STRANIERI
ALLE PORTE
L’unità
dei cattolici oltre le chat di Whatsapp
GIANCARLO
CESANA, Tempi agosto 2019
Riemerge, come un messaggio
in bottiglia che viene da una lontananza misteriosa, il tema dell’unità dei
cattolici nell’azione sociale e politica. Tutti sembrano scoprirla e volerla:
senz’altro i cattolici, ma anche i cosiddetti laici, che, un po’ spaventati
dall’andazzo attuale, la auspicano, come fattore di buonsenso e moderazione.
Però l’unità non riesce. I
cattolici sono d’accordo con i laici nel denunciare la non rilevanza della
propria presenza. Sono passati i bei tempi della Dc, forza maggioritaria di
governo, e della Cei di Ruini, promotrice di cultura e azione non trascurabili
all’interno e oltre i partiti del centrodestra.
Per mettersi insieme è
necessario un ideale incarnato in una guida, singola o di gruppo, da seguire.
Oggi non c’è il primo e tanto meno la seconda. I cosiddetti princìpi non negoziabili,
fulcro dell’impegno sociale di qualche anno fa, sono stati relativizzati dalla
sottolineatura del dialogo, che eviti lo scontro per costruire una pacifica
società multietnica e
multiculturale.
Il Congresso delle famiglie di
Verona è stato emblematico delle incertezze cattoliche: la partecipazione, rispetto
alla precedente manifestazione del Family Day, si è di gran lunga ridotta; i
vescovi e lo stesso Papa ne hanno condiviso i contenuti con riserve sul metodo,
in
questo modo dandolo in pasto
alle critiche interne ed esterne. I cattolici, invece che unirsi, si sono
divisi seguendo l’opinione corrente, da una parte a favore, quelli di destra,
dall’altra quelli di sinistra.
L’unico
elemento “ideale”, insistentemente sottolineato dalla gerarchia ecclesiastica, ma
non tutta, è l’accoglienza verso i migranti e l’importanza primaria di
soccorrere il prossimo, salvando vite obiettivamente in pericolo. Il popolo
cattolico è tuttavia diffidente verso questo richiamo, che ha debolezze
evidenti. Non solo non si possono accogliere tutti;
l’accoglienza indiscriminata favorisce i trafficanti di uomini e l’opacità
degli ideali umanitari delle Ong, che sulle disgrazie altrui sembrano campare.
Di fatto, il blocco dei
porti, riducendo l’attività degli scafisti, ha ridotto le morti in mare.
D’altra parte i migranti accolti passivamente non hanno avuto grandi
prospettive di migliorare la loro vita randagia e stentata e anche per questo
indotta a delinquere. Vero è che il blocco dei porti da solo non basta ad
arginare la pressione dei poveri e dei profughi sui nostri confini.
È stato giustamente
osservato che se fummo impressionati dalla immigrazione degli albanesi, che
erano qualche milione, come possiamo pensare di fermare il miliardo di africani
che premono alle porte? Ci vorrebbe un’azione concertata dell’Europa, ma non
solo gli Stati europei non si dimostrano più sensibili dell’Italia (anzi!);
soprattutto i nostri governanti, con un prestigio
internazionale sotto le scarpe, non sembrano capaci di promuovere consenso nell’Unione.
Così
i cattolici sono divisi e paralizzati tra i fautori tout court dell’accoglienza
come fondamentale principio umanitario e quelli che, così acriticamente
proclamata, la sentono velleitaria e secondaria rispetto alla difesa della
propria identità e cultura.
Costoro sono in genere anche
i più vivaci sostenitori della famiglia, della libertà di educazione e della
possibilità di lavoro e sviluppo, che può realizzarsi solo rispettando i limiti
e le regole della società. Come si è visto per il Congresso di Verona, la
mentalità dominante sui media rinchiude tale posizione nella destra,
addirittura parafascista, opposta alla sinistra in cui stanno i cattolici buoni,
che seguono il Papa, che sarebbe notoriamente di sinistra.
Così il cerchio si chiude e
i cattolici restano irrimediabilmente divisi, almeno in un immaginario collettivo
più supposto che reale.
In realtà i cattolici più
che divisi sono confusi e come tali non sanno bene da che parte stanno, magari
proprio militando in una parte. L’idea del Papa acriticamente accogliente,
anticapitalista e potenzialmente rivoluzionario proviene dal ritaglio sistematico
delle sue dichiarazioni effettuato da giornali e tv che lo vogliono dipingere
così, approfittando della sua immediatezza e sincera partecipazione al destino
dei poveri e degli emarginati.
Certamente
il Papa proclama che la gente che rischia di annegare in mare e morire di
stenti e di guerra va innanzitutto salvata.
Ma
questo è un richiamo alla carità, non una strategia politica sulla gestione dell’immigrazione.
Più
volte ha detto che bisogna fare quello che si può e giustamente “tutto” quello
che si può. Ma che cosa il nostro paese e gli altri dell’Unione possano
effettivamente fare non è ancora riuscito a indicarlo nessun politico, tanto tutti
sono impegnati a non fare nulla
o
il minimo. E lo scaricabarile vale non solo per l’immigrazione; vale anche per le
questioni che stanno effettivamente ribaltando la convivenza civile, dalla
progressiva cancellazione della famiglia alla teoria del gender nelle sue varie
applicazioni, all’eutanasia, allo scientismo che usa l’uomo come se ne fosse il
padrone.
La politica segue le
sentenze più eclatanti della magistratura che a sua volta segue quella che
sembra un’opinione corrente che in realtà non c’è. Come diceva il Giusti: «Che
i più tirano i meno è verità,/ Posto che sia nei più senno e virtù;/ Ma i meno,
caro mio, tirano i più,/ Se i più trattiene inerzia o asinità».
I più ci capiscono poco e quindi
se ne fregano. Si sfogano, anche se non in maggioranza, nel populismo della Lega,
che per quanto becero è sentito come tradizionale buonsenso e quindi argine al dominante
principio di irrealtà.
Che cosa
possiamo fare?
In questo quadro è lodevole
l’impegno di gruppi, di estrazione varia ma per lo più dai partiti e
dall’associazionismo cattolico, per studiare e formulare interventi legislativi
in difesa delle applicazioni sociali della dottrina della Chiesa. Si tratta di
gruppi piccoli, variamente convergenti, con obiettivi che vanno dalla
educazione alla politica.
C’è chi propone scuole di formazione,
chi propone manifestazioni e chi vuole realizzare aggregazioni elettorali e
partitiche.
Finora queste iniziative hanno
avuto un insuccesso pieno, nel senso della incapacità di incidere e modificare le
tendenze prevalenti. I motivi sono vari: l’unità tra i gruppi non ha ragioni profonde
ed è quindi indebolita dalla sottolineatura delle caratteristiche e delle strategie specifiche di ogni
singola realtà.
Così, mentre l’impegno per
il proprio circolo è diuturno e militante, per l’insieme è volubile e svagato;
prevalgono posizioni senz’altro bene intenzionate, ma reattive, incapaci di una
proposta originale in grado di far crescere chi la fa e interessare chil’ascolta.
Gli esponenti di questi
gruppi parlano fondamentalmente con se stessi, confermandosi a vicenda nelle
loro buone intenzioni, come se l’inondazione delle chat di WhatsApp fosse sufficiente
a giustificare i loro sforzi. È cinicamente provato che se uno vuole essere
eletto deve stare lontano da questi gruppi, che dicono cose impopolari, sentite
dai più come praticamente invivibili nella società di oggi.
Se si aggiunge che
l’autorità ecclesiastica appare altrettanto divisa e smarrita, la situazione
non promette affatto bene,
non per oggi o domani, ma per anni.
Che possono fare allora i
cattolici, per vivere innanzitutto, oltre che per aiutare a vivere?
«Questo
mondo moderno non è solamente
un
mondo di cattivo cristianesimo,
questo
non sarebbe nulla, ma un mondo
incristiano,
scristianizzato. Ciò che è
precisamente
il disastro è che le nostre
stesse
miserie non sono più cristiane.
C’era
la cattiveria dei tempi anche sotto i
Romani.
Ma Gesù venne. Egli non perse i
suoi
anni a gemere ed interpellare la cattiveria
dei
tempi. Egli taglia corto. In un
modo
molto semplice. Facendo il cristianesimo.
Egli
non si mise a incriminare,
ad
accusare qualcuno. Egli salvò. Non
incriminò
il mondo. Egli salvò il mondo»
(Charles
Péguy, Veronique).
Noi non siamo grandi come
Gesù, ma Lui, diventando uno di noi, ci ha incitato a imitarlo, appunto,
facendo il cristianesimo.
L’unità tra i cattolici non
può essere in funzione di questa o quella opzione politica, ma della Chiesa,
cioè del sostegno e della diffusione della novità umana introdotta da Cristo. Questa novità non sta in un’analisi
intellettuale, per quanto profonda, ma in un luogo, un ambito in cui la verità
si comunica e diffonde come amicizia.
«Cristo compagnia di Dio
all’uomo», diceva il primo “volantone” di Pasqua di Cl. Dio, la verità, è diventato compagnia, sociologicamente comunità.
È attraverso l’esperienza e
la crescita di questa comunità che si realizza l’unità tra i cattolici e anche
l’unità dei cattolici con coloro che sono attratti da una possibilità di vita e
società
più conforme a quello che
desiderano.
Una unità che viene prima,
d’impeto, come adesione al vero per cui si è fatti, e non dopo, alla fine delle
discussioni sulle strategie, che saranno sempre l’espressione di una
approssimazione correggibile.
Un
cammino di giudizio
Non ci si divide sui
tentativi di andare verso la verità, ma sulla verità che non è riconosciuta
come destino comune, come senso condiviso della vita. L’unità tra i cattolici,
nella sua concreta realizzazione, non è mai stata vissuta come blocco granitico
e ideologicamente compatto, ma come riconoscimento di un ultimo e decisivo riferimento
dell’impegno e del giudizio a riguardo di ciò che è bene o male, vero o falso,
bello o brutto, giusto o ingiusto.
Questa esperienza, al di là
di tradimenti, riduzioni e incomprensioni, è stata la Dc, che ha letteralmente
salvato il benessere del nostro popolo, con il suo legame profondo e non
scontato con la Chiesa. Non si tratta di rifare la Dc, o coltivare nostalgie impossibili
e quindi inutili. Si tratta di ripercorrere un cammino di giudizio cristiano su
di sé, la società e la realtà, decidendo all’interno di una appartenenza, una unità
costitutiva e generativa, che proprio perché è tale non ha paura di aprirsi o,
se necessario, combattere. Poi sarà quel che sarà in proporzione alla nostra
virtù e secondo la volontà di Dio, in un mondo che per fortuna non dipende solo da
noi.
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