domenica 11 agosto 2019

IL TOTALITARISMO DI CHI GRIDA AL FASCISMO CHE NON C'È



Salvini punta al voto anticipato dunque sta tornando il fascismo. Perché evocare le elezioni in Italia è diventato un problema di regime? Ignoranza e vocazione totalitaria dei presunti colti. Un'indagine di Marco Patricelli e Lorenzo Castellani tra passato e presente

Evocare le elezioni in Italia è diventato pericoloso, soprattutto quando le previsioni della vittoria non sono favorevoli ai partiti ideali della presunta classe colta.
 Si disquisisce di democrazia, ma non appena se ne palesa la forma all'orizzonte - il voto - si guarda tutto con sospetto e stato d'allerta se l'esito non è quello atteso dai benpensanti.

O vince la mia parte, o è dittatura, pensa colui che si crede democratico ed è solo un fanatico della sua piccola monarchia.

Così quando Matteo Salvini ha detto di puntare a elezioni anticipate (cielo, il voto! che pretesa) è (ri)spuntato con regolare ignoranza il dibattito di quelli che la sanno lunga (e la vedono corta, fino al massimo del loro ombelico),  il tema niente meno che del "fascismo", naturalmente del nazismo e lo spettro degli anni Trenta.

Uno stupidario storico e politico tragicomico e desolante di cui sono protagonisti assoluti i cosiddetti "competenti" della bolla dei social network, i nuovi haters-chic, i grillini con la griffe, gli incompresi a prescindere con il rancore d'ordinanza, una classe di falliti descritta magistralmente da Ettore Scola ne "La Terrazza", una commediante élite al cartoccio talmente smaterializzata nel virtuale da non lasciare nessuna traccia nella realtà quotidiana.

Proviamo a riportare la questione del totalitarismo sulla terra, ben sapendo quanto sia vano chiedere di usare la ragione al tipo sovrumano che crede di camminare sull'acqua, mentre sta affogando con il salvagente nella vasca da bagno. 

Buona lettura.
tratto da LIST


Stupidario dei professionisti dell'antifascismo
di Marco Patricelli

Prima ancora che Leonardo Sciascia mettesse in guardia dai mafiosi e dai professionisti dell’antimafia, Ennio Flaiano aveva messo in guardia dai due tipi di fascismi che ci sono in Italia: quello propriamente detto e l’antifascismo. Scolorano l’uno nell’altro quando il settarismo diventa estremo e la pretesa di detenere la sola e unica verità è un monolite dogmatico, manicheo e inscalfibile. Da qualche tempo è stato lanciato e ripetuto in maniera ossessiva l’allarme fascismo, declinato in tutte le forme e in tutte le salse, che avrebbe come denominator comune Matteo Silvini, incarnazione del male contemporaneo e di ogni deriva autoritaria.
25 LUGLIO 2019 : pastasciutta antifascista
C’è chi ci crede, chi fa finta di crederci e anche chi ritiene conveniente crederlo, forse, paradosso dei paradossi, pure lo stesso Salvini. Più i fantasmi aleggiano, meno le cose diventano concrete, più è facile piegare la realtà ai desideri. Viene il dubbio, però, che tanto evocare il fascismo, la dittatura, il totalitarismo, nei modi e nelle forme in cui viene agitato in tutto e per tutto, con una facilità di etichettatura più rapida del macchinario che applica il bollino blu alle note banane, celi una profonda ignoranza della genesi e dello sviluppo dei grandi totalitarismi del Novecento. Per dirla chiaramente, si parla di ciò che non si sa ma che si orecchia, suppergiù, un tanto al chilo, tre palle un soldo, e tanto basta. Salvini chiede “pieni poteri” dalle urne? Eccolo scodellato, l’emulo del giornalista di Predappio al quale era bastato paventare di trasformare l’aula sorda e grigia del parlamento in un bivacco per i suoi manipoli di camicie nere e far tremare l’Italietta degli Anni ‘20. Solo che le camicie verdi leghiste sono da tempo in armadio o in naftalina, assieme alla bevuta dell’acqua sorgiva del Po da parte di Bossi e alle sbevazzate dei campi della Lega Nord con riti celtici da folklore di plastica. Il linguaggio salviniano, si mettano il cuore in pace le anime candide e gli stilnovisti della politica, è quello del bar, delle osterie, della strada, non quello delle alchimie farmacistiche da “convergenze parallele”, da “compromesso storico”, da “non sfiducia”, da “operazioni di polizia internazionale” (eufemismo coniato per aggirare il divieti costituzionale sulla parola guerra, in Iraq e nell’ex Jugoslavia).

Sarà mancanza di stile, sarà un linguaggio rozzo e volgarotto, e non c’è da dubitarne affatto, ma non si può neanche dubitare dell’immediatezza  del recepimento di messaggi in un Paese alla deriva culturale in cui i testi Invalsi hanno rivelato che gli studenti non capiscono il senso di una frase scritta in italiano. Il fascismo, oltre a provenire da un’altra epoca storica e con situazioni irripetibili, dalle quale non si può prendere quel che si vuole e tralasciare tutto il resto, è un’altra cosa. Ed è morto e sepolto.
Non regge neppure l’altra apparente similitudine, spettro sempre utile a confermare l’aforisma di Churchill secondo cui la democrazia è la peggiore forme di governo eccettuate tutte le altre, sulla presa del potere di Hitler con libere elezioni. L’austriaco ex caporale bavarese ed ex artista fallito, dotato di un’indubbia oratoria, dopo un esordio balbettante e un patetico tentativo di prendere il potere a Monaco nel 1922, lo costruì promettendo ai tedeschi quel che volevano sentirsi dire, con una sola omissione: tutto il sistema si poteva reggere con una guerra di spoliazione, come tutti gli economisti ben sanno, che era un esito obbligato. Fu una democrazia malata, come quella di Weimar, che nel 1933 si illuse di sfruttarne la forza elettorale e la forza bruta per svuotarlo di quel potere che invece conquistò violentemente ed esercitò per dodici anni di rovine e disastri epocali. Nessuno ha fatto parallelismi storici sulla presa del potere da parte di Lenin, nella seconda rivoluzione russa del 1917, che spodestò il carattere socialdemocratico della prima di Kerenskij: volendo, anche qui ci sarebbe materiale per un’elucubrazione di storia controfattuale, che però a sinistra risulta ancora indigesta al solo nominare le giornate di ottobre (in realtà novembre, secondo il nostro calendario sul quale quello russo-giuliano era in ritardo) che non siano immancabilmente “radiose”. Stalin vietò che durante la “grande guerra patriottica” – ma anche prima, quindi con l’eccezione dell’alleanza con Hitler che ebbe pieno vigore dal 23 agosto 1939 al 22 giugno 1941 – si usasse il termine “nazista” per indicare il nemico ideologico per eccellenza. Era la contrazione della parola “nazionalsocialista”, e contenendo appunto “socialista” poteva far scattare qualche meccanismo di riflessione non gradito al regime totalitario, che tende ad assomigliare anche a quello che combatte. Ecco perché nei libri, nella pubblicistica e nella propaganda di guerra e dopoguerra, appare solo e sistematicamente la parola “fascista”. Proprio quella riesumata da sinistra con stucchevole tam tam, per definire senza mai definire ciò che non l’aggrada, che avversa, che ritiene contro la sua storia e la sua ideologia, che va combattuto e possibilmente annientato.
Lo stesso Berlusconi, per vent’anni pericolo pubblico numero uno, si vide affibbiare come primo nomignolo quello di “cavaliere nero”. Ma poiché i nemici vanno cambiati di quando in quando, anche per motivi anagrafici e situazionali, ecco lo stagionato e sovrappeso ragazzotto lumbard disarcionare in ogni senso il cavaliere di Arcore. Forattini rappresentò con sistematica regolarità Bettino Craxi con camicia nera e stivaloni, rinfocolando persino la leggenda metropolitana che fosse il figlio segreto del duce (leggenda appunto, ma i figli illegittimi di Mussolini sono storia): era l’avversario da abbattere e tutto faceva brodo. Oggi Salvini cavalca l’onda sempre più alta del consenso, la cui principale motivazione sta nel basso livello dell’offerta politica, nello scarso materiale umano, nelle competenze approssimative della classe dirigente, nella delusione verso le ricette sulle pozioni magiche ammannite al popolo italiano negli anni e rivelatisi medicine amare che non curavano affatto uno Stato malato. A questo basta aggiungere il (mal) costume tutto italiano di innalzare gli idoli e poi di abbatterli ripudiandoli. La storia ci fornisce una collezione inesauribile, il passato recente una serie di nomi che, guarda caso, stanno ancora tutti lì, di qua e di là, perfettamente bipartisan.
***
E gli anni Trenta? Cribbio, non lo vedete che sono la stessa cosa? Mettiamo un po' d'ordine, senza aspirare a cambiare il mondo di quelli che sanno tutto e dunque non hanno mai bisogno di confrontarsi con quello che pensa il popolo italiano. Si può ancora scrivere la parola "popolo"? O è troppo fascista metterla sul taccuino senza una nota esplicativa di assoluta fedeltà alla democrazia e ai valori della Carta Costituzionale? 


L'ignorante colto e gli anni Trenta
di Lorenzo Castellani

Repubblica di Weimar, fascismo, dittatura. Anni Trenta. È un ritornello che non annoia mai, quasi tutti quelli che hanno studiato sono pronti ad invocare la decade più oscura, famigerata ed inquietante del ventesimo secolo come metro di paragone con la decadenza ed i cambiamenti politici del presente. L’ascesa del nazional-populismo contemporaneo da anni solletica la fantasia del ceto intellettuale che invoca continuamente il ritorno ai tetri anni Trenta del novecento. Una suggestione in cui confluiscono l’agitazione dello spettro del fascismo, il collasso dell’ordine liberal-democratico, l’implosione della società civile, l’abbrutimento della classe media, la restrizione delle libertà, lo sbrego della Costituzione e, in fondo a tutto, l’inevitabile deriva autoritaria.
Ha senso fare analogie in storia? Se, come vuole l’antico ed inflazionato adagio cicerioniano, la storia è maestra di vita e nel presente si rintracciano sempre frammenti del passato, essa mai si ripete eguale a sé stessa. Ciò non significa che, come hanno creduto alcuni intellettuali progressisti, la storia possa finire, la democrazia sia inattaccabile e che il liberalismo sia destinato a regnare sovrano ed immutato per sempre. La storia è un moto continuo ed ondulato. Non è ciclica e non è linea retta. La verità è sempre nel mezzo e nelle pieghe di una complessità troppo vasta per i paragoni storici e, al tempo stesso, troppo inquietante per non volgere lo sguardo al passato. 
I colti, dunque, devono mettersi d’accordo con se stessi: o la storia è progresso lineare ed esiste un modello universale poliarchico per i regimi politici buoni oppure la storia si ripete o riavvolge, dunque quei modelli si possono frantumare sotto la marcia degli eventi. Tuttavia, non si può teorizzare la fine della storia e poi, di fronte alle deviazioni di percorso, invocare incautamente il pericolo del ritorno agli anni Trenta, a Weimar, al fascismo. E’ uno dei paradossi del progressista. Chi interpreta la storia come una linea retta di ineludibile progresso finisce poi, una volta accaduti eventi imponderabili, per credere alla tesi fasulla dell’identico ricorso storico. Per provare a comprendere e smontare il problema del ritorno degli anni Trenta è necessario ricorrere ai ferri del mestiere: analizzare il potere, le istituzioni, la società. Come erano allora e come sono oggi. Iniziamo il viaggio.
La prima differenza tra oggi e l’era weimariana è quella istituzionale. Le Costituzioni di oggi sono molto più articolate nella difesa di libertà e diritti fondamentali ed incentrate sulla divisione ed il bilanciamento tra poteri di quanto lo fossero allora. Si pensi allo sviluppo e all’influenza delle Corti Costituzionali nel bilanciare le decisioni del potere esecutivo e legislativo. Nelle costituzioni degli anni Trenta non esistevano oppure avevano della competenze molto limitate nel potere intervenire a tutela dei valori costituzionali. Non solo all’epoca le costituzioni erano più fragili, ma anche più isolate. Oggi le corti ed i tribunali sono immersi in circuiti internazionali, in norme sovranazionali ed internazionali, in Europa il diritto europeo stabilito dai trattati, che hanno valore costituzionale, è addirittura sovraordinato a quello nazionale. Molte aree su cui un tempo decideva esclusivamente la politica nazionale sono state devolute ad autorità indipendenti che operano libere dal consenso e dal controllo democratico. Il potere sia dentro che fuori le nazioni è molto più bilanciato e diviso rispetto a novant’anni fa. 
La seconda questione è politica. I partiti nazionalisti (e fascisti) degli anni Trenta erano palesemente avversi alla democrazia. Lo stesso ordine democratico immaginato da socialisti e comunisti era, come la storia ha tristemente dimostrato, molto diversa dalla democrazia liberale che ha fondato l’odierno ordine politico. C’era poi la differente cultura politica. Ad esempio, gran parte dell’opinione pubblica tedesca, a partire dai suoi vertici, considerava la democrazia un impaccio imposto dall’esterno, una forma di Stato che non rispecchiava le sue tradizioni politiche e culturali. I partiti speculavano su questo umore diffuso di avversione alla democrazia. Lo stesso fascismo si alimentava di teorie e filosofie che mettevano chiaramente lo Stato prima della democrazia, l’autorità prima della libertà, il controllo prima del pluralismo. 
I populisti di oggi, al contrario, invocano la democrazia. Declamano un ritorno al passato in cui la sovranità popolare veniva maggiormente valorizzata e controllata dal popolo. Esaltano il potere locale ed il nazionale contro il globale, si battono per riprendere il controllo dei confini e delle decisioni. Dispiegano crociate contro la democrazia rubata e svuotata dall’élite cosmopolita e dalle forme istituzionali di integrazione sovranazionale. Le tracce di questo tipo di ragionamento possono essere ritrovate nei discorsi di tutti i nuovi leader da Donald Trump a Marine LePen, da Matteo Salvini a Victor Orban, da Boris Johnson a Kaczinsky. 
Si presentano come dei democratici nazionalisti invece che come degli autoritari. Intendono ridare al popolo la democrazia, farla tornare al tempo in cui, nella loro interpretazione e quella dei loro seguaci, funzionava davvero. Questi leader, di fatto, sembrano pensare più agli anni ottanta che agli anni Trenta, quando i partiti emergenti erano dichiaratamente ostili alla democrazia. Seppure è vero che, in alcuni di loro, emergono delle venature centraliste soprattutto nei confronti dei poteri non elettivi, come le corti costituzionali e le banche centrali. Più che convinti autoritari, per il momento, questi leader sembrano piuttosto essere iper-democratici. Esprimono una volontà di politicizzazione verso quelle istituzioni depoliticizzate che condizionano la vita dei governi e che hanno caratterizzato i sistemi politici degli ultimi cinquant’anni.
Il terzo livello è quello economico. I banchieri centrali ed i governi hanno imparato dalla storia e la soluzione alla crisi finanziaria del 2007 ha evitato i disastri di quella del 1929. Tuttavia, il quantitative easing e la creazione di un mondo a tassi zero (o quasi) è un sentiero inesplorato, senza un precedente storico recente. Se l’alluvione di denaro sul piano bancario fallirà provocando una nuova crisi navigheremo nell’ignoto. Non c’è precedente o bussola storica che possa indicare una direzione. Ciò che è certo è che le soluzioni adottate e le conseguenze prodotte sono molto diverse dalla crisi economico-finanziaria degli anni Trenta. E, per il momento, hanno saputo gestire meglio la difficoltà evitando che la crisi si trasformasse in una catastrofe come quella di novant’anni fa dove, va sottolineato, pesava molto l’uscita recente dalla guerra mondiale mentre la nostra società esce da settant’anni di pace.
Il quarto elemento di differenza è la diffusione della violenza. Quella degli anni Trenta era una società violenta, molto più di quella presente. Il fascismo, il nazismo ed il comunismo poggiavano sulla violenza fisica. Senza di essa non sarebbero esistiti o probabilmente non avrebbero mai preso il potere. Oggi abbiamo il terrorismo, episodi di violenza individuale e collettiva, insicurezza percepita, ma non è nulla di comparabile all’epoca weimeriana dove gli episodi di violenza politica erano quotidiani così come gli assassini politici e successivamente gli omicidi di massa. Inoltre, i nuovi partiti di massa avevano delle vere e proprie organizzazioni para-militari che li fiancheggiavano; quelli di oggi hanno tweet, video e pagine Facebook. Gli ebrei, i kulaki o gli oppositori politici di Mussolini venivano intimiditi, picchiati e massacrati già prima che i movimenti totalitari prendessero il potere. Invece gli oppositori dei populisti di oggi, per fortuna e giustamente, sono ancora tutti alle loro scrivanie, conducono inchieste, organizzano proteste, fanno rete sui social network, fondano nuovi partiti. Ciò in cui oggi si può incappare è un assalto su Twitter, organizzati dai supporter dei populisti e, allo stesso modo, dai loro oppositori. E’ violenza verbale e psicologica, ma niente a che vedere con le persecuzioni fisiche e gli scontri degli anni trenta. Non si possono mettere a confronto come simili due società con livelli di violenza così diversi. 
La quinta differenza è quella della ricchezza economica. Viviamo in società, per l’intervento dello Stato e per lo sviluppo del capitalismo, che sono immensamente più ricche se comparate a quelle degli anni Trenta. Nessuna democrazia occidentale affluente è stata più vittima di colpi di stato autoritari o di derive dittatoriali negli ultimi quarant’anni. La nostra è una società fortemente diseguale, ma ricca. In quell’epoca il numero dei senzatetto, degli indigenti e degli abbandonati a loro stessi era enorme se equiparato alla vita contemporanea. Le persone che vivono sotto la soglia di povertà sono molto minori rispetto all’Italia degli anni venti e la Germania di Weimar. Lo stesso vale per la disoccupazione, oggi elevata ma all’epoca proporzionalmente molto maggiore, ed è stato acclarato, dal punto di vista storico, che i bassi livelli di occupazione furono una delle cause del successo del nazionalsocialismo. Uomini disperati pronti a cercare una soluzione autoritaria contro le inefficienze della giovane democrazia.
La sesta, e forse più importante, differenza è quella demografica. La nostra società è molto più anziana di quella degli anni Trenta. All’epoca l’età mediana era 25 anni, oggi in quasi tutti i paesi occidentali è superiore a 45. La violenza e l’attivismo politico sono quasi interamente una prerogativa dei giovani. I giovani reduci di guerra, sofferenti di disturbi post-traumatici provocati dal conflitto mondiale, spesso disoccupati, a cui si sommava una generazione di ancor più giovani di disoccupati, venivano ingaggiati nella lotta e nella violenza politica. Una società di anziani raramente potrà scatenare una rivoluzione violenta, al massimo resiste ai cambiamenti più che provocarli. 
Da ultimo c’è il cambiamento dei media. Le radio del passato, e poi le televisioni, erano molto più controllabili dal potere politico. Sia perché si trattava di monopoli ed oligopoli controllati dal governo, sia perché una rivoluzione armata o militare poteva facilmente occuparle durante un colpo di Stato. Oggi la proprietà ed il pluralismo di radio e televisioni sono libere e moltiplicate rispetto ad allora e i social network non sono occupabili fisicamente da nessuno. Possono essere oscurati, certo, ma solo dopo che un regime si è instaurato e consolidato. Inoltre, i social sembrano essere più divisivi e proclivi alla decentralizzazione che non forieri di unità e gerarchia. Non a caso si parla di polarizzazione, per indicare diversi poli d’opinione in contrasto tra loro, che di uniformità o omogeneizzazione. Gli spin doctor possono creare campagne, manipolare messaggi o targettizzare la pubblicità dei post ma nessuna claque politica, per quanto ampia, potrà assumere il controllo dei social o imbavagliare gli oppositori. 
In conclusione, se sommiamo tutti questi fattori insieme ci si renderà conto di come l’analogia con gli anni Trenta sia per lo più infondata sia sul piano del potere e sia su quello che potrebbe accadere nel prossimo futuro. Il vero tratto in comune tra le due società, a parere di chi scrive, è che entrambe sono figlie di uno sviluppo economico e tecnologico impetuoso, hanno attraversato entrambe delle crisi, seppur molto diverse tra loro, e hanno vissuto una reazione dei cittadini nei confronti delle élite politico-economiche al potere. Questo, tuttavia, non significa affatto che le nostre democrazie hanno certamente imboccato la via dell’autoritarismo né che le trasformazioni politiche saranno le stesse, semplicemente perché le differenze tra le due situazioni storiche sono gigantesche (come sempre quando si confrontano epoche differenti). 
Negli anni Trenta, inoltre, le democrazie liberali che sembravano ibernate per l’impossibilità di risolvere i propri problemi politici, si sciolsero sotto la pulsione di spiriti eccitati da una seconda guerra mondiale che ci si attendeva dalla conclusione della prima. Le masse venivano galvanizzate dagli aspiranti dittatori con la prospettiva di una nuova guerra, che veniva vissuta come un passaggio necessario per risolvere i problemi politici e sociali nazionali ed internazionali. Ad oggi, al contrario, le democrazie sembrano più che altro paralizzate dalla difficoltà di gestire la funzione redistributiva dello Stato, di armonizzare i molteplici interessi socio-economici contrapposti, di riavviare la crescita economica e renderla sostenibile. E, sul piano dell’opinione, di riannodare i fili di un dibattito pubblico devastato dai meccanismi polarizzanti ed emotivi degli algoritmi dei social network. I luoghi del dibattito e della decisione, grazie soprattutto ai social, si spostano fuori dalle istituzioni parlamentari e rappresentative. Probabilmente, Mark Zuckerberg è molto più pericoloso per la democrazia moderna di quanto non lo siano Donald Trump e Matteo Salvini. 
Sminare il paragone con gli anni Trenta non significa ovviamente che le democrazie liberali non siano mai esposte al pericolo. Le loro istituzioni corrono sempre il rischio di essere svuotate di poteri e significato da riforme istituzionali o cambiamenti tecnologici che possono avvenire sia sul piano nazionale che sovranazionale. Non è affatto scritto, però, che un indebolimento delle democrazie occidentali avvenga con le stesse modalità degli anni Trenta né che debba finire con lo stesso tragico risultato o con la soppressione dei diritti e delle libertà fondamentali. D’altronde le democrazie sono, per costituzione, sottoposte ad un continuo cambiamento che investe sia le modalità con cui i messaggi ed il consenso si propagano che le élite politiche. Quelli degli anni ottanta e novanta del novecento erano sempre regimi democratici, eppure sembrano molto diversi dalle democrazie del 2020. Forse si dovrebbe accettare di non confondere la crisi dell’egemonia culturale della sinistra liberal, o magari del modo d’intendere il liberalismo fino ad oggi, con la fine della democrazia e della civiltà tout court.
In conclusione, non esiste alcuna legge scientifica della storia che ci permetta di disegnare con certezza analogie storiche. Chi ne assume l’esistenza rischia di scadere in un determinismo incapace di descrivere logicamente lo sviluppo politico. Il futuro è, infatti, sempre incerto e mai uguale al passato. Dal passato si possono imparare delle tecniche e soprattutto sulla base di esso si può maturare una certa capacità di giudizio. Quest’ultima dovrebbe consentire di separare le reali emergenze democratiche e i pericoli autoritari da cambiamenti politici che, seppur importanti e disordinanti, sono connaturati alla stessa democrazia.


Nessun commento:

Posta un commento