Non c’entrano solo gli immigrati o il terrorismo, ma la paura di
perdere le radici
L’Austria e la Repubblica Ceca, il
Giappone e l’Argentina: tre recentissime vittorie elettorali del centro destra. Quelle europee
si vorrebbe spiegare con la parola «paura»: gli elettori volterebbero
Mauricio Macri |
le spalle
alla ancora prevalente, anche se decadente, cultura di sinistra perché
terrorizzati dalla
invasione dei migranti e dal terrorismo.
Da ciò
nasce il gioco della minimizzazione di questi due flagelli del nuovo millennio:
«Non
dovete avere paura» comandano i padrini del buonismo irresponsabile; «non
abbiamo paura», rispondono i sostenitori del multiculturalismo disinvolto, possiamo
prenderli tutti, tanto le nostre libertà democratiche sono più forti».
Uno schema di comodo, un alibi disperato,
un ragionamento da
confraternita dei semplici.
Per fortuna i popoli non sono così sciocchi come credono le «Menti», i mali della
invasione
li conoscono direttamente.
Il loro
buon senso li induce ad avere una sacrosanta paura, anche di fronte alle
tecniche dei politici «progressisti» e dei mass-media, che sono quasi tutti
amici del giaguaro.
Ma la paura è solo un elemento del
malessere attuale dei popoli
occidentali. Essa è
come la
punta di un grande iceberg, che ha gelato le cose più autentiche della vita: la
famiglia, i gruppi sociali, la patria, il lavoro, la scuola, la religione, l’ambiente.
Se vogliamo capire bene questo dramma epocale dobbiamo rivolgerci a una donna: Simone Weil.
Che a Londra
lo diagnosticò nella sua più ampia e, purtroppo, ultima opera del 1943, lo
stesso anno della morte a 34 anni: «Sradicamento».
Rifiutato ben presto il giovanile marxismo, definito «oppio dei popoli», l’israelita
Simone
enunciò una antropologia, che si richiamava alle fonti più profonde delle
religioni: le Upanishad, Omero, la Bibbia, il Vangelo, il Corano. Le dèracinement fu pubblicata
postuma da Albert Camus e tradotta in italiano nel 1954 dalle Edizioni di Comunità, col
titolo La prima radice (Olivetti; ora Ediz. Se, 2013).
Simone conosce il concetto marxiano di «alienazione economica», ma lo considera
una
semplificazione politica del più vero concetto, insegnato dalle religioni, di «radicamento».
Anche se la rivoluzione comunista la eliminasse, economica, resterebbe
immutata
quella «mancanza di radici» che è costitutiva della situazione umana. Merita di
essere
ricordato un brano di insondabile profondità, che può aiutarci a capire la
situazione
attuale:
«Il radicamento è forse l’esigenza più importante e più
misconosciuta dell’anima
umana.
Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una
collettività che conservi vivi certi tesori del passato e presentimenti del
futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta
automaticamente dal luogo,
dalla
nascita, dalla professione, dall’ambiente.
Ad ogni
essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere tutta la sua
vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene
naturalmente” (ed. 1954, p. 49).
Che l’Occidente abbia largamente perso queste radici (di cui nell’Unione
Europea si
trovano ben poche tracce) è stato mostrato da non pochi studiosi.
Una delle
caratteristiche della nostra crisi, che in primo luogo non è economica,
ma
religiosa e morale, è che tutte le matrici della formazione della persona sono
state distrutte senza essere ancora sostituite.
Senza
dubbio andavano cambiate, ogni epoca deve aggiornarsi e riformarsi. Purtroppo
la nostra
ha perduto il vecchio senza essere sinora stato capace di inventare il nuovo.
La famiglia, un tempo paternale e
estesa, andava adattata al mutato ambiente, mentre è stata sconvolta e privata di
quasi tutte le sue funzioni: procreazione, educazione, assistenza. Mentre forme
diverse di convivenza, impropriamente chiamate famiglie, le tolgono la preminenza.
I genitori si sono fatti incerti e indefiniti. La religione è «buonista», non
vi si cerca più una radice ma un conforto emotivo domenicale, soprattutto nei
grandi raduni massmediatici. Sempre affollati mentre le chiese sono sempre più
vuote.
Le razze si sono eutanasizzate e le etnie
sono divenute confuse e
mutanti. La scuola
ha
largamente perso la sua duplice funzione di istruzione ed educazione. Il lavoro
e la professione si sono fatti provvisori e mutevoli. L’ambiente naturale non è
più un luogo di conforto, ma un malato da assistere.
La
politica ha smarrito tanto le idee quanto le ideologie, per farsi liquida e
mercantile.
Le vecchie radici sono state in gran parte sostituite con poteri intossicati e prepotenti: una scienza invadente, una tecnologia amorale, mezzi di comunicazione superficiali e manipolanti, una cultura di massa degradante e analfabeta.
Il tutto
venduto come ricchezza «pluralistica» e «dialogica», mentre la definizione
più giusta
l’aveva data Majakovskij nel suo Inno a Satana: «Tutti i centri sono in frantumi, non esiste più il centro«.
Non tutto né tutti entrano in questa fotografia. Ma di questa mancanza di un centro
o di una
radice i popoli occidentali si stanno rendendo conto.
E ne hanno
paura. L’invasione migratoria e il terrorismo aggiungono una nuova paura
alle
vecchie, essa nasce dalla consapevolezza che la società multietnica mette in
crisi anche
quelle
poche certezze che ancor erano sopravvissute.
Ne deriva un ripristino di nostalgie patriottiche e tradizionaliste, con modalità assai più nostalgiche che nazionaliste. Se è «populismo» è solo per il desiderio di ripristinare, contro l’individualismo e il narcisismo, un popolo, fornito di una identità che lo apre al dialogo e lo preserva dalla dissoluzione.
In modo da
poter colmare quella mancanza di princìpi permanenti e di valori non
negoziabili, che il grande poeta della finis
Austriae aveva espresso col noto verso: «E
come appare malato tutto ciò che diviene!». (George Trakl)
Da Italiaoggi
Gianfranco Morra
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