Salvini punta al voto anticipato dunque
sta tornando il fascismo. Perché evocare le elezioni in Italia è diventato un
problema di regime? Ignoranza e vocazione totalitaria dei presunti colti.
Un'indagine di Marco Patricelli e Lorenzo Castellani tra passato e presente
Evocare le elezioni in Italia è diventato pericoloso, soprattutto quando le
previsioni della vittoria non sono favorevoli ai partiti ideali della presunta
classe colta.
Si disquisisce di democrazia, ma non
appena se ne palesa la forma all'orizzonte - il voto - si guarda tutto con
sospetto e stato d'allerta se l'esito non è quello atteso dai benpensanti.
O vince la mia parte, o è dittatura, pensa colui che si crede democratico
ed è solo un fanatico della sua piccola monarchia.
Così quando Matteo Salvini ha detto di puntare a elezioni anticipate
(cielo, il voto! che pretesa) è (ri)spuntato con regolare ignoranza il
dibattito di quelli che la sanno lunga (e la vedono corta, fino al massimo del
loro ombelico), il tema niente meno che del "fascismo",
naturalmente del nazismo e lo spettro degli anni Trenta.
Uno stupidario storico e politico tragicomico e desolante di cui sono
protagonisti assoluti i cosiddetti "competenti" della bolla dei
social network, i nuovi haters-chic, i grillini con la griffe, gli incompresi a
prescindere con il rancore d'ordinanza, una classe di falliti descritta
magistralmente da Ettore Scola ne "La Terrazza", una commediante
élite al cartoccio talmente smaterializzata nel virtuale da non lasciare
nessuna traccia nella realtà quotidiana.
Proviamo a riportare la questione del totalitarismo sulla terra, ben
sapendo quanto sia vano chiedere di usare la ragione al tipo sovrumano che
crede di camminare sull'acqua, mentre sta affogando con il salvagente nella
vasca da bagno.
Buona lettura.
tratto da LIST
Stupidario dei professionisti
dell'antifascismo
di Marco Patricelli
Prima ancora che Leonardo Sciascia mettesse in guardia dai mafiosi e
dai professionisti dell’antimafia, Ennio Flaiano aveva messo in guardia dai due
tipi di fascismi che ci sono in Italia: quello propriamente detto e
l’antifascismo. Scolorano l’uno nell’altro quando il settarismo diventa estremo
e la pretesa di detenere la sola e unica verità è un monolite dogmatico,
manicheo e inscalfibile. Da qualche tempo è stato lanciato e ripetuto in
maniera ossessiva l’allarme fascismo, declinato in tutte le forme e in tutte le
salse, che avrebbe come denominator comune Matteo Silvini, incarnazione del
male contemporaneo e di ogni deriva autoritaria.
25 LUGLIO 2019 : pastasciutta antifascista |
C’è chi ci crede, chi fa finta di crederci e anche chi
ritiene conveniente crederlo, forse, paradosso dei paradossi, pure lo stesso
Salvini. Più i fantasmi aleggiano, meno le cose diventano concrete, più è
facile piegare la realtà ai desideri. Viene il dubbio, però, che tanto evocare
il fascismo, la dittatura, il totalitarismo, nei modi e nelle forme in cui
viene agitato in tutto e per tutto, con una facilità di etichettatura più
rapida del macchinario che applica il bollino blu alle note banane, celi una
profonda ignoranza della genesi e dello sviluppo dei grandi totalitarismi del
Novecento. Per dirla chiaramente, si parla di ciò che non si sa ma che si
orecchia, suppergiù, un tanto al chilo, tre palle un soldo, e tanto basta.
Salvini chiede “pieni poteri” dalle urne? Eccolo scodellato, l’emulo del giornalista
di Predappio al quale era bastato paventare di trasformare l’aula sorda e
grigia del parlamento in un bivacco per i suoi manipoli di camicie nere e far
tremare l’Italietta degli Anni ‘20. Solo che le camicie verdi leghiste sono da
tempo in armadio o in naftalina, assieme alla bevuta dell’acqua sorgiva del Po
da parte di Bossi e alle sbevazzate dei campi della Lega Nord con riti celtici
da folklore di plastica. Il linguaggio salviniano, si mettano il cuore in pace
le anime candide e gli stilnovisti della politica, è quello del bar, delle
osterie, della strada, non quello delle alchimie farmacistiche da “convergenze
parallele”, da “compromesso storico”, da “non sfiducia”, da “operazioni di
polizia internazionale” (eufemismo coniato per aggirare il divieti
costituzionale sulla parola guerra, in Iraq e nell’ex Jugoslavia).
Sarà mancanza di stile, sarà un linguaggio rozzo e volgarotto, e
non c’è da dubitarne affatto, ma non si può neanche dubitare
dell’immediatezza del recepimento di messaggi in un Paese alla deriva
culturale in cui i testi Invalsi hanno rivelato che gli studenti non capiscono
il senso di una frase scritta in italiano. Il fascismo, oltre a provenire da
un’altra epoca storica e con situazioni irripetibili, dalle quale non si può
prendere quel che si vuole e tralasciare tutto il resto, è un’altra cosa. Ed è
morto e sepolto.
Non regge neppure l’altra apparente similitudine,
spettro sempre utile a confermare l’aforisma di Churchill secondo cui la
democrazia è la peggiore forme di governo eccettuate tutte le altre, sulla
presa del potere di Hitler con libere elezioni. L’austriaco ex caporale
bavarese ed ex artista fallito, dotato di un’indubbia oratoria, dopo un esordio
balbettante e un patetico tentativo di prendere il potere a Monaco nel 1922, lo
costruì promettendo ai tedeschi quel che volevano sentirsi dire, con una sola
omissione: tutto il sistema si poteva reggere con una guerra di spoliazione,
come tutti gli economisti ben sanno, che era un esito obbligato. Fu una
democrazia malata, come quella di Weimar, che nel 1933 si illuse di sfruttarne
la forza elettorale e la forza bruta per svuotarlo di quel potere che invece
conquistò violentemente ed esercitò per dodici anni di rovine e disastri
epocali. Nessuno ha fatto parallelismi storici sulla presa del potere da parte
di Lenin, nella seconda rivoluzione russa del 1917, che spodestò il carattere
socialdemocratico della prima di Kerenskij: volendo, anche qui ci sarebbe
materiale per un’elucubrazione di storia controfattuale, che però a sinistra
risulta ancora indigesta al solo nominare le giornate di ottobre (in realtà
novembre, secondo il nostro calendario sul quale quello russo-giuliano era in
ritardo) che non siano immancabilmente “radiose”. Stalin vietò che durante la
“grande guerra patriottica” – ma anche prima, quindi con l’eccezione
dell’alleanza con Hitler che ebbe pieno vigore dal 23 agosto 1939 al 22 giugno
1941 – si usasse il termine “nazista” per indicare il nemico ideologico per
eccellenza. Era la contrazione della parola “nazionalsocialista”, e contenendo
appunto “socialista” poteva far scattare qualche meccanismo di riflessione non
gradito al regime totalitario, che tende ad assomigliare anche a quello che
combatte. Ecco perché nei libri, nella pubblicistica e nella propaganda di guerra
e dopoguerra, appare solo e sistematicamente la parola “fascista”. Proprio
quella riesumata da sinistra con stucchevole tam tam, per definire senza mai
definire ciò che non l’aggrada, che avversa, che ritiene contro la sua storia e
la sua ideologia, che va combattuto e possibilmente annientato.
Lo stesso Berlusconi, per vent’anni pericolo pubblico numero
uno, si vide affibbiare come primo nomignolo quello di “cavaliere nero”. Ma
poiché i nemici vanno cambiati di quando in quando, anche per motivi anagrafici
e situazionali, ecco lo stagionato e sovrappeso ragazzotto lumbard disarcionare
in ogni senso il cavaliere di Arcore. Forattini rappresentò con sistematica
regolarità Bettino Craxi con camicia nera e stivaloni, rinfocolando persino la
leggenda metropolitana che fosse il figlio segreto del duce (leggenda appunto,
ma i figli illegittimi di Mussolini sono storia): era l’avversario da abbattere
e tutto faceva brodo. Oggi Salvini cavalca l’onda sempre più alta del consenso,
la cui principale motivazione sta nel basso livello dell’offerta politica,
nello scarso materiale umano, nelle competenze approssimative della classe
dirigente, nella delusione verso le ricette sulle pozioni magiche ammannite al
popolo italiano negli anni e rivelatisi medicine amare che non curavano affatto
uno Stato malato. A questo basta aggiungere il (mal) costume tutto italiano di
innalzare gli idoli e poi di abbatterli ripudiandoli. La storia ci fornisce una
collezione inesauribile, il passato recente una serie di nomi che, guarda caso,
stanno ancora tutti lì, di qua e di là, perfettamente bipartisan.
***
E gli anni Trenta? Cribbio, non lo vedete che sono la stessa cosa? Mettiamo
un po' d'ordine, senza aspirare a cambiare il mondo di quelli che sanno tutto e
dunque non hanno mai bisogno di confrontarsi con quello che pensa il popolo
italiano. Si può ancora scrivere la parola "popolo"? O è troppo
fascista metterla sul taccuino senza una nota esplicativa di assoluta fedeltà
alla democrazia e ai valori della Carta Costituzionale?
L'ignorante colto e gli anni Trenta
di Lorenzo Castellani
Repubblica di Weimar, fascismo, dittatura. Anni Trenta. È un
ritornello che non annoia mai, quasi tutti quelli che hanno studiato sono
pronti ad invocare la decade più oscura, famigerata ed inquietante del
ventesimo secolo come metro di paragone con la decadenza ed i cambiamenti
politici del presente. L’ascesa del nazional-populismo contemporaneo da
anni solletica la fantasia del ceto intellettuale che invoca continuamente il
ritorno ai tetri anni Trenta del novecento. Una suggestione in cui confluiscono
l’agitazione dello spettro del fascismo, il collasso dell’ordine
liberal-democratico, l’implosione della società civile, l’abbrutimento della
classe media, la restrizione delle libertà, lo sbrego della Costituzione e, in
fondo a tutto, l’inevitabile deriva autoritaria.
Ha senso fare analogie in storia? Se, come vuole l’antico ed inflazionato
adagio cicerioniano, la storia è maestra di vita e nel presente si rintracciano
sempre frammenti del passato, essa mai si ripete eguale a sé stessa. Ciò non
significa che, come hanno creduto alcuni intellettuali progressisti, la storia
possa finire, la democrazia sia inattaccabile e che il liberalismo sia
destinato a regnare sovrano ed immutato per sempre. La storia è un moto
continuo ed ondulato. Non è ciclica e non è linea retta. La verità è sempre nel
mezzo e nelle pieghe di una complessità troppo vasta per i paragoni storici e,
al tempo stesso, troppo inquietante per non volgere lo sguardo al
passato.
I colti, dunque, devono mettersi d’accordo con se stessi: o la storia è
progresso lineare ed esiste un modello universale poliarchico per i regimi
politici buoni oppure la storia si ripete o riavvolge, dunque quei modelli si
possono frantumare sotto la marcia degli eventi. Tuttavia, non si può
teorizzare la fine della storia e poi, di fronte alle deviazioni di percorso,
invocare incautamente il pericolo del ritorno agli anni Trenta, a Weimar, al
fascismo. E’ uno dei paradossi del progressista. Chi interpreta la storia come
una linea retta di ineludibile progresso finisce poi, una volta accaduti eventi
imponderabili, per credere alla tesi fasulla dell’identico ricorso
storico. Per provare a comprendere e smontare il problema del ritorno
degli anni Trenta è necessario ricorrere ai ferri del mestiere: analizzare il
potere, le istituzioni, la società. Come erano allora e come sono oggi.
Iniziamo il viaggio.
La prima differenza tra oggi e l’era weimariana è quella istituzionale.
Le Costituzioni di oggi sono molto più articolate nella difesa di libertà e
diritti fondamentali ed incentrate sulla divisione ed il bilanciamento tra
poteri di quanto lo fossero allora. Si pensi allo sviluppo e all’influenza
delle Corti Costituzionali nel bilanciare le decisioni del potere esecutivo e
legislativo. Nelle costituzioni degli anni Trenta non esistevano oppure avevano
della competenze molto limitate nel potere intervenire a tutela dei valori
costituzionali. Non solo all’epoca le costituzioni erano più fragili, ma anche
più isolate. Oggi le corti ed i tribunali sono immersi in circuiti
internazionali, in norme sovranazionali ed internazionali, in Europa il diritto
europeo stabilito dai trattati, che hanno valore costituzionale, è addirittura
sovraordinato a quello nazionale. Molte aree su cui un tempo decideva
esclusivamente la politica nazionale sono state devolute ad autorità
indipendenti che operano libere dal consenso e dal controllo democratico. Il
potere sia dentro che fuori le nazioni è molto più bilanciato e diviso rispetto
a novant’anni fa.
La seconda questione è politica. I partiti nazionalisti
(e fascisti) degli anni Trenta erano palesemente avversi alla democrazia. Lo
stesso ordine democratico immaginato da socialisti e comunisti era, come la storia
ha tristemente dimostrato, molto diversa dalla democrazia liberale che ha
fondato l’odierno ordine politico. C’era poi la differente cultura politica. Ad
esempio, gran parte dell’opinione pubblica tedesca, a partire dai suoi vertici,
considerava la democrazia un impaccio imposto dall’esterno, una forma di Stato
che non rispecchiava le sue tradizioni politiche e culturali. I partiti
speculavano su questo umore diffuso di avversione alla democrazia. Lo stesso
fascismo si alimentava di teorie e filosofie che mettevano chiaramente lo Stato
prima della democrazia, l’autorità prima della libertà, il controllo prima del
pluralismo.
I populisti di oggi, al contrario, invocano la
democrazia. Declamano un ritorno al passato in cui la sovranità popolare veniva
maggiormente valorizzata e controllata dal popolo. Esaltano il potere locale ed
il nazionale contro il globale, si battono per riprendere il controllo dei
confini e delle decisioni. Dispiegano crociate contro la democrazia rubata e
svuotata dall’élite cosmopolita e dalle forme istituzionali di integrazione
sovranazionale. Le tracce di questo tipo di ragionamento possono essere
ritrovate nei discorsi di tutti i nuovi leader da Donald Trump a Marine LePen,
da Matteo Salvini a Victor Orban, da Boris Johnson a Kaczinsky.
Si presentano come dei democratici nazionalisti invece che come degli autoritari.
Intendono ridare al popolo la democrazia, farla tornare al tempo in cui, nella
loro interpretazione e quella dei loro seguaci, funzionava davvero. Questi
leader, di fatto, sembrano pensare più agli anni ottanta che agli anni Trenta,
quando i partiti emergenti erano dichiaratamente ostili alla democrazia.
Seppure è vero che, in alcuni di loro, emergono delle venature centraliste
soprattutto nei confronti dei poteri non elettivi, come le corti costituzionali
e le banche centrali. Più che convinti autoritari, per il momento, questi
leader sembrano piuttosto essere iper-democratici. Esprimono una volontà di
politicizzazione verso quelle istituzioni depoliticizzate che condizionano la
vita dei governi e che hanno caratterizzato i sistemi politici degli ultimi
cinquant’anni.
Il terzo livello è quello economico. I banchieri centrali
ed i governi hanno imparato dalla storia e la soluzione alla crisi finanziaria
del 2007 ha evitato i disastri di quella del 1929. Tuttavia, il quantitative
easing e la creazione di un mondo a tassi zero (o quasi) è un sentiero
inesplorato, senza un precedente storico recente. Se l’alluvione di denaro sul
piano bancario fallirà provocando una nuova crisi navigheremo nell’ignoto. Non
c’è precedente o bussola storica che possa indicare una direzione. Ciò che è
certo è che le soluzioni adottate e le conseguenze prodotte sono molto diverse
dalla crisi economico-finanziaria degli anni Trenta. E, per il momento, hanno
saputo gestire meglio la difficoltà evitando che la crisi si trasformasse in
una catastrofe come quella di novant’anni fa dove, va sottolineato, pesava
molto l’uscita recente dalla guerra mondiale mentre la nostra società esce da
settant’anni di pace.
Il quarto elemento di differenza è la diffusione della
violenza. Quella degli anni Trenta era una società violenta, molto più di
quella presente. Il fascismo, il nazismo ed il comunismo poggiavano sulla
violenza fisica. Senza di essa non sarebbero esistiti o probabilmente non
avrebbero mai preso il potere. Oggi abbiamo il terrorismo, episodi di violenza
individuale e collettiva, insicurezza percepita, ma non è nulla di comparabile
all’epoca weimeriana dove gli episodi di violenza politica erano quotidiani
così come gli assassini politici e successivamente gli omicidi di massa.
Inoltre, i nuovi partiti di massa avevano delle vere e proprie organizzazioni
para-militari che li fiancheggiavano; quelli di oggi hanno tweet, video e
pagine Facebook. Gli ebrei, i kulaki o gli oppositori politici di Mussolini
venivano intimiditi, picchiati e massacrati già prima che i movimenti
totalitari prendessero il potere. Invece gli oppositori dei populisti di oggi,
per fortuna e giustamente, sono ancora tutti alle loro scrivanie, conducono
inchieste, organizzano proteste, fanno rete sui social network, fondano nuovi
partiti. Ciò in cui oggi si può incappare è un assalto su Twitter, organizzati
dai supporter dei populisti e, allo stesso modo, dai loro oppositori. E’ violenza
verbale e psicologica, ma niente a che vedere con le persecuzioni fisiche e gli
scontri degli anni trenta. Non si possono mettere a confronto come simili due
società con livelli di violenza così diversi.
La quinta differenza è quella della ricchezza economica.
Viviamo in società, per l’intervento dello Stato e per lo sviluppo del
capitalismo, che sono immensamente più ricche se comparate a quelle degli anni
Trenta. Nessuna democrazia occidentale affluente è stata più vittima di colpi
di stato autoritari o di derive dittatoriali negli ultimi quarant’anni. La
nostra è una società fortemente diseguale, ma ricca. In quell’epoca il numero
dei senzatetto, degli indigenti e degli abbandonati a loro stessi era enorme se
equiparato alla vita contemporanea. Le persone che vivono sotto la soglia di
povertà sono molto minori rispetto all’Italia degli anni venti e la Germania di
Weimar. Lo stesso vale per la disoccupazione, oggi elevata ma all’epoca
proporzionalmente molto maggiore, ed è stato acclarato, dal punto di vista
storico, che i bassi livelli di occupazione furono una delle cause del successo
del nazionalsocialismo. Uomini disperati pronti a cercare una soluzione
autoritaria contro le inefficienze della giovane democrazia.
La sesta, e forse più importante, differenza è quella demografica. La nostra
società è molto più anziana di quella degli anni Trenta. All’epoca l’età
mediana era 25 anni, oggi in quasi tutti i paesi occidentali è superiore a 45.
La violenza e l’attivismo politico sono quasi interamente una prerogativa dei
giovani. I giovani reduci di guerra, sofferenti di disturbi post-traumatici
provocati dal conflitto mondiale, spesso disoccupati, a cui si sommava una
generazione di ancor più giovani di disoccupati, venivano ingaggiati nella
lotta e nella violenza politica. Una società di anziani raramente potrà
scatenare una rivoluzione violenta, al massimo resiste ai cambiamenti più che
provocarli.
Da ultimo c’è il cambiamento dei media. Le radio del passato, e poi le
televisioni, erano molto più controllabili dal potere politico. Sia perché si
trattava di monopoli ed oligopoli controllati dal governo, sia perché una
rivoluzione armata o militare poteva facilmente occuparle durante un colpo di
Stato. Oggi la proprietà ed il pluralismo di radio e televisioni sono libere e
moltiplicate rispetto ad allora e i social network non sono occupabili
fisicamente da nessuno. Possono essere oscurati, certo, ma solo dopo che un
regime si è instaurato e consolidato. Inoltre, i social sembrano essere più
divisivi e proclivi alla decentralizzazione che non forieri di unità e
gerarchia. Non a caso si parla di polarizzazione, per indicare diversi poli
d’opinione in contrasto tra loro, che di uniformità o omogeneizzazione. Gli
spin doctor possono creare campagne, manipolare messaggi o targettizzare la
pubblicità dei post ma nessuna claque politica, per quanto ampia, potrà
assumere il controllo dei social o imbavagliare gli oppositori.
In conclusione, se sommiamo tutti questi fattori insieme ci si renderà conto di come
l’analogia con gli anni Trenta sia per lo più infondata sia sul piano del
potere e sia su quello che potrebbe accadere nel prossimo futuro. Il vero
tratto in comune tra le due società, a parere di chi scrive, è che entrambe
sono figlie di uno sviluppo economico e tecnologico impetuoso, hanno
attraversato entrambe delle crisi, seppur molto diverse tra loro, e hanno
vissuto una reazione dei cittadini nei confronti delle élite
politico-economiche al potere. Questo, tuttavia, non significa affatto che
le nostre democrazie hanno certamente imboccato la via dell’autoritarismo né
che le trasformazioni politiche saranno le stesse, semplicemente perché le
differenze tra le due situazioni storiche sono gigantesche (come sempre quando
si confrontano epoche differenti).
Negli anni Trenta, inoltre, le democrazie liberali che
sembravano ibernate per l’impossibilità di risolvere i propri problemi
politici, si sciolsero sotto la pulsione di spiriti eccitati da una seconda
guerra mondiale che ci si attendeva dalla conclusione della prima. Le masse
venivano galvanizzate dagli aspiranti dittatori con la prospettiva di una nuova
guerra, che veniva vissuta come un passaggio necessario per risolvere i
problemi politici e sociali nazionali ed internazionali. Ad oggi, al contrario,
le democrazie sembrano più che altro paralizzate dalla difficoltà di gestire la
funzione redistributiva dello Stato, di armonizzare i molteplici interessi
socio-economici contrapposti, di riavviare la crescita economica e renderla
sostenibile. E, sul piano dell’opinione, di riannodare i fili di un dibattito
pubblico devastato dai meccanismi polarizzanti ed emotivi degli algoritmi dei
social network. I luoghi del dibattito e della decisione, grazie soprattutto ai
social, si spostano fuori dalle istituzioni parlamentari e rappresentative.
Probabilmente, Mark Zuckerberg è molto più pericoloso per la democrazia moderna
di quanto non lo siano Donald Trump e Matteo Salvini.
Sminare il paragone con gli anni Trenta non significa
ovviamente che le democrazie liberali non siano mai esposte al pericolo. Le
loro istituzioni corrono sempre il rischio di essere svuotate di poteri e
significato da riforme istituzionali o cambiamenti tecnologici che possono avvenire
sia sul piano nazionale che sovranazionale. Non è affatto scritto, però, che un
indebolimento delle democrazie occidentali avvenga con le stesse modalità degli
anni Trenta né che debba finire con lo stesso tragico risultato o con la
soppressione dei diritti e delle libertà fondamentali. D’altronde le democrazie
sono, per costituzione, sottoposte ad un continuo cambiamento che investe sia
le modalità con cui i messaggi ed il consenso si propagano che le élite
politiche. Quelli degli anni ottanta e novanta del novecento erano sempre
regimi democratici, eppure sembrano molto diversi dalle democrazie del 2020.
Forse si dovrebbe accettare di non confondere la crisi dell’egemonia culturale
della sinistra liberal, o magari del modo d’intendere il liberalismo fino ad
oggi, con la fine della democrazia e della civiltà tout court.
In conclusione, non esiste alcuna legge scientifica
della storia che ci permetta di disegnare con certezza analogie storiche. Chi
ne assume l’esistenza rischia di scadere in un determinismo incapace di
descrivere logicamente lo sviluppo politico. Il futuro è, infatti, sempre
incerto e mai uguale al passato. Dal passato si possono imparare delle tecniche
e soprattutto sulla base di esso si può maturare una certa capacità di
giudizio. Quest’ultima dovrebbe consentire di separare le reali emergenze
democratiche e i pericoli autoritari da cambiamenti politici che, seppur
importanti e disordinanti, sono connaturati alla stessa democrazia.
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