martedì 17 ottobre 2023

PIZZABALLA: PREGARE È LA NOSTRA ARMA PER FERMARE L’ODIO


Il patriarca di Gerusalemme ha lasciato i lavori sinodali per stare vicino alla sua gente

Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, è tornato nella Città Santa, lasciando i lavori del Sinodo. Un pastore deve stare con il suo gregge. Specie se ha addosso la porpora, con il suo pregnante significato. E infatti, ieri, a chi gli chiedeva se fosse disposto all’eventualità di uno scambio di prigionieri tra lui e bambini tenuti in ostaggio da Hamas a Gaza, ha risposto con prontezza: « Assolutamente sì».

Brani da alcune interviste

La linea della Chiesa può apparire equidistante e fatica a portare a casa risultati, non trova?

Il mio compito non è quello di portare a casa un risultato, è quello di essere voce, di lavorare per la giustizia, ma anche di dire le cose con chiarezza, di non cedere al gioco molto facile che c’è qui, quello delle due narrative: uno contrapposto all’altro, quindi o stai con gli uni o stai con gli altri. Tutti e due sono parte della mia attività, del mio servizio. Ed è chiaro che in questo contesto di grande lacerazione, di grande tensione, anche se non porterai a casa alcunché, sarà però importante essere la voce che crede che sia possibile fare qualcosa insieme. Poi il tempo è galantuomo, ma se lo scopo è portare a casa subito i risultati, allora siamo falliti in partenza.

C’è il tema, per esempio, degli ostaggi. Ecco, figure importanti dal punto di vista religioso come la sua possono in qualche modo svolgere un ruolo da questo punto di vista?

La disponibilità c’è senz’altro, non si discute, ma in questo momento, ripeto, in questo preciso istante, vedo ogni possibilità di mediazione non ancora possibile perché non c’è la volontà. Manca anche l’interlocutore. Con chi mediare dall’altra parte? Un’altra parte, realisticamente, in questo momento non c’è. Si dovrà attendere, penso, la fine delle ostilità militari, se non altro per capire con chi si potrà parlare, se c’è un interlocutore, se c’è una volontà di mediazione. La disponibilità senza altro c’è, ma sarà molto difficile: è una situazione totalmente nuova per noi. La difficoltà principale subito dopo questa guerra sarà non tanto ricostruire le macerie fisiche ma quelle relazionali.

Intanto, però, ha lanciato con forza l’idea di una giornata di digiuno e di preghiera, per oggi, che è stata ampiamente ripresa e fatta propria in moltissime Chiese di tutto il mondo.

Eminenza, si aspettava un’adesione così grande alla proposta?

Sapevo che molte persone, molte Chiese nel mondo avrebbero aderito, ma l’adesione è stata molto più ampia di quanto pensassi. Anche il Papa domenica ne ha parlato all’Angelus, chiedendo di unirsi alla preghiera e di questo gli sono profondamente grato, anche a nome dei cristiani di Terra Santa. Sono molto contento di questo segno di unità di cui abbiamo estremamente bisogno.

Quale sarà la sua personale preghiera?

La mia preghiera sarà innanzitutto un grido. Cioè portare al Signore il dolore di queste comunità: comunità ebraica, islamica, cristiana, ciascuno in maniera molto diversa. E anche il mio personale dolore, la lacerazione, che avverto come tutti nel mio intimo e la offrirò al Signore. E poi chiederò di trovare un lume, una parola, che mi aiuti, ci aiuti tutti, a leggere questa situazione e a dargli per quanto possibile un senso.

 

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