dal Blog di Leonardo Lugaresi
(...) Nessuno, ovviamente,
sostiene che non sia una cosa ottima che il papa pranzi con i poveri; nessuno
dice che, se necessario, in una chiesa non si possano fare cose diverse dal
culto divino, senza che ciò sia una profanazione; nessuno nega che
l'arcivescovo avesse l'autorità per fare la scelta che ha fatto. Ma la
questione è, appunto, che si è trattato di una scelta, non della presa d'atto di una necessità (o anche, se si vuole,
anche di una mera convenienza, opportunità o comodità). È del tutto evidente
che c'erano a Bologna cento altri posti in cui quel pranzo si poteva svolgere:
lo si è voluto fare proprio lì, forse anche con
una certa forzatura rispetto alle perplessità che, a quanto si dice, erano
state manifestate da almeno una parte del clero e dei fedeli bolognesi.
Perché? Lo dice
candidamente lo stesso arcivescovo in un'intervista alla radio, ripresa nel
primo degli articoli che ho citato sopra: «Posso capire chi si è scandalizzato.
È chiaro che c’è un punto importante che riguarda la sacralità del luogo. Ma
quello che è successo non significa desacralizzare anzi ci aiuta a capire
ancora meglio e a sentire ancora più umana l’eucarestia».
Ecco, questo è il
punto. C'è bisogno di qualcosa per “sentire ancora più umana l'eucarestia”. Ci
vogliono i poveri che mangiano in chiesa, perché se no
si ha l'impressione che in chiesa Dio non sia abbastanza vicino, anzi che non
ce ne sia abbastanza. Mi pare di riconoscere qui l'emergere di un fiume carsico
di incredulità che scorre nelle viscere della chiesa almeno dagli anni del
post-concilio. (Ci sarà stato anche prima, naturalmente; anzi, sono sicuro che
c'era, ma non c'ero io quindi non me lo ricordo). Chiarisco che non ce l'ho
assolutamente con l'arcivescovo di Bologna (che mi sta anche simpatico, tra
l'altro), ma lo cito solo come “portatore sano” di un virus molto diffuso. Lo
stesso che ha portato, per decenni, i liturgisti a usare un'espressione assurda
come “animare la liturgia” (la quale, dunque, senza sforzi, orpelli e trovate
nostre sarebbe “morta”). Quel “sentimento” che spingeva, negli anni della
nostra giovinezza, tanti giovani preti entusiasti e sconsiderati, a consacrare
belle pagnotte casarecce invece di ostie, perché così sì che il segno
sacramentale è bello concreto; o a trasformare l'altare in una mensa attorno
alla quale si sta tutti seduti, come gli apostoli all'ultima cena, perché così
sì che ci immedesimiamo, e a fare mille altre cose del genere. Convocare i
poveri a banchetto dentro la chiesa mi pare che
risponda allo stesso bisogno: le lasagne solidali sono percepite come più
concrete (dunque, in un certo senso, più reali) di quella piccola cialda
insipida, custodita in un tabernacolo che, non per caso, in molte chiese oggi è
decentrato e quasi nascosto, e che alle messe si dà via con disinvolta
noncuranza. E che noi dovremmo credere essere vera carne. Con il cibo non si
scherza. «La mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda» (Gv 6,55): è
quando Gesù ha detto questo, che i più se ne sono andati.
Il punto, dunque, a me
sembra che sia la nostra (la mia!) crisi di fede nel sacramento. L'esiguità del segno ci scandalizza (non i poveri che mangiano!). Ma
l'esiguità del segno non è stata forse voluta da Cristo stesso?
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