ARSLAN
: L’ODIO ANTI ARMENO È ANCHE ANTI-CRISTIANO
L’odio anti-armeno si intreccia con l’odio anti-cristiano:
«Risorgente incubo di annientamento non solo fisico, ma che coinvolge la
memoria della sua identità e della sua fede». Il commento della scrittrice Antonia Arslan per Avvenire.
Non è una delle splendide antiche chiese e
monasteri che sorgono qua e là nelle posizioni più pittoresche, evocando
antiche glorie e cavalieri erranti, e neppure un edificio moderno, opera di uno
dei raffinati architetti armeni. Sono due grandissime figure umane stilizzate,
scolpite nel tufo rossastro dallo scultore Sargis
Baghdasaryan nel 1967, che rappresentano un uomo e una donna in forme
squadrate ma riconoscibili, che si stagliano, estremamente suggestive, sullo
sfondo delle montagne che le circondano. Anche il titolo della scultura è molto
suggestivo: “We are our mountains”
(“Noi siamo le nostre montagne”), un’umile ma fiera dichiarazione di
appartenenza. Ma la gente del posto ha dato alla scultura un soprannome
affettuoso molto speciale, che si è imposto nel tempo, perfino nelle cartoline
postali: le due figure
sono chiamate Dadik e Babik, nonna e nonno: sono il nonno e la nonna di tutti,
che proteggono il popolo delle valli. E veramente tali appaiono nella loro
forza primitiva, quasi un avvertimento, la porta d’ingresso a un piccolo e
autentico mondo antico.
Questo gruppo di montanari,
col loro peculiare dialetto e i loro antichi usi e costumi, è infatti l’unica
parte (annidata da millenni in quelle appartate vallate del Caucaso) del
variegato mondo armeno che ha conservato – fino all’inizio dell’epoca sovietica
– addirittura una classe nobiliare: i “melik” dell’Artsakh, cinque famiglie che
governavano dai loro castelli un territorio ancora feudale.
Ma tutto questo coesisteva
con molta attenzione al progresso: la capitale del tempo, Shushi, sormontata
dalla sua imprendibile fortezza, era una città vivacissima in cui coesistevano
e si incrociavano popoli e culture, con teatri, tipografie, giornali di varie
tendenze politiche, non a caso chiamata «la Parigi del Caucaso». E durante la
tragedia del genocidio del 1915-22, non essendo sudditi dell’Impero ottomano,
gli armeni del luogo non subirono la sorte dei loro fratelli d’Anatolia. Stepanakert, la capitale dell'Artsakh
Bisognerebbe ricordare però
che l’Artsakh non è soltanto una piccola, pittoresca regione di montagna; è
stato per molti secoli, fino a tutto l’Ottocento, un importante snodo di
comunicazioni tra Oriente e Occidente, uno dei percorsi della via della seta.
Ed è ancora di grande importanza strategica per le comunicazioni via terra fra
Est e Ovest. Ma oggi – e finalmente si comincia a parlarne – dopo il blocco
dell’unica strada che ancora collegava l’Artsakh al mondo esterno (il
cosiddetto “corridoio di Lachin”),
con uno spietato assedio durato nove mesi, che ha portato la popolazione allo
stremo, l’Azerbaigian – che è armato fino ai denti, e assistito “come un
fratello di sangue” dall’alleata Turchia di Erdogan – ha sferrato un ultimo
micidiale attacco militare. Questo
non certo a caso il 19 settembre, proprio mentre era in corso a New York
l’annuale assemblea dell’Onu; e dopo aver solennemente garantito al presidente
del Consilgio Ue Michel – che era convinto di aver operato una mediazione – che
comunque non avrebbe attaccato...
Oggi tutto quel mondo è crollato, e abbiamo assistito a un esodo praticamente totale dei circa 120mila abitanti ancora in loco, in fuga dalle milizie azere con ogni mezzo e in ogni modo possibile, ben consapevoli del destino di umiliazione e segregazione (se non di morte...) che incombe su di loro. Nel silenzio pressoché totale dei capi di Stato occidentali, dagli Usa di Biden e Blinken alla Ue di von der Leyen e Michel, dall’Inghilterra alla nostra silenziosa Italia (solo la Francia dice qualcosa, per antica amicizia verso gli armeni), è tutto un coro muto di bocche cucite e tremebonde: non sia mai che un po’ di gas ci venga negato... Anzi, in sovrappiù, il nostro Paese ha venduto all’Azerbaigian armi e aerei!
Oggi i membri del governo
della piccola Repubblica sono stati dichiarati da Baku criminali di guerra, e
vengono ricercati come tali; circolano video in cui soldati azeri si
impadroniscono delle case sparando all’impazzata, e mostrando in ogni atto
quell’odio anti-armeno che è stato incessantemente coltivato in loro dal regime
totalitario di Aliev, che governa come un monarca assoluto per diritto
ereditario. Tutto
viene poi postato sui social, come la distruzione (avvenuta ieri) della Croce
cristiana che brillava sopra la capitale. A quando il destino degli amati Babik
e Papik, divenuti un simbolo odiato di un popolo di cui si desidera
l’annientamento?
L’odio anti-armeno si
intreccia e potenzia con l’odio anti-cristiano: il popolo martire che un
secolo fa, durante il genocidio, ha perso tre quarti della sua realtà numerica,
assistendo in seguito alla cancellazione di ogni traccia della sua presenza in
Anatolia (la distruzione delle chiese e delle croci di pietra, e perfino il
cambiamento dell’onomastica di città e paesi, di luoghi, fiumi, montagne dove
era presente da millenni), si deve confrontare oggi con un risorgente incubo di
annientamento, che non è solo fisico, coinvolge la stessa memoria della sua
esistenza e della fede che definisce la sua identità. E ha un esempio preciso
davanti agli occhi: la
distruzione di ogni traccia della sua presenza nel territorio del Nakhicevan,
l’altra regione armena attribuita da Stalin all’Azerbaigian nel 1921. Là, sono
state dissepolte perfino le fondamenta delle chiese e dei monasteri – e
distrutti persino i cimiteri: l’ultimo caso nel 2007, con le ruspe in azione.
Infine, dovrebbe suonare un campanello d’allarme non dico nei cuori, ma certo
nelle teste dei governi occidentali il fatto che il presidente turco Erdogan
non fa mistero della sua intenzione di congiungere via terra il territorio
turco con quello azero tagliando in due l’Armenia, nel sogno imperiale di
quell’espansione verso Oriente che era il progetto dei Giovani Turchi, cento e
quindici anni fa...».
Antonia Arslan |
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