Come (e perché) provare a riattizzare oggi quel “focolare domestico” che appare così irrimediabilmente affievolito da individualismo, consumismo, paradigma tecnologico, crisi della fede?
Appunti da una formidabile conversazione con Camisasca e Hadjadj
Il 26 giugno si è concluso l’Anno della
Famiglia Amoris Laetitia voluto da papa Francesco, che ha approfondito i
contenuti dell’esortazione apostolica del 2016. Sulle difficoltà che la
famiglia incontra oggi Tempi ha organizzato una tavola rotonda con due dei suoi
più apprezzati collaboratori: monsignor Massimo Camisasca, vescovo emerito di
Reggio Emilia e Guastalla, e Fabrice Hadjadj, filosofo e direttore
dell’Istituto Philanthropos di Friburgo. Questa è una sintesi degli interventi.
* * *
Camisasca: L’Italia è un paese di lunga
tradizione cristiana. Ciò che accade nella Chiesa prima o poi influisce
fortemente sulla vita sociale e viceversa, perché la Chiesa vive dentro la
realtà storica che vivono tutti. All’origine della crisi del matrimonio, in
particolare di quello in chiesa, vi è una crisi radicale della fede nelle
nostre comunità. Improvvisamente, nell’arco di due generazioni, i figli non
hanno più saputo riconoscere la convenienza della fede che i loro genitori
vivevano. Uso la parola “convenienza” nel significato che le ha dato don Luigi
Giussani: non sono stati aiutati a riconoscere la pertinenza della fede alle
attese della vita, hanno sentito la comunità cristiana come un mondo a parte
che non sapeva più vivere in questo mondo con gioia.
Non è immediato vedere la convenienza
della fede. Io ho vissuto la mia adolescenza senza vederla. Solo nell’incontro
con don Giussani l’ho riconosciuta. Sempre di più dai ragazzi la fede è stata
vista come qualcosa di giustapposto alla vita e incapace di essere fiamma.
Mentre le fede è una fiamma. Ma una fiamma ha bisogno dell’aria per restare
accesa, e qual è l’aria della fede? La sua capacità di illuminare la vita, di
mostrare che essere cristiani è fonte di gioia, di un’umanità più vera e di una
maggiore consistenza nel mondo, nel mentre che si attraversano persecuzioni.
In secondo luogo direi che la fede non è
stata più mostrata come la radice della maturità affettiva. La Chiesa in molti
casi non ha saputo indicare strade autentiche di maturità affettiva. Talvolta è
rimasta chiusa nei “no” dell’educazione ottocentesca. E a questo proposito
bisogna dire che la crisi della fede in Italia, che si riverbera sul
matrimonio, è stata preparata dal moralismo dell’educazione cattolica
dell’Ottocento e primo Novecento, cioè da una predicazione legata ai “no” ai
desideri della Terra e ai “sì” ai desideri del Cielo, che però non erano
mostrati nella loro incidenza sulla vita quotidiana. Oppure, nella stragrande
maggioranza si è adeguata alle risposte del mondo. Quindi non ha saputo
mostrare delle relazioni capaci di far risorgere dal narcisismo e dalla
morbosità, i due rischi che impediscono la maturità affettiva.
La crisi della fede si è incrociata con
una crisi della società sempre più individualista, sempre più insicura perché
governata dai sentimenti, e governata dai sentimenti perché così piace al
mercato. Il mercato vuole l’uomo solo, che può consumare perché non ha molte
responsabilità, che è governato dalla mutabilità dei sentimenti i quali lo
spingono a cercare il suo volto nel prodotto che gli viene offerto.
Per quanto riguarda il fenomeno delle convivenze, io ho accostato decine di conviventi e molti li ho accompagnati al matrimonio sacramentale. Vedo nelle convivenze soprattutto un grido: «Vorremmo, ma non ne siamo più capaci». Perché l’uomo abbandonato alle sole sue forze psichiche ed emotive non è capace di fedeltà, non è capace di futuro. Cancellando Dio si cancella anche l’uomo nelle sue aspirazioni più profonde.
Hadjadj: La domanda chiede di
spiegare perché il buon esempio genitoriale si riveli insufficiente. La
risposta è che nella formazione cristiana non c’è niente di automatico: gli
esempi migliori possono sfociare nei risultati peggiori. Basta guardare al
giardino dell’Eden: Adamo ed Eva hanno ricevuto la loro educazione direttamente
da Dio, eppure gli hanno voltato le spalle. Perché c’è una cosa che si chiama
libertà umana, che costituisce la dimensione drammatica della nostra fede.
Nella storia non c’è nulla di lineare: grano e loglio crescono insieme, c’è una
dimensione apocalittica per cui andiamo contemporaneamente verso il meglio e
verso il peggio. Non guardiamo solo ai fallimenti, consideriamo i tanti che
vivono il matrimonio cristiano oggi senza il sostegno di una cristianità e
senza il sostegno della società umana: sono testimonianze più forti di quanto
siano mai state in passato. Non dobbiamo avere paura della crisi odierna: la
dimensione drammatica fa parte del dato della Rivelazione.Fa brice Hadjadj
Nella domanda poi c’è l’idea che se ci
si allontana dal matrimonio è a causa dell’edonismo. Così si sottintende che il
matrimonio è faticoso e noioso, e che andare a donne è il vero piacere. Su
questo ho grossi dubbi: io credo che è anche per edonismo che si dovrebbe
scegliere il matrimonio! Non dico che si tratti di un piacere facile, ma ci
sono delle gioie nel matrimonio. Io che sono padre di nove figli so che è dura,
che ci sono sempre delle crisi, ma allo stesso tempo so che sono nel posto
giusto, perché sperimento gioie di una profondità inaudita. I single che vanno
tutte le sere in discoteca per rimorchiare devono seguire una dura disciplina:
devono mantenersi in forma nonostante l’avanzare dell’età, e sono dei
miserabili. Lo so bene perché ho avuto familiarità con loro.
Invece sono d’accordo con la
sottolineatura del condizionamento esercitato dall’epoca: non viviamo in un’era
edonistica, ma in un’era mercantile dove tutto può essere scambiato con
qualcos’altro. C’è una pressione per passare da una cosa all’altra rapidamente.
Dunque non si tratta solo di un collasso religioso. Certo, c’è un collasso
della fede viva che ha avuto luogo a partire dall’Ottocento ed è continuato
fino agli anni Settanta del ventesimo secolo; Comunione e Liberazione e don
Giussani arrivano in questo quadro a mostrare la vitalità della fede, cammino
di vita per l’uomo contemporaneo. Ma il problema è che oggi non abbiamo perduto
soltanto la fede: abbiamo perduto la ragione. Non abbiamo perduto soltanto il
soprannaturale: abbiamo perduto il naturale. Viviamo l’epoca della fine del
progressismo e anche del romanticismo. La società industriale credeva che
l’uomo, tornato a casa dal lavoro, poteva trovare un’isola di tenerezza: oggi
non più. Quando si torna a casa non si approda a un’isola: si è ancora dispersi,
sollecitati dalle merci, dagli schermi, eccetera.
La modernità è stata un’affermazione della razionalità senza la fede, di un
progresso esclusivamente umano, fondato sulle forze della natura senza bisogno
della Grazia. Ma oggi le forze della natura stesse vengono meno, l’idea di
progresso è contestata dal sentimento dell’imminenza di una catastrofe e
nessuno crede più nella ragione. Non è più attraverso il progresso del diritto
e della morale che la gente aspira a migliorare, ma unicamente attraverso la
tecnologia, cioè attraverso una ragione puramente strumentale. Ciò a cui noi
assistiamo è un collasso dell’umanesimo stesso e della fiducia che la modernità
aveva nell’umanità. E a questo punto ciascuno cerca di fare il proprio gioco
per cavarsela col minor danno possibile. Valga l’esempio del movimento Lgbt: ci
si dà l’obiettivo della distruzione della differenza sessuale perché si pensa
che nemmeno la natura è più un punto di riferimento.
Casadei: Nel 2018 in Italia le separazioni sono state 98.925 di cui 31.651 – cioè quasi un terzo – relative a coniugi sopra i 50 anni. Nel 1990 le separazioni erano 44 mila, di cui solo 7.800 di coniugi sopra i 50, cioè meno di un sesto. L’andamento è simile per quanto riguarda i divorzi. Quel che colpisce nella crisi dei matrimoni è che si separano o divorziano le giovani coppie, ma si separano anche coniugi che hanno convissuto 30-40 anni. Come vi spiegate questa verticalità del fenomeno?
Camisasca: La paura della morte e
l’aspettativa di una vita più lunga che in passato sono all’origine della crisi
dei matrimoni nei sessantenni-settantenni. La somma delle due cose induce a
pensare che anche a sessant’anni ci si possa reinventare la vita completamente,
cancellando il passato. Ma noi non possiamo cancellare il passato, solo
possiamo rigenerarlo. Non possiamo inventarci tutto da zero, non possiamo
inventarci di nuovo chi siamo. Perché siamo corpo e tempo, viviamo nel tempo, e
il tempo ci segna e ci condiziona, nel mentre che noi segniamo il tempo e ciò
che sta intorno a noi. Siamo corpo, e possiamo perciò riscattare il tempo, ma
non cancellarlo. Nel dialogo fra il cardinal Federigo Borromeo e don Abbondio
nei Promessi sposi Alessandro Manzoni mette sulle labbra del cardinale
un’espressione di san Paolo agli Efesini: «Redimiamo il tempo» (Ef 5,16). Ma la
traduce «ricompriamo il tempo», perché pensava in francese: re-acheter,
comprare di nuovo. Compriamolo di nuovo, il tempo, ma non immaginiamo che si
possa tornare in una situazione edenica in cui ciò che ci precede non conta più
niente per noi.
In realtà, tutto ciò che ci ha costituito nel tempo precedente non è un
peso. Per capirlo meglio dobbiamo imparare a perdonare. L’assenza di perdono ci
impedisce di volare verso il futuro, ma anche di riscattare il passato. Talvolta
il nostro passato cancella la possibilità del futuro, se non c’è il perdono; e
quindi perdonare vuol dire cominciare a guardare in modo diverso il passato,
l’intrigo che esiste fra il bene e il male; cominciare ad accettare la propria
limitatezza, la propria fallibilità, le proprie cadute, ad amare veramente se
stessi come diceva Gesù; cominciare ad amarci nei nostri limiti, ad assumere
una consapevolezza umoristica della vita, che sola può farci vedere la nostra
grandezza.
Hadjadj: Le cifre su separazioni e divorzi che Casadei ha citato andrebbero collegate a quelle dei suicidi e dei tassi di fecondità. In Italia il tasso di fecondità è uno dei più bassi d’Europa, in Sardegna è addirittura inferiore a 1, quando il tasso di rimpiazzo è di 2,1 figli per donna. Poi c’è l’aumento dei suicidi giovanili in Europa, che cominciano a essere numerosi come quelli della Corea e del Giappone. Da dove nasce questo odio di sé dell’Occidente, questa disperazione profonda della nostra epoca? Ci preoccupano le cifre dei divorzi, ma il divorzio è anzitutto interiore: oggi si critica ancora l’individualismo, ma come ha spiegato Günther Anders, oggi non ci sono più individui, noi siamo ormai dei “dividui”, cioè esseri sempre più divisi in se stessi, programmati per avere più finestre aperte nello stesso momento, per fare 4-5 cose contemporaneamente. Nel multitasking si manifesta questa sorta di divisione di sé, questa incapacità di dedicarsi a una cosa sola. La divisione in noi stessi ci fa andare molto velocemente da una cosa all’altra, in un ordine che chiamerei pulsionale: premiamo dei bottoni per ottenere dei risultati.
A causa dei nostri schermi la nostra
anima è diventata una lavagna magica dove una cosa appare e poi tutto viene
cancellato. Il risultato è che non abbiamo più nemmeno il desiderio dell’unità:
non dico l’unità con la propria moglie, dico l’unità con se stessi. L’economia
di mercato, tecnologico-consumista, è un mondo dove si passa velocemente da una
cosa a un’altra e dove la nostra vita è frammentata, e l’innovazione fa sì che
sempre si può essere nell’amnesia del tempo precedente. Dunque la struttura
stessa del mondo contemporaneo è una struttura che chiama l’uomo alla
frammentazione. La questione del divorzio nel matrimonio è la questione della
divisione in sé e di una struttura della vita tecnologico-consumista che impone
questa divisione e che ci fa disprezzare l’idea stessa di unificare la nostra
vita. Per capirlo bisogna ritirarsi da questo gioco di diversione, di
dispersione, di smembramento. Se non guardiamo le cose che crescono lentamente,
che fruttificano nel tempo, se guardiamo solo l’agitazione dei nostri schermi,
la nostra vita interiore sarà a immagine di quest’ultima.
Don Massimo ha introdotto la questione
della morte e della longevità. Immaginate un mondo dove tutti gli uomini
fossero immortali: non potrebbero fare posto ai loro figli. Terrebbero sempre
loro le redini del potere e competerebbero con loro anche per le stesse donne,
o per gli stessi uomini. C’è un romanzo di fantascienza intitolato “Time.
Enough of love [in italiano Lazarus Long l’immortale, ndr]” che propone la
distopia di un mondo dove le persone vivono 300-400 anni. E si vede che quando
uno vive così tanto, diventa impossibile amare qualcuno. Se ho tantissimo
tempo, posso rifare la mia vita più volte, posso sempre ricominciare da zero.
Ma ci sarà competizione fra le generazioni e incapacità a fissare il proprio
amore. Ora è evidente che l’attuale aumento della speranza di vita crea una
dispersione rispetto al passato; nel passato si divorziava meno anche perché le
donne morivano prima: le donne morivano di parto a 30-40 anni, e gli uomini si
risposavano senza bisogno di divorziare. La nostra società è la prima che
generalizza il fatto di invecchiare insieme al di là dei 50-60 anni, cosa in
precedenza piuttosto rara. Ora è diventata la norma; siamo davanti a
un’esperienza nuova, di modo che occorre pensare l’amore senescente: amarsi
ancora quando si è vecchi.
Per questo torno sulla citazione di Manzoni e di san Paolo che ha fatto don
Massimo e che riguarda il “ricomprare il tempo”, il “redimere” il tempo secondo
la traduzione francese della Bibbia di Gerusalemme. Non c’è che Cristo che può
redimere il tempo: è la grande affermazione di san Paolo. Detto in altre
parole, è l’eternità che riscatta il tempo. Oggi mi sembra sempre più che sia
compito del cristiano riscattare il tempo. Non basta sapere che il tempo è
salvato nell’eternità: occorre che a partire dall’eternità noi si ritrovi la
nostra storicità, si ritrovi il senso dell’invecchiare insieme e morire sazi di
giorni, come Abramo e Sara. L’unità temporale della vita contro la
frammentazione avviene se quello che farò lo farò in Cristo, attraverso l’unità
della fede, della speranza e della carità. Questo riunificherà la vita che
vivo; che è divisa in numerosi compiti, ma a partire dal Cristo c’è un filo
rosso che è il filo del suo sangue redentore che riscatta il tempo e permette
di rimettere tutte insieme le piccole perle frammentate della nostra vita.
Casadei: La tecnologizzazione della vita umana a cui stiamo assistendo comporta anche un’intensa tecnologizzazione dei rapporti sessuali e della fecondità: contraccezione, fecondazione assistita, Viagra, pillola del giorno dopo hanno avuto un impatto sul nostro rapporto col sesso e con la fecondità, e quindi sulla famiglia; al centro non c’è più il mistero del rapporto fra uomo e donna, la tensione fra il desiderio di unicità e di eternità dell’amore a quell’unica persona e la tentazione di nuovi rapporti; i dispositivi tecnologici applicati ai rapporti sessuali contribuiscono decisamente a far pendere la bilancia dalla parte dell’adulterio, come temeva Paolo VI nell’Humanae vitae, e spostano l’attenzione sulla performance e sul prodotto (il concepimento diventa un prodotto), a scapito dell’approfondimento del rapporto col coniuge. Cosa si deve fare per salvare la famiglia dalla liquidità dei rapporti? Fuoriuscire dalla società della tecnologia, costituire una polis parallela, più naturale? Ma il compito dei cristiani è di essere sale della terra, testimoniare Cristo agli uomini, e non si assolve questo compito se ci si separa dagli uomini. Come si esce da questa impasse?
Hadjadj: Nella contraccezione il seme
dell’uomo non è più il liquido che va verso l’altro e che può generare la vita,
ma è il liquido che si può gettare per terra, così come nella matrice di una
donna, senza nessuna differenza. Non è che un puro liquido che non approda a
niente. Quando si parla di società liquida, di liquefazione dei rapporti, forse
il primo luogo dove questo si manifesta è il fatto di utilizzare pillole
contraccettive che riducono ciò che è seme a liquido sterile.
Humanae vitae è un testo assolutamente
eccezionale, dove si vede il carattere profetico del Magistero. E bisogna
ricordare che a quell’epoca molti cristiani erano favorevoli alla
contraccezione, persino l’ambiente attorno a Paolo VI era orientato in quel
senso. Perché si credeva che la contraccezione avrebbe impedito gli aborti. Si
pensava: più c’è contraccezione, meno ci sono aborti, e sembrava una cosa molto
logica. E invece che cosa è successo? Che più c’è contraccezione, più ci sono
aborti. È un dato controintuitivo, ma che ha una spiegazione: più si avanza
nella logica della contraccezione, più il figlio diventa un progetto di
benessere, ma per essere un progetto di benessere deve venire quando quando
voglio, se lo voglio, come lo voglio… Evidentemente non stiamo più parlando di
figli. Ma al tempo tutto questo era controintuitivo, ed ecco che Paolo VI vede,
fra i primi, che attraverso la contraccezione c’è una tecnologizzazione del
rapporto sessuale e l’avvento del paradigma tecnocratico. Quando la tecnologia
tocca la sessualità, diventa la matrice della vita umana. E tutto viene
assorbito nel paradigma tecnocratico, di cui parlerà Francesco nella Laudato
si’.
Questo è il tipo di società in cui noi
siamo: siamo nel pensiero della pianificazione, un pensiero calcolante. E la
questione di avere un figlio è affrontata anch’essa in termini utilitaristici:
cosa ci guadagno ad avere un figlio, cosa ci guadagna lui, che soffrirà e
morirà, che vivrà in un mondo che va male? E io sarò un buon padre? Al termine
di questi calcoli, non posso dirmi «è una cosa buona avere figli». Non è bene
per me, ma non è una cosa buona nemmeno per loro. Le logiche utilitaristiche
non partono dalla bontà intrinseca dell’essere. Leggiamo nell’Ecclesiaste 7,29:
«Ecco, solo questo ho trovato: Dio ha fatto l’uomo retto, ma gli uomini hanno
ricercato molti artifici», che si può tradurre “molti calcoli”. E che cos’è
questa “dirittura”? Ho un corpo che va nel senso del donare la vita, il mio
corpo è indirizzato verso quell’avvenire, ed ecco che con i miei calcoli posso
spezzare questa “dirittura” e far sì che l’avvenire non sia più un avvenire, ma
una proiezione dei miei calcoli.
Ma riscattare il tempo significa anche
ricordare che il tempo è segnato da avvenimenti. Il faraone ha ordinato che
tutti i figli degli ebrei siano affogati nel Nilo. Ed ecco che un bambino nasce
e non viene annegato, e sarà adottato niente meno che dalla figlia del faraone,
una cosa assolutamente inimmaginabile: diventerà il liberatore del suo popolo.
Abbiamo l’avvenimento della Natività: siamo nel mondo di Augusto, Roma e
l’Impero dominano, ed ecco che il grande avvenimento è la nascita in un luogo
ignorato dal mondo del Salvatore del popolo. Tutto ciò significa che il tempo è
l’avvenimento. Anche se la Terra è condannata, anche se la fine del mondo è
annunciata dalla scienza, può esserci uno strappo: lo strappo dell’avvenimento,
del Messia, di un avvenire che non poteva essere previsto. La Rivelazione
cristiana ci permette di riscattare il tempo e di ricomprenderlo come
“dirittura”, di smettere di distorcerlo in funzione della nostra pianificazione
che diviene sempre sterile e distruttrice. Non dico che non bisogna avere
progetti, perché certamente la prudenza umana lo esige, ma pensare che il dono
della vita sia fondato lui stesso su questi progetti, è sbagliato. Il dono
della vita non fa parte di ciò che si può catturare.
Nella domanda viene chiesto come si può uscire dal paradigma tecnologico. È
molto difficile, perché la domanda stessa è marcata da questo paradigma:
presuppone che per uscire dal paradigma occorra una ricetta. Il mondo
tecnologico non è semplicemente il mondo degli oggetti tecnologici, ma un
paradigma, e questo significa che riguarda la nostra mentalità, che noi vediamo
tutto in una prospettiva tecnologica: il techno logos ha sostituito il logos.
Non si può uscirne semplicemente attraverso ricette o progetti tecnici, e nemmeno
con una teoria. L’unico modo di uscirne è trovare dei luoghi di vita dove è
proposto un altro atteggiamento. Questo ci porta alla questione della polis
parallela: non può essere completamente parallela, perché altrimenti saremmo
come gli Amish, separati dal mondo; ma Dio ci ha voluti nel mondo per operare
in esso. Tuttavia è molto importante ritrovare delle pratiche che ci strappino
al mondo pulsionale della tecnologia. Come la preghiera regolare, la liturgia
delle Ore, il lavoro della terra, il lavoro manuale artigiano. Come la
regolarità di mettersi intorno alla tavola, che è luogo vero di raduno della
comunità cristiana: se ciascuno mangia per conto suo in funzione dei suoi
affari… Il tema fondamentale è ritrovare delle buone pratiche che ci permettano
di riscattare il tempo.
Camisasca: Sono istintivamente
contrario ad ogni immagine di città parallela: tradirebbe il cristianesimo. Si
tratta di tradurre in ogni tempo l’espressione sintetica e problematica di
Gesù: «Voi siete nel mondo ma non siete del mondo». Non si può essere nel mondo
se si è del mondo, questo è il paradosso che il mondo non capisce. Come
suggerisce Cristo, per essere nel mondo bisogna scoprire continuamente
un’origine fuori dal mondo. Non si tratta di costruire città parallele, ma di
avere chiara consapevolezza di ciò che si è ricevuto e delle forme nuove in cui
ciò che si è ricevuto esige di essere vissuto e tramandato. Le pratiche a cui
Fabrice faceva riferimento sono quelle di san Benedetto: la preghiera, il
lavoro manuale, sedersi a tavola insieme. Questo non significa che dobbiamo
ripetere Benedetto, vuol dire però che dobbiamo immergerci in quell’acqua per
potere trovare delle forme per questo nostro tempo. Tenendo conto che la città
parallela è illusoria anche perché noi cristiani viviamo le stesse tentazioni
degli altri uomini. Noi non siamo mai paralleli agli altri, siamo sempre con
gli altri, perché viviamo le stesse tentazioni. La libertà è l’esperienza a cui
dobbiamo continuamente rifarci: la libertà non è volare di fiore in fiore, come
pensava don Giovanni, ma scoprire l’infinita possibilità di bene che ci è
offerta da quel fiore che nel tempo abbiamo riconosciuto come il fiore della
nostra esistenza. Non mi riferisco soltanto alla moglie per il marito, o al
marito per la moglie: i fiori sono i figli, gli amici, le poesie e la musica
che amiamo, eccetera.
Anch’io più leggo l’Humanae vitae e più scopro la grandezza di Paolo VI, che ha avuto il coraggio di entrare in contrasto con la stragrande maggioranza dei teologi del suo tempo e con le stesse commissioni che lui aveva nominato. Ha avuto il coraggio di una grande solitudine profetica. Qual è il cuore dell’insegnamento di Paolo VI? Che non dobbiamo mai separare affettività e sessualità. Perché la separazione fra sessualità e affettività porta ad un impoverimento del rapporto sessuale, che è sganciato dalla progressività della conoscenza di sé e dell’altro. La sessualità viene così ridotta a fonte di un piacere meccanico, troppo breve per essere veramente umano. Una delle frasi che più mi colpiscono di Agostino dice: «Tutto ciò che finisce è troppo breve». Agostino di amplessi se ne intendeva molto più di me, eppure scrive «tutto ciò che finisce è troppo breve». La separazione fra affettività e sessualità porta a una difficoltà nel rapporto con il proprio corpo, e infine a un rifiuto della sessualità. Mi colpisce vedere, nel dialogo con tanti giovani, che per molti la sessualità è qualcosa di negativo, di brutto. Forse il diffondersi della pornografia radicalizza questa divisione tragica fra sessualità e affettività. Fa dell’uomo una macchina destinata alla morte e del desiderio di vita qualcosa di confinato nella mente, slegato dal corpo e dalla terra.
Casadei: Hadjadj ha parlato di pratiche per riscattare il tempo, don Massimo in un intervento su Tempi recentemente ha citato “La piccola regola per le famiglie” di don Gianluca Attanasio, parroco a Torino. Cosa deve contenere una regola per la vita familiare che sia veramente di aiuto?
Hadjadj: Che cos’è una Regola di
vita? Ci sono regole per la scienza e ci sono regole per l’artigianato, ma la
vita non è né una semplice idea, né una cosa da fabbricare. Si può pensare una
Regola di vita solo al di fuori di una logica procedurale. Papa Francesco parla
spesso di processo, che è qualcosa di molto diverso dalla procedura. La
procedura ha regole che le preesistono, mentre un processo scopre le sue regole
man mano che si dispiega. Una Regola di vita non può essere un precetto che
basta applicare, perché la vita non è una costruzione, ed è sia spirituale che
carnale. Una Regola di vita deve necessariamente strapparci al moralismo e allo
spiritualismo ottocenteschi, ai quali ha fatto riferimento don Massimo, le cui
regole non erano le regole della vita, ma regole imposte dall’esterno.
È molto importante che nelle famiglie
cristiane si legga la Bibbia. Perché la Bibbia ci ricorda che la vita cristiana
è drammatica, che i nostri precetti nascono da una storia viva, ricca di
imprevisti e fallimenti, dove spesso si ricade ed è necessario il perdono per
unificare il tempo: pensate alle cose terribili che accadono nella storia di
Davide. Io vedo oggi molti cristiani che divorziano, perché non riconoscono la
dimensione drammatica della vita, e quando si imbattono nelle difficoltà del
matrimonio non superano lo scandalo. Occorre ricollocare la morale cristiana in
una drammatica biblica, è una maniera molto importante di ritrovare che cos’è
una regola di vita, cioè non “di vita” ma “da vita”.
Se si vuole un Regola di vita, un focolare deve essere ancora un focolare. Che cos’è un focolare? Un fuoco, che raccoglie le persone intorno. In passato nelle case non c’era un termosifone in ogni camera, toccava mettersi tutti attorno al fuoco. E la nozione di focolare suppone giustamente delle pratiche focali con le quali ci si raccoglie. Che cosa si fa insieme? Si parte dalla disponibilità gratuita, non da preoccupazioni utilitaristiche: passando del tempo insieme si arriva a fare delle cose insieme. Le pratiche manuali sono molto importanti, può essere anche il gioco, gli strumenti musicali suonati insieme, eccetera. Ma la cosa più importante è collegare lo sguardo di Dio su di noi con il nostro sguardo sugli altri. Il modo in cui ci si lascia guardare da Dio e in cui ci si dice che Dio ci ama e ci ammira malgrado le nostre debolezze, rifletterlo sulle membra dei nostri amici. Perché il problema della vita quotidiana è che c’è un’usura dello sguardo. Ma Dio ha detto che ero cosa buona sin dall’origine e dopo il diluvio ha detto che ero cosa buona nonostante il peccato. Parto da questa ammirazione di Dio per me e faccio di nuovo traboccare questo sguardo di Dio sugli altri. Passo del tempo ad ammirare la mia donna, i miei figli, anche se non mi piacciono più, perché non è una cosa di livello umano, è una cosa che viene dall’Alto, è l’ammirazione di Dio, che non meritiamo e che facciamo debordare sul nostro prossimo. Il bambino non cresce che sotto lo sguardo dei suoi genitori; al bambino non basta riuscire in qualcosa, si volta verso i genitori e dice: “Guardate cosa sto facendo!”. E in quel momento fiorisce. Il padre di famiglia diventa focolare lui stesso nel momento in cui grazie allo sguardo di ammirazione sulle persone attorno a sé permette al suo prossimo di crescere. Ma questa ammirazione non è una dimensione umana, c’è perché io stesso mi sono messo ogni mattina sotto lo sguardo di ammirazione di Dio.
Casadei: Diceva don Massimo nella sua prima risposta che la crisi del matrimonio corrisponde a una crisi di fede dei suoi contraenti. Allora per salvare la famiglia bisogna dare priorità alla cura della fede prima che avere cura della famiglia?
Camisasca: Non c’è un prima e un poi.
Non possiamo educare la fede astraendo dalle situazioni concrete in cui le
persone si trovano. Bisogna favorire il sorgere di comunità di famiglie in cui
la fede venga scoperta come rapporto vitale sia con Cristo che con i fratelli e
le sorelle. La fede matura non è un pacchetto di certezze che ci viene
consegnato. Come vivere insieme? Come perdonare? Come ascoltarsi? Come
accettare la diversità? Come accettare o scegliere di avere dei figli? Come
educare? Cosa sacrificare al lavoro? E il rapporto con gli amici? E con la
famiglia d’origine? Non ci sono risposte deduttive che possono essere date una
volta per tutte. La fede è un incontro che si rinnova dentro una storia, che ci
ha raggiunto con Cristo e che segna la strada.
Se è vero che non c’è nulla da inventare radicalmente, c’è però tutto da
riscoprire. La mia esperienza di questi anni mi ha portato a credere nella
positività delle comunità di famiglie, purché abbiano una chiarezza su quale
sia il senso del loro essere assieme. Non basta mettersi assieme. C’è un
rischio oggi nella Chiesa: quello di sostituire al dottrinalismo la sociologia.
Non basta mettersi assieme e mangiare una pizza: occorre una direzione. E questa
direzione è data anche da presenze all’interno di queste famiglie, che aiutano
a indicarla e a trovare i passi con cui viverla giorno dopo giorno.
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