgrado le nostre debolezze, rifletterlo sulle membra dei nostri amici. Perché il problema della vita quotidiana è che c’è un’usura dello sguardo. Ma Dio ha detto che ero cosa buona sin dall’origine e dopo il diluvio ha detto che ero cosa buona nonostante il peccato. Parto da questa ammirazione di Dio per me e faccio di nuovo traboccare questo sguardo di Dio sugli altri. Passo del tempo ad ammirare la mia donna, i miei figli, anche se non mi piacciono più, perché non è una cosa di livello umano, è una cosa che viene dall’Alto, è l’ammirazione di Dio, che non meritiamo e che facciamo debordare sul nostro prossimo. Il bambino non cresce che sotto lo sguardo dei suoi genitori; al bambino non basta riuscire in qualcosa, si volta verso i genitori e dice: “Guardate cosa sto facendo!”. E in quel momento fiorisce. Il padre di famiglia diventa focolare lui stesso nel momento in cui grazie allo sguardo di ammirazione sulle persone attorno a sé permette al suo prossimo di crescere. Ma questa ammirazione non è una dimensione umana, c’è perché io stesso mi sono messo ogni mattina sotto lo sguardo di ammirazione di Dio.

Casadei: Diceva don Massimo nella sua prima risposta che la crisi del matrimonio corrisponde a una crisi di fede dei suoi contraenti. Allora per salvare la famiglia bisogna dare priorità alla cura della fede prima che avere cura della famiglia?

Camisasca: Non c’è un prima e un poi. Non possiamo educare la fede astraendo dalle situazioni concrete in cui le persone si trovano. Bisogna favorire il sorgere di comunità di famiglie in cui la fede venga scoperta come rapporto vitale sia con Cristo che con i fratelli e le sorelle. La fede matura non è un pacchetto di certezze che ci viene consegnato. Come vivere insieme? Come perdonare? Come ascoltarsi? Come accettare la diversità? Come accettare o scegliere di avere dei figli? Come educare? Cosa sacrificare al lavoro? E il rapporto con gli amici? E con la famiglia d’origine? Non ci sono risposte deduttive che possono essere date una volta per tutte. La fede è un incontro che si rinnova dentro una storia, che ci ha raggiunto con Cristo e che segna la strada.
Se è vero che non c’è nulla da inventare radicalmente, c’è però tutto da riscoprire. La mia esperienza di questi anni mi ha portato a credere nella positività delle comunità di famiglie, purché abbiano una chiarezza su quale sia il senso del loro essere assieme. Non basta mettersi assieme. C’è un rischio oggi nella Chiesa: quello di sostituire al dottrinalismo la sociologia. Non basta mettersi assieme e mangiare una pizza: occorre una direzione. E questa direzione è data anche da presenze all’interno di queste famiglie, che aiutano a indicarla e a trovare i passi con cui viverla giorno dopo giorno.

 

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