Quello che non dicono sul programma di
Trump
14 Marzo 2016
Le elezioni americane
sono seguite dai nostri media commentando il populismo di Trump, chiedendosi se
è simile a quello di Berlusconi o a quello di Grillo, zoomando su aspetti
secondari come Ted Cruz che arrostisce la pancetta sulla canna del fucile o su
un vecchio video del 1961 dove Sanders osanna Castro, mentre la partita
in corso negli Stati Uniti finirà per produrre, chiunque vinca, una svolta epocale.
Trump ha successo, sta
sconvolgendo il GOP ("Grand Old Party", il nickname dei repubblicani, ndr), mentre il socialista Sanders, un outsider,
mette in difficoltà Hillary Clinton e l’establishment democratico, perché –
significativo il risultato del Michigan, un tempo simbolo del capitalismo
americano, ora deindustrializzato con centinaia di fabbriche chiuse
e tante famiglie disperate – perché la ripresa economica dell’auto ignora le
vittime – non solo bianchi, ma anche latino e neri – della disoccupazione del
settore manifatturiero prodotta dalla globalizzazione.
Trump ha successo quando dice di volere una muraglia
con la Cina e il Messico, perché promette, come
il socialista Sanders, di riportare il lavoro a casa, di non volere il
TTP (anche Hillary sta prendendo le distanze dalla "Partnership
trans-pacifica"), perché l’America grandiosa e indebitata di Reagan e
Clinton è stata messa kappaò dalla globalizzazione. Quando nel 2009 Niall
Ferguson disse che "Chimerica" (l'alleanza tra Cina e America, ndr) si sarebbe trasformata in una chimera, perché
era una relazione sbilanciata, aveva visto giusto.
La globalizzazione e la
crescita dell’Asia hanno aperto nuovi mercati all’Occidente, ma hanno
giovato al ristretto mondo della finanza, non alle industrie, sulle quali
si è abbattuta la crisi delle banche del 2008. Gli Stati Uniti, il simbolo di
una società fluida senza classi, sono diventati un paese socialmente sempre più
stratificato, dove è drammaticamente aumentata la differenza tra ricchi e
poveri.
Trump sta demolendo la vecchia destra americana,
perché promette più tasse per i ricchi, esenzioni o diminuzioni fiscali
per i poveri, protezionismo commerciale, tariffe doganali e sulle questioni
bioetiche è più vicino ai democratici che ai repubblicani alla Ted Cruz. Certo, la critica al politically correct fa rumore, ma l’asso nella manica del tycoon di New
York è di rivolgersi a un elettorato più ampio di quello del vecchio GOP e di
proporre un’altra visione degli Stati Uniti.
Trump critica anche la politica estera degli Stati
Uniti, la guerra in Iraq, deplora la guerra di Libia, dice di volere un buon
rapporto con la Russia e di ritenere necessari interventi bellici solo quando
siano realmente in pericolo gli interessi americani. La fine di Jeb Bush dimostra quanto sia cambiato
l’elettorato repubblicano. Paradossalmente, un assist all’isolazionismo di
Trump viene dal nemico assoluto Obama, intervistato da Jeffrey Golberg
nell’ultimo numero del mensile "The Atlantic".
Obama dichiara di volere
disimpegnarsi dal Medio Oriente, ripete la condanna della guerra in Iraq,
deplora anche lui quanto accaduto in Libia nel 2011, è convinto che la minaccia
per gli Stati Uniti sia il cambiamento climatico, non Isis (un chiaro messaggio
a chi vorrebbe far combattere truppe americane in Libia), è felice di non avere
bombardato la Siria nel 2013.
Obama si rammarica di
aver fatto la guerra in Libia, dà la responsabilità a Cameron e soprattutto a
Sarkozy, ma, senza nominarla, dà anche uno schiaffo a Hillary, perché gli
americani sanno – è famosa la vicenda delle email su cui è intervenuto a
lungo anche il New York Times – che fu la Clinton a spingere un riluttante
Obama a bombardare la Libia, fidandosi, come una piccola politicante
dell’Arkansas, di un funzionario con affari poco edificanti in Medio Oriente.
Come scrive Niall
Ferguson sul Times del 6 marzo, Hillary Clinton, il Nixon di questa tornata
elettorale, potrebbe avere il suo Watergate ancora prima di essere eletta,
perché sulla consorte di Bill incombe l’Fbi con l’accusa di avere messo in
pericolo la sicurezza nazionale.
Per quanto riguarda
l’Europa, Obama definisce scrocconi gli alleati europei, perché non vogliono
pagare i costi degli impegni internazionali e scaricano tutto il peso sugli
americani. Nel 2002 Robert Kagan rimproverò agli europei di stare chiusi in bei
musei a discettare di Kant, mentre gli americani combattono. Da decenni, gli americani
sono stanchi di fare la guerra per gli europei, che hanno una qualità di vita
superiore a quella dell’americano medio e un welfare che gli americani si
sognano.
Un intervento, quello di
Obama, destinato a pesare, perché l’incubo di noi europei è dovere affrontare
il problema della Difesa. Gli europei rimpiangono la Guerra Fredda, ma ormai
c’è una pace rovente, come ha detto Ian Bremmer. Gli Stati Uniti hanno
raggiunto l’autosufficienza energetica, vogliono abbandonare il Medio Oriente,
concentrarsi su Asia e Sud America e possono, chiunque vinca le elezioni del
2016, abbandonare l’Europa al suo destino.
Anche in caso di
vittoria di Hillary Clinton, come si augura Angelo Panebianco, l’obiettivo
della first lady di Bill è dare agli americani un welfare europeo e quando si
investe in welfare è difficile spendere per la guerra. La Guerra Fredda è
archiviata. L’Ucraina – afferma Obama nell’intervista a The Atlantic – non è
nella Nato. Come dire: discorso chiuso per gli Stati Uniti.
Anche il Pentagono è ormai fuori dalla logica della
Guerra Fredda. Sulla "London
Review of Books" del 7 gennaio 2016, Seymour Hersh, premio Pulitzer per la
scoperta del massacro di My Lai, esperto dell’establishment politico-militare
americano, ha rivelato che i capi del Pentagono sostengono attivamente
l’impegno di Putin in Siria. L’establishment del Pentagono – continua Hersh – è
grato alla Russia, che durante la guerra di Bush Junior in Afghanistan
permise il passaggio sul proprio territorio di armi, benzina, acqua, cibo e
tutto il necessario per il rifornimento quotidiano della macchina militare
americana.
La Russia dette
informazioni su Bin Laden e autorizzò gli Stati Uniti a utilizzare una base
aerea in Kyrgyzstan. L’intervista di Obama, dopo l’articolo di Samuel Hersh, è
una conferma che gli Stati Uniti non vogliono più occuparsi di Medio Oriente e
intendono lasciare agli europei il compito di occuparsene e anche di affrontare
eventuali problemi con la Russia.
Per noi europei abituati
a vivere sotto la protezione dell’amico americano, l’isolazionismo statunitense è l’incubo peggiore, perché da
settanta anni siamo abituati a non pensare alla Difesa, ed è impossibile,
al momento, immaginare quali conseguenze potrebbe avere prendere atto di
dovere far fronte alla nostra sicurezza.
Però gli imperi costano
e gli Stati Uniti potrebbero decidere, come l’impero russo sovietico quando
rinunciò all’impero occidentale europeo, ritirandosi dai paesi dell’Est e dalla
DDR, che l’Europa costa troppo e le guerre in Medio Oriente hanno prodotto
troppi morti e troppi reduci mutilati, grandi spese che hanno
ulteriormente ampliato il debito con la Cina, e, soprattutto, danneggiato
l’immagine americana.
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