martedì 17 settembre 2024

IL MALE E L'AMORE CHE SALVA

La tragedia di Paderno Dugnano e gli interrogativi che apre: «Il problema non è tanto educare a una modalità di vita, ma a chiedersi perché, e per cosa, vivere».

 

Congdon "LA TENTAZIONE DI GESU'
Regalare al male l'illusione della vittoria

La tragica vicenda del diciassettenne Riccardo che uccide il fratello, la madre e il padre senza un’apparente ragione impressiona e interroga. Da quanto si apprende, non ha indicato altro movente se non un malessere personale di cui voleva liberarsi. C’è un mistero talmente insondabile nel manifestarsi di un male così disumano che la prima reazione è quella di un silenzio pieno di struggimento. Il dolore per le vittime (e per il colpevole, che si trova ora davanti un’intera vita segnata da ciò che ha compiuto) si amplifica rivolgendo lo sguardo ai tanti giovani che avvertono un malessere simile e spesso lo comunicano in vari modi, ma altrettanto spesso lo nascondono dentro. Questo disagio assume la forma di un vuoto interiore e di un isolamento radicale che non è confinato a casi particolari. Anzi, nessuno ne è davvero esente.

La prima esigenza che avvertiamo, al di là dei casi di cronaca, è quella di interrogarci e tentare di comprendere che cosa vi sia all’origine di certi fenomeni, consapevoli che essa rimane in fondo un mistero inattingibile. Molti intellettuali, giornalisti ed esperti sono intervenuti sull’argomento; alcuni in particolare hanno ritenuto opportuno ricordare, ad «una società che si rifiuta di vedere l'abisso davanti a sé», che «nel mondo la presenza attiva del male invece esiste» (Susanna Tamaro, 
Corriere della Sera, 4 settembre). «Un male insondabile, dunque vicino e possibile anche a noi» (Maurizio Crippa, Il Foglio, 4 settembre).

Invasi come tutti da un senso di smarrimento, viene però da chiedersi se questo disagio non trovi terreno fertile nella concezione di libertà in cui siamo immersi. Libertà intesa come autonomia totale, come pretesa che io basti a me stesso, per cui l’unico orizzonte di compimento ammissibile è la realizzazione dei miei desideri e dei miei progetti, spesso derivati da aspettative imposte dalla società. Secondo questa visione l’altro non solo non ha diritto di aiutarmi a capire chi sono ma tende a diventare addirittura un nemico. L’esito drammatico, senza distinzioni di età, è la rottura dei legami: magari non ci si isola fisicamente, ma si perde il senso di questi nessi, con il rischio di ritrovarsi annoiati o perfino depressi, sempre più vuoti e soli perché incapaci di riconoscere che il rapporto con l’altro ci definisce come persone.

In un simile contesto, affermare che l’emergenza è l’educazione vuol dire avere a cuore il destino di tutti noi. Ascoltare i giovani e prendere sul serio le loro domande è decisivo, ma non basta se non c’è anche qualcuno che indichi una strada e la condivida con loro, come in modo semplice ci testimoniano i nonni di Riccardo, che non lo hanno abbandonato. Niente è più necessario di genitori e insegnanti che propongano ai giovani un’ipotesi di senso per la vita. A scuola, in particolare, andrebbe favorito questo coinvolgimento, in modo che i ragazzi e le ragazze possano davvero verificare delle proposte educative. La tendenza, invece, sembra essere quella di silenziare queste voci, nel nome di una malintesa concezione della laicità come neutralità. Il problema non è tanto educare a una modalità di vita ma educare a chiedersi perché, e per cosa, vivere. Quel bisogno di senso che cerchiamo di mascherare in tanti modi è infatti un’aspirazione ineliminabile, anche nelle sue espressioni più aride o perfino tragiche. Ciò che desideriamo, più o meno consapevolmente, è qualcuno che ci ami, che riconosca il nostro valore, che ci liberi dal male.

Un amore così sembra impossibile. Eppure c’è stato un momento nella storia in cui si è presentato e ha preteso di essere tale nei tratti di un volto che ha un nome ben preciso: Gesù di Nazareth. Come accaduto alla donna samaritana di cui narra il Vangelo: Gesù decise di fare la strada più ardua, attraverso il deserto, e di giungere al pozzo in un’ora del giorno alla quale nessuno vi andava, appositamente per parlare con quella donna. Quell’incontro la salva: Dio stesso si è scomodato per lei. È l’inizio di una vita nuova, la possibilità di uno sguardo su di sé e sulla realtà carico di speranza. Così è anche per noi. Fragili e limitati come tutti, di fronte all’abisso inspiegabile del male non abbiamo da offrire al mondo nulla se non questo amore che riceviamo a nostra volta e un’amicizia come luogo dove farne esperienza.

Settembre 2024

COMUNIONE E LIBERAZIONE

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Per una migliore comprensione del dipinto di Congdon  consiglio di leggere il seguente testo di RODOLFO BALZAROTTI

 

https://www.ilsussidiario.net/news/cultura/2018/3/2/congdon-la-tentazione-di-gesu-regalare-al-male-l-illusione-della-vittoria/809383/

 

(OMISSIS)

 Dunque, i suoi lavori di soggetto liturgico sono piuttosto una personalissima meditazione sui misteri della fede, una sorta di “catechesi in pittura” cui l’artista americano, cresciuto nel contesto della pittura newyorkese degli anni 40-50, si dedicò con entusiasmo per più di un lustro, nutrendosi della lettura di quel capolavoro della teologia del Novecento che fu Il Signore di Romano Guardini

Sta di fatto che molti di questi dipinti furono suggeriti a Congdon dal tempo liturgico corrente. È il caso della Tentazione di Gesù, eseguita il 21 di marzo del 1963, cioè nella settimana tra la III e la IV domenica di Quaresima. E il vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto rientra appunto nel ciclo delle letture quaresimali della Chiesa. 

 

 Le dimensioni cospicue dell’opera permettono all’artista di dare la misura piena del suo talento che conserva molto della sua iniziale formazione di scultore. L’immagine ha qualcosa del bassorilievo, soprattutto nella parte di destra, riservata all’informe massa del demonio che si avventa sulla bianca figura del Cristo, quasi schiacciato contro il margine sinistro del dipinto. Quest’ultima, dal canto suo, ha la solidità e la compattezza di una statua a tutto tondo. Secondo un impianto compositivo tipico di Congdon, l’opera è letteralmente spaccate in due parti: nerastra e grigia con bagliori metallici (davvero “luciferini”), quella di destra; bianca, con il capo color oro brunito, quella di sinistra; nell’una prevalgono le direttrici orizzontali, segnate dalle caotiche e violente incisioni della spatola nello spesso pigmento scuro; nella seconda prevalgono quelle verticali, nelle pieghe ascendenti del mantello di Cristo che fa da sostegno alla testa.

La figura di Cristo sta, quindi, solida ed eretta come una torre, pur se lievemente inclinata all’indietro, quasi a subire il minaccioso assalto del capo proteso di Satana che, simile a quello di un rettile o di un rapace, punta proprio al cuore di Gesù.

L’opera è quindi di una drammaticità assoluta, senza compromessi, e la stele bianca del Cristo sembra quasi mancare di spazio, essere messa, letteralmente, “alle strette”, lasciando pressoché l’intera regione in preda alle forze del male. In un certo senso, si prefigura l’estremo dramma della crocifissione e morte del Salvatore del mondo, che permette a queste ultime di scatenarsi fino in fondo.

Ma in questo lembo di spazio domina sereno il capo di Gesù, il cui volto, privo di dettagli fisiognomici, è pura luce, solo incorniciato dal fregio dei capelli (gli stessi capelli che nei crocefissi congdoniani lo velano luttuosamente). Ancora una prefigurazione,  ma stavolta della Resurrezione.

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