Rodolfo Casadei
Ciò che fa
paura nell’immigrazionismo, e che certamente non è cattolico, è il suo rifiuto
dei limiti: ogni
individuo, secondo il credo immigrazionista, dovrebbe avere il diritto di
trasferirsi in un paese più ricco di opportunità di quello in cui lui è nato.
Questa idea fa a pugni col fatto che le nazioni del mondo sono degli insiemi
limitati dal punto di vista delle risorse materiali e fragili dal punto di
vista dei preziosi equilibri sociali e dell’altrettanto preziosa identità
storica, mentre il numero degli aspiranti migranti è praticamente illimitato.
L’ipotetico diritto umano degli africani e degli abitanti del sub-continente
indiano a cercare fortuna in Germania e Scandinavia, tradotto in fatti,
porterebbe al collasso delle nazioni in questione.
I migranti ai confini Usa Messico (foto Corriere della Sera) |
Scrivevo più di
tre anni fa che «l’idea che l’emigrazione
non deve avere limiti appartiene allo stesso insieme culturale e allo stesso
modo di pensare di quanti affermano che la crescita economica deve essere
illimitata, che le risorse del pianeta sono inesauribili e quindi sfruttabili a
piacere, che non ci devono essere limiti alla tecnologizzazione della vita
umana e allo sviluppo delle biotecnologie, che la medicina deve mirare a
rendere immortale il singolo, che nessun limite morale deve ostacolare la
ricerca del piacere individuale, ecc.». È il filo rosso che va dal
superuomo di Nietzsche al transumanesimo che ha come obiettivo la
trasformazione dell’essere umano in un cyborg dalle capacità fisiche e
intellettuali illimitate. Contro questo travisamento della natura umana e della
natura del Creato la Chiesa cattolica ha
messo costantemente in guardia l’umanità, più recentemente con l’enciclica
di papa Francesco Laudato Si’, dove il tema dei limiti torna ripetutamente: «Se
riconosciamo il valore e la fragilità della natura, e allo stesso tempo le
capacità che il Creatore ci ha dato, questo ci permette oggi di porre fine al
mito moderno del progresso materiale illimitato. Un mondo fragile, con un
essere umano al quale Dio ne affida la cura, interpella la nostra intelligenza
per riconoscere come dovremmo orientare, coltivare e limitare il nostro potere»
(n. 78); «L’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato,
ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare
le possibilità offerte dalle cose stesse. (…) Viceversa, ora ciò che interessa
è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della
mano umana, che tende ad ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che
ha dinanzi. (…). Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o
illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e
della tecnologia» (n. 106). Nell’enciclica Francesco richiama anche il discorso
di Benedetto XVI al Bundestag: «Papa Benedetto ci ha proposto di riconoscere
che l’ambiente naturale è pieno di ferite prodotte dal nostro comportamento
irresponsabile. Anche l’ambiente sociale ha le sue ferite. Ma tutte sono
causate in fondo dal medesimo male, cioè dall’idea che non esistano verità
indiscutibili che guidino la nostra vita, per cui la libertà umana non ha
limiti. Si dimentica che “l’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé.
L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura”» (n. 6)
A teorizzare per la prima volta un diritto
indiscriminato all’emigrazione non è stato un cattolico pauperista alla padre
Zanotelli o un socialista convinto che i proletari non hanno patria, ma un
politico liberale imbevuto delle idee di John Locke e di Francesco Bacone come
Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti. È Jefferson che
attorno al 1774 scrive A Summary View of the Rights of British America,
indirizzato al re d’Inghilterra per «ricordargli che i nostri antenati, prima
della loro emigrazione in America, erano liberi abitanti dei domini britannici
in Europa, e possedevano un diritto che la natura ha dato a tutti gli uomini,
di partire dal paese nel quale il caso, e non la scelta, li aveva collocati, di
andare alla ricerca di nuovi luoghi in cui abitare, e di istituire là nuove
società, rette da leggi e disposizioni che a loro paiano le più adatte a
promuovere la pubblica felicità». Fin dall’inizio il diritto
all’emigrazione è stato iscritto nel liberale principio di autodeterminazione
assoluta, quel principio secondo cui nulla è buono se non ho potuto sceglierlo
io personalmente. Conosciamo bene la parabola di questo principio, che nel
Settecento è servito a lottare contro i dispotismi, e oggi è approdato alla
legittimazione dell’aborto, dell’eutanasia e del genderismo: non ho scelto di
restare incinta, dunque devo potermi liberare del frutto del concepimento; non
ho scelto io di venire al mondo, dunque devo poter togliermi la vita; non ho
scelto di nascere maschio, dunque devo poter essere femmina. Il diritto
assolutizzato all’emigrazione è parte integrante di questa visione del mondo, e
comporta le stesse conseguenze dannose sia a livello sociale che ambientale.
Oggi l’emigrazione di massa non è ecocompatbile, in quanto è funzionale a un
sistema economico globale che conduce all’esaurimento delle risorse del pianeta
(il 29 luglio di quest’anno è stato Overshoot Day, il giorno in cui l’umanità
ha superato il limite delle risorse che l’ambiente terrestre è in grado di
rinnovare nel corso di un anno) e in quanto minimizza il valore
dell’attaccamento della persona al luogo in cui è nata, premessa necessaria a
ogni duratura e realistica “conversione ecologica”.
Che la
permanenza delle persone nel luogo in cui sono nate e cresciute sia
fondamentale per la conservazione dell’ambiente, Francesco lo dice nella Laudato Si’ al n.
146, riferendosi alle popolazioni indigene: «(…) è indispensabile prestare speciale attenzione
alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. (…) Per loro,
infatti, la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati
che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di
interagire per alimentare la loro identità e i loro valori. Quando rimangono
nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura». Lo stesso concetto, più approfondito, ricorre
varie volte nell’Instrumentum Laboris del Sinodo per l’Amazzonia, per esempio ai nn.
47-48: «L’ecologia integrale si basa sul riconoscimento della relazionalità
come categoria umana fondamentale. Ciò significa che ci sviluppiamo come esseri umani sulla
base dei nostri rapporti con noi stessi, con gli altri, con la società in
generale, con la natura/ambiente e con Dio. Questa integralità vincolante è
stata sistematicamente sottolineata durante le consultazioni con le comunità
amazzoniche. (…) Gli esseri umani fanno parte di ecosistemi che facilitano le
relazioni che donano vita al nostro pianeta, per cui la cura di tali ecosistemi
è essenziale. Ed è fondamentale sia per promuovere la dignità della persona
umana e il bene comune della società, sia per la tutela dell’ambiente». Quel
che vale per gli indigeni, vale in realtà per tutte le comunità umane: è
l’amore e l’attaccamento alla propria terra, il rapporto duraturo instaurato
con l’ambiente naturale attraverso il lavoro e le tecniche più adatte a far
fiorire la vita umana nel mentre che fanno prosperare l’ecosistema in cui essa
è inserita, che permettono di tradurre
in realtà l’ecologia umana e integrale di Benedetto XVI e Francesco. È fin
troppo chiaro che la biodiversità delle specie animali e vegetali, oggi sotto
pressione con l’estinzione o la quasi-estinzione di molte specie, è
strettamente legata alla reale pluralità delle culture umane che si sviluppano
nei differenti luoghi del mondo. Ora, le emigrazioni di massa comportano non,
come qualcuno si è illuso, un meticciamento delle culture, ma l’omologazione di
tutte le culture a quella che è stata definita la cultura di McWorld. Come
scrive Patrick Deneen in Why liberalism failed?,
l’anticultura individualista «si traduce in una monocultura, la quale, come il
suo analogo agricolo, colonizza e distrugge le attuali culture radicate
nell’esperienza, nella storia e nel luogo». Se vogliamo salvare la biodiversità
animale e vegetale, dobbiamo salvare quella che potremmo chiamare la
biodiversità antropologica. Quella che le emigrazioni di massa compromettono
fatalmente.
Si dirà: chi
è povero, o politicamente oppresso, o frustrato da sistemi di potere locali e
nazionali che non gli permettono di realizzare il suo potenziale, non ha altra
scelta che l’emigrazione, anche se sa che lo impoverirà antropologicamente. La
fedeltà al luogo natìo, quello che i tedeschi chiamano Heimat, è una bella idea
a parole, ma per milioni di persone non può tradursi in fatti. In realtà resta
da esplorare il concetto di «mobilità circolare» formulato da Giancarlo
Blangiardo: il migrante parte, acquisisce competenze ma soprattutto si crea una
rete di rapporti all’estero, poi torna nei suoi luoghi di origine, dove fa
fruttare quello che ha acquisito come capacità e come contatti a vantaggio
della sua comunità e della preservazione dell’ambiente in cui è inserita. Non è
utopia, molti migranti ne hanno già fatto una realtà.
Nessun commento:
Posta un commento