RODOLFO CASADEI
Al di là
delle vicende contingenti e delle relative polemiche sul ruolo delle Ong che
trasbordano i migranti alla deriva nel Mediterraneo o sul ridimensionamento
delle politiche di accoglienza dei richiedenti asilo previste dai decreti
Sicurezza del governo, le posizioni contrarie all’immigrazionismo, in Italia e
più in generale in Europa, sono
sistematicamente criminalizzate.
Chi nutre
riserve ed esprime critiche motivate rispetto alle migrazioni di massa
certamente sbaglia, e deve solo scegliere l’aggettivo qualificativo più
appropriato al suo errore: razzista, xenofobo, reazionario, disinformato,
egoista, pauroso, ideologizzato o altro ancora. Se poi chi formula le obiezioni si dichiara cattolico, costui viene
pure immediatamente accusato di incoerenza, perché la Chiesa cattolica
militerebbe compattamente sul fronte immigrazionista, come tante
iniziative, prese di posizione e dichiarazioni di suoi membri di spicco
mostrerebbero. Le cose non stanno così,
perché la Chiesa cattolica è un soggetto universale, e se è vero che le
conferenze episcopali dell’Europa occidentale enfatizzano soprattutto (ma non
esclusivamente) gli aspetti dell’accoglienza dei migranti e della
valorizzazione del fenomeno migratorio, ci sono però anche le Conferenze episcopali africane che
rivolgono appelli accorati ai figli del Continente nero perché non cedano alle
sirene che li persuadono a ricercare una vita materiale migliore in Europa,
dove non troveranno l’Eldorado che speravano ma cadranno vittime, oltre che di
forme di sfruttamento economico, del materialismo e dell’aridità spirituale.
A questi recentemente si sono uniti gli estensori
dell’Instrumentum Laboris del Sinodo per l’Amazzonia, che ai numeri
66 e 67 del loro testo hanno scritto: «Il
movimento migratorio, trascurato tanto politicamente quanto pastoralmente, ha
contribuito alla destabilizzazione sociale delle comunità amazzoniche. Le città
della regione, che ricevono in modo permanente un gran numero di persone che migrano verso di
esse, non sono in grado di fornire i servizi essenziali di cui i migranti hanno
bisogno. Questo ha portato molte persone a vagare e a dormire nei centri urbani
senza lavoro, senza cibo, senza riparo. Tra questi molti appartengono a popoli
indigeni costretti ad abbandonare le loro terre. (…) Questo fenomeno
destabilizza, tra l’altro, le famiglie quando uno dei genitori parte in cerca
di lavoro in luoghi lontani, lasciando i figli e i giovani a crescere senza la
figura paterna e/o materna. Anche i giovani si spostano in cerca di occupazione
o sottoccupazione per aiutare a mantenere ciò che resta della famiglia,
abbandonando gli studi primari, sottoponendosi a ogni tipo di abuso e
sfruttamento».
Vescovi e
Chiese africani e latinoamericani sono coscienti degli effetti destabilizzanti
dell’emigrazione di massa sulle società di origine dei migranti e dei suoi
effetti deculturanti sui migranti stessi. Effetti che
gli immigrazionisti di casa nostra tengono in scarsa considerazione, per un
eccesso di ottimismo o di furore ideologico.
L’ottimismo di coloro
che prendono a pietra di paragone l’emigrazione di massa italiana della seconda
metà dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, e concludono che avendo
essa generalmente portato benefici sia ai migranti che ai paesi che li hanno
ricevuti, sostengono che anche le migrazioni di massa odierne sortiranno più o
meno lo stesso risultato.
Il furore
ideologico di chi vede nei migranti il nuovo soggetto rivoluzionario che permetterà
di sovvertire il sistema capitalista europeo e rimpiazzarlo con un regime di
piena giustizia sociale per tutti: recentemente il leader delle occupazioni abusive a
Roma Nunzio D’Erme, nel corso di un incontro pubblico insieme all’ex brigatista
rossa Barbara Balzerani durante il quale sono state rievocate le “gesta” delle
Brigate Rosse, ha motivato l’opposizione ai decreti Sicurezza del governo in
quanto repressivi dei soggetti che potrebbero oggi sfidare il sistema.
Infine il
furore ideologico di quei credenti che vedono nei migranti la spada con cui Dio
farà piazza pulita della società occidentale materialista, consumista, egoista,
atea di fatto: non importa se le avanguardie dei giovani popoli in movimento sono
cristiane, musulmane o immerse nell’animismo africano; rappresentano comunque
una visione religiosa e spirituale della vita che può riprendere il suo posto
sul palcoscenico della stanca e invecchiata Europa solo attraverso la loro
irruzione e il loro insediamento fisico sul territorio europeo, premessa della
loro influenza sulla cultura, sulla vita quotidiana e sulle leggi.
Questi ottimismi e questi furori non tengono conto del
fatto che il contesto delle migrazioni è cambiato rispetto a quelle del XIX e
del XX secolo, e che il sistema capitalista globalizzato è molto più pervasivo
di quello dell’epoca storica dell’imperialismo, al punto che le migrazioni di
massa odierne non rappresentano il fattore di contraddizione che può metterlo
in crisi, ma piuttosto lo strumento della sua perpetuazione.
I migranti italiani dell’Ottocento e del Novecento
erano cristiani che emigravano in paesi cristiani: tali erano allora gli stati
dell’America del Nord e del Sud, così come i paesi dell’Europa
centro-settentrionale (Svizzera, Germania e Belgio principalmente) dove milioni
di italiani si sono trasferiti e molto spesso trapiantati. Oggi migranti di varia affiliazione religiosa si insediano in paesi
secolarizzati, dove vige un ateismo pratico a tutti i livelli della vita, sia
pubblica che privata, e ha trionfato politicamente il liberalismo filosofico,
che ha realizzato il suo sogno di cancellare appartenenze e comunità e
trasformare le persone in individui astratti e senza radici, ma portatori di
diritti umani universali. L’aspirazione dei migranti a condizioni migliori
di vita dal punto di vista materiale non è più arginata e incanalata dalle
autolimitazioni e dalle aspirazioni superiori che vengono dalla fede religiosa.
Non sono loro che cambiano la società europea, restituendole un supplemento
d’anima, ma è la società europea che
cambia loro, trasformandoli in anonimi consumatori, attirandoli con la
prospettiva di garanzie economiche e legali che nei loro paesi di origine non
hanno. La cosiddetta integrazione sociale e culturale degli immigrati agli
usi, costumi e valori dei paesi di immigrazione in realtà è integrazione al
mercato globale, il prodotto ultimo del liberalismo filosofico. Il mercato
globale ha bisogno, per svilupparsi pienamente nella sua logica del massimo
profitto grazie alla massima efficienza, di esseri umani strutturalmente senza
fissa dimora, ben disposti a spostarsi ovunque per contribuire all’efficienza
del sistema. Si spostano i poveri privi di istruzione per abbassare il costo
del lavoro nelle attività ad intensità di manodopera e si spostano i non poveri
dotati di istruzione superiore per contenere i costi delle innovazioni
tecnologiche, come nel caso della “fuga dei cervelli” che riguarda i giovani
laureati italiani. Sembrano fenomeni fra loro opposti, ma rispondono alla
medesima logica: gli individui, liberati
dai loro legami con la terra di origine, emancipati dall’appartenenza a una
comunità definita dal luogo e dalla continuità storica, sono resi fungibili
all’interno di un sistema politico-economico che richiede parti universalmente
sostituibili.
Si potrebbero fare innumerevoli esempi del modo in cui
gli immigrati e soprattutto i figli degli immigrati perdono rapidamente l’identità culturale originaria senza per
questo integrarsi all’identità corrispondente alle radici giudaico-cristiane
dell’Europa, ma piuttosto sprofondando
nell’anti-cultura liberale secolarista. Ne basti uno, particolarmente
eloquente: come ricordavamo poco tempo fa su tempi.it, gli immigrati odierni nel giro di pochi anni
vedono abbassarsi i loro tassi di fecondità agli stessi livelli di quelli dei
paesi europei nei quali si vanno ad insediare, cioè anche loro scivolano sotto
la soglia del rimpiazzo generazionale (2,1 figli per donna). In Italia il tasso
di fecondità delle donne immigrate è passato da 2,65 figli per donna nel 2008 a
1,98 l’anno scorso.
A quanto sin qui detto si obietterà che il vero
pericolo dell’immigrazione di massa in Europa non è il mutamento antropologico
che trasforma gli immigrati in adepti dell’individualismo materialista, ma il
comunitarismo che frammenterebbe la società in tante tribù che competono per
accaparrarsi potere e risorse, e che produce già effetti allarmanti come
l’esodo dalla Francia di centinaia di migliaia di ebrei francesi da molte
generazioni man mano che la presenza di immigrati musulmani nel paese si fa più
densa e caratterizzata dalla trasformazione del paesaggio sociale e urbano di
determinati territori.
La mia risposta è
che il comunitarismo non è il contrario dell’individualismo, ma un suo
prodotto, una sua conseguenza non prevista. Nel comunitarismo
l’appartenenza a una determinata comunità etnica e/o religiosa è strumentalizzata a fini di potere
perseguiti su base individuale o di gruppo elitario. Rappresentare gli
immigrati, organizzare i musulmani, ecc. sono attività che garantiscono
prestigio e reddito a chi le esercita; presentarsi come vittima, diverso,
povero, discriminato, ecc. offre anche al singolo un vantaggio comparativo
nella competizione per le risorse del welfare, i posti di lavoro, le cariche
pubbliche in società, come quelle occidentali, afflitte dai sensi di colpa.
Quanto più si sbiadisce la realtà della comunità come partecipazione non
formalistica a una vita comune intessuta di gesti, rapporti, pratiche e
rituali, tanto più aumenta la sua valenza politica strumentale nei termini di
una lotta per il potere. L’esempio più chiaro è forse quello del terrorismo nel nome dell’islam: chi lo
pratica quasi sempre è figlio di immigrati musulmani, ma il suo islam è in
rottura, non in continuità, con quello dei genitori, che restano traumatizzati
della sua decisione; non è l’islam
quietista della tradizione, ma l’islam belligerante della moderna ideologia
islamista.
Tutto questo è conseguenza della globalizzazione
neo-liberale, esito ultimo del liberalismo filosofico che nega significato alle
tre dimensioni fondamentali dell’esperienza umana – natura, tempo e luogo. Esse
non sono più realtà anteriori all’individuo, nelle quali egli è immesso, e che
deve riconoscere nella loro irriducibilità se vuole realizzare se stesso; esse
diventano l’oggetto di una conquista e di una ridefinizione che devono
permettere all’individuo di esercitare il massimo di potere. È sganciando l’essere
umano dalle fedeltà al luogo in cui è nato, facendogli balenare il fantasma dei
suoi diritti universali su ogni luogo del mondo, che il liberalismo trasforma
la persona reale in individuo astratto e i luoghi in non-luoghi.
A questa prospettiva la Chiesa cattolica
non può non opporsi, in nome di quell’ecologia umana e integrale che prima
Benedetto XVI e poi più estesamente papa Francesco hanno rivendicato.
Ma di questo tratterò nella seconda parte.
Nessun commento:
Posta un commento