giovedì 28 febbraio 2019

PERCHE’ CREDO CHE IL CARDINALE PELL SIA INNOCENTE, E QUINDI PERSEGUITATO


LEONARDO LUGARESI
Il cardinale George Pell da ieri è in carcere perché è stato condannato in primo grado da un tirbunale australiano per abusi sessuali commessi su minori e il giudice gli ha negato, in attesa del processo di appello, la libertà su cauzione.
Chi conosce l'inglese può leggere qui un onesto e dettagliato resoconto della situazione, come risulta dal processo: https://abcnews.go.com/International/wireStory/differences-cardinal-pells-prosecution-defense-61313280. Sottolineo che la fonte è il sito della Australian Broadcasting Corporation, l'equivalente australiano della BBC, cioè quanto di meno sospettabile di parzialità in favore della chiesa cattolica possa esistere al mondo. Basta leggere, e si capisce.

Chi non conosce l'inglese può trovare qui http://www.lanuovabq.it/it/lo-strano-caso-della-condanna-del-cardinale-pell gli stessi contenuti. Questo articolo infatti sostanzialmente traduce l'altro, quindi chi fosse sospettoso nei riguardi di Tosatti e della Nuova Bussola Quotidiana si rassicuri.
Conosciuti, sia pur per sommi capi, tutti gli elementi emersi dal processo, non credo sia possibile a qualsiasi persona ragionevole ed onesta concludere in modo diverso dall'assoluzione, quantomeno per una totale assenza di prove e per l'assoluta inverosimiglianza della tesi accusatoria. Come, del resto, pare che avesse fatto a maggioranza di 10 a 2 una precedente giuria, che non era arrivata perciò ad emettere un verdetto ed era stata sostituita – con quali criteri? - da quella che invece ha condannato Pell.
Aggiungo una considerazione, che non sarà probante sul piano giuridico ma dal punto di vista della “certezza morale” ha pure un suo peso: per credere che un vescovo, subito dopo la messa solenne in cattedrale, ancora vestito coi paramenti sacri, in un luogo pubblico e frequentato, con un rischio elevatissimo di essere colto sul fatto, tiri fuori il pene e cerchi di violentare due chierichetti (neanche uno solo, ma due), nel breve lasso di tempo in cui il cerimoniere è uscito per fumarsi una sigaretta (!) ...  ecco, per credere una cosa del genere, bisogna (sottolineo: bisogna, nel senso che è proprio indispensabile) presupporre che Pell fosse del tutto fuori controllo, praticamente un matto che girava sempre coi pantaloni aperti e l'arnese pronto all'uso. Il che, di tutta evidenza, non risulta.
Conclusioni? Se, come è del tutto probabile (dal mio punto di vista, praticamente certo) è innocente, Pell viene perseguitato come cristiano, e più precisamente come cardinale della chiesa cattolica. Buon per lui, perché son tutti meriti per il paradiso, a sconto dei peccati che può aver commesso nella sua vita. Credo che in questo momento sia l'unico cardinale in carcere, quindi è quello che fa più onore alla porpora, in tutto il sacro collegio.
L'Australia conferma di essere un paese in cui è in atto una persecuzione politico-giudiziaria contro la chiesa cattolica.
La chiesa cattolica, d'altro canto, è messa nell'angolo,  ormai sempre più spesso prigioniera di una supina acquiescenza al potere giudiziario del mondo, che non osa più mettere in discussione. Il che non è un bene. Per nessuno.


lunedì 25 febbraio 2019

A CESENA I "CATTOLICI NEL CENTRODESTRA"


 “Cattolici nel Centrodestra” (CnC) è un movimento politico cesenate che nasce dall’esperienza politica maturata da alcuni cattolici (da ultimo, nel gruppo politico-consiliare di Libera Cesena) e dall’incontro con Papa Francesco in Piazza del Popolo a Cesena il 1 ottobre 2017.
Questo Movimento si è presentato a Cesena sabato 23 febbraio durante la presentazione del Candidato Sindaco di Cesena ANDREA ROSSI.
Ecco il testo dell’intervento di Arturo Alberti a nome del movimento.

PER UNA NUOVA INIZIATIVA POLITICA A CESENA


CATTOLICI NEL CENTRO DESTRA

·         Personalmente non sono iscritto in nessun partito ma sento la responsabilità di un impegno come cittadino di Cesena che ama la propria città

·         Come Cattolico
L'esperienza di fede mia e dei miei amici ci ha fatto crescere una passione instancabile per l'uomo,colto nel suo bisogno e nelle circostanze concrete in cui si presenta. Oggi l'uomo di Cesena ha bisogno di cambiamento,di una nuova prospettiva culturale e politica

I cardini della Dottrina Sociale della Chiesa sono una occasione per tutti,una possibilità di sviluppo per tutti e non solo per il mondo cattolico. Se una proposta non è valida per tutti non è valida per nessuno. Vogliamo dare il nostro contributo valido per lo sviluppo della nostra città attraverso questi punti di principi e di metodo:

1.       Principio di sussidiarietà,che l'amministrazione uscente ha spesso confuso con una supplenza per giungere dove l'ente pubblico non arrivava.
2.      Centralità della persona e della famiglia così come descritta nell'art. 29 della Costituzione. Per questo essendo la famiglia centrale nella dinamica della vita sociale occorre istituire un assessorato alla Famiglia che comprenda tutte le politiche sociali
3.      Promozione della natalità e tutela della vita in tutte le sue fasi (per es. quoziente famigliare, ecc.).
4.      Promozione  dell'educazione attraverso il sostegno della scuola pubblica così come definita nella legge Berlinguer del 2000 (La scuola pubblica è costituita dalla scuola statale e dalla scuola paritaria)
5.      Promozione del lavoro: la persona e il suo lavoro sono alla base dello sviluppo sociale
6.      Accoglienza: ultimo ma non ultimo come importanza. “L’obiettivo di ogni politica sociale deve essere il maggior bene possibile di tutta la cittadinanza, tra diritti e doveri, legalità e convivenza”, ha scritto recentemente il nostro Vescovo. Il bene comune non è il bene della maggioranza, ma di ognuno, di ogni persona, e la cultura solidale che lega il nostro popolo ci porta a mettere in primo piano le persone senza lavoro, senza casa, senza occupazione, senza diritti e bisognose di tutto. Le persone povere, affette dai diversi tipi di Povertà economica, povertà politica, povertà di relazioni e povertà di senso.


·         Un giudizio politico
  1. Siamo consapevoli della necessità di offrire alla città di Cesena una credibile alternativa di governo, dopo un’esperienza ininterrotta di troppi anni di governo di uno stesso colore politico. Cinquant'anni di governo della Città ad opera dello stesso gruppo di potere hanno determinato: auto-referenzialità, automatismi nelle decisioni operative, nessuno stimolo alla innovazione
  2. Il ceto politico che ha dominato la città per decenni è stato di fatto gestito da un sistema trasversale di tipo consociativo, in cui il confine tra finanza e affari è diventato evanescente. L’anima del medesimo partito, che pur con diversi nomi ha governato Cesena, ha mantenuto costantemente una tendenza all’accentramento, limitando e regolando a proprio piacimento ogni attività civica e individuale, appoggiandosi ad una visione etica dell’uomo e della società per molti aspetti incompatibile con i fondamenti della dottrina sociale della Chiesa.
  3. Ad un governo accentratore vogliamo sostituire un governo della città “veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali (in particolare la famiglia e i corpi intermedi), che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private

  • Cattolici nel centro destra: il nostro contributo

1.       Non vogliamo cambiare qualche briciola di distribuzione del potere, ma assumerci come compito quello di attuare una discontinuità totale con questo sistema di favorire i centri di potere locali.
  1. I principi e i metodi che sopra ho enunciato, e che sono alla base dello sviluppo umano culturale e sociale possono essere accolti, difesi e promossi meglio nell'area del centrodestra pur con tutti i limiti che possono esserci perché è in grado di dare fiato alle realtà vive che operano nel nostro territorio, grazie anche all’atteggiamento di ascolto di Andrea Rossi
  2. in particolare il cambiamento dovrà riguardare il tema del Welfare: non è più sufficiente il Welfare di comunità,ma bisogna fare un passo avanti, sviluppando nuove e più incisive  linee di intervento
  3. La povertà e il disagio sociale non sono uno status permanente che necessita per sempre di interventi assistenzialistici. Da queste condizioni si può uscire.
ü  Occorre mobilitare tutte le risorse umane del territorio e non solo gli addetti ai lavori.
ü  Impostare i servizi come un investimento
ü  Mettere in atto processi di valutazione in itinere  con la disponibilità a cambiare
ü  Questo approccio innovativo non si può inventare da un giorno all'altro. E' una prospettiva di lavoro nuova su cui bisogna lavorare a lungo e sperimentare, una volta raggiunto l’obiettivo dell’alternanza.

Arturo Alberti
23 febbraio 2019

venerdì 22 febbraio 2019

FORMIGONI. C’È UN COMPITO PER TUTTI GLI AMICI



Che don Giussani, di cui oggi ricorre l’anniversario della scomparsa, lo conforti ed illumini nell’ora più difficile. E doni a noi il coraggio di non rinnegare mai la nostra storia.



Non chiedeteci di rispettare una sentenza che riteniamo ingiusta. Sebbene l’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni sia stato condannato con pena definitiva a 5 anni e 10 mesi, per noi non è un corrotto, per il semplice fatto che di questa corruzione non c’è evidenza.

Tante volte, e anche di recente, abbiamo sollevato dubbi su un processo che fa acqua da tutte le parti. Non ci sono tangenti, non ci sono passaggi di denaro, i conti di Formigoni sono stati esaminati a fondo e non è stato trovato un euro fuori posto. Nessun atto amministrativo è stato compiuto per portare a lui e solo a lui un beneficio. Esistono delibere approvate all’unanimità, persino dall’opposizione, ritenute regolari dall’avvocatura della Regione, dal Tar, dalla Corte dei conti regionale, preparate da dirigenti della Lombardia che sono stati assolti, e che invece, per Formigoni, diventano prove di colpevolezza.

Ci sono le famose “utilità” gonfiate a dismisura per far impressione ai giornalisti allocchi, foto di Formigoni in barca che hanno campeggiato per mesi su quotidiani e siti per giustificare sentenze che altrimenti sarebbero parse anche al più distratto degli italiani quel che effettivamente sono: lunari.
Formigoni avrà fatto degli errori, avrà commesso delle leggerezze, può essere. Ma non ha rubato un euro ai malati, non ha fatto affari con le cliniche private. La Regione che ha guidato per quasi vent’anni ha macinato record su record, tenuto in piedi la baracca di questo scassato paese, mostrato come la sussidiarietà non è una bella idea per farci qualche convegno, ma un metodo di governo che fa bene ai cittadini (sarà mica un caso che dalle Alpi a Lampedusa vengono tutti qui a curarsi) e pure alle casse dello Stato.

Ma oggi tutto questo, oggi che per Formigoni si aprono le porte del carcere, conta poco. C’è qualcosa di più urgente da dire e da fare, oggi. Ed è ricordare che quanti in questi anni lo hanno non solo votato, ma sostenuto, seguito nelle campagne elettorali, difeso quando un mondo che non può sopportare che un buon cattolico sia anche un buon amministratore, ora questa gente ha un compito: far sentire all’amico in difficoltà, secondo le modalità che il tempo e la fantasia suggeriranno, tutto il suo affetto e la sua vicinanza. Perché noi non siamo ex formigoniani perché non siamo ex amici.

Emanuele Boffi 22 febbraio 2019 
TEMPI

VIVA LA CATTEDRA

Bernini Cattedra di San Pietro

LEONARDO LUGARESI
Oggi la chiesa celebra la festa della “Cattedra di san Pietro”. Festeggia la cattedra, chiunque la occupi. Si può anche dire: a prescindere da chi la occupa pro tempore. Festeggia e ringrazia Dio per avere il papa, non questo (o quel) papa.
La parola cattedra propriamente indica il trono, su cui il vescovo siede per impartire l'insegnamento ed esercitare il governo. A noi però fa venire in mente la scuola, e non è poi così sbagliato, giacché i padri della chiesa definivano la chiesa “una scuola in cui Cristo è il solo maestro” (Clemente Alessandrino).
Senza cattedra, non c'è scuola. Ma quelli che ci si siedono, sono tutti supplenti. Qualcuno è meglio, qualcuno è peggio ... ma come sa bene chi si intende un po' di scuola, il vero problema è la continuità didattica.


FELTRI: FORMIGONI IN CARCERE SENZA PROVE



Il commento del direttore di Libero sulla condanna dell’ex governatore della Lombardia: «Per lui una pena esagerata anche se fosse colpevole. E di questo non si vede la prova»

Si impegnano allo scopo di spedire in carcere Formigoni, condannandolo a una pena esagerata, 5 anni e 10 mesi, che per un uomo di 71 anni è un mezzo ergastolo. Sarebbe troppo quand’anche fosse colpevole, però non ho capito dove stiano le prove della corruzione.

Non gli hanno trovato una lira, gli rimproverano qualche giro in barca. Gli hanno imputato l’acquisto di una villa in Sardegna a prezzi di favore, ma chiunque di noi che ha provato a vendere una casa sa che il valore di un immobile è aleatorio, e l’incasso preventivato dai periti è quasi sempre il doppio della realtà di mercato: e a certificarlo sono le aste proprio dei Tribunali. In cambio di un paio di vacanze ai Caraibi, il Formiga avrebbe autorizzato sovvenzioni a cliniche private per l’acquisto di macchinari d’avanguardia. Nessuno ha potuto dimostrare che si sia trattato di un trattamento di favore. L’unica cosa sicura è che con lui la Regione Lombardia, di cui è stato governatore per quasi vent’anni, è diventata non in Italia ma in Europa la terra d’eccellenza della medicina: pubblica e privata non c’è differenza, in quanto ogni cittadino ha acquisito il diritto, grazie alla sua riforma, di scegliersi l’ospedale. Se fosse vivo Umberto Veronesi, confermerebbe. 

Se ci fosse bisogno di una prova a discolpa, peraltro ormai inutile, essa consiste nell’accanimento e nella voluttà con cui si è stabilito di appioppare proprio a lui, e – a memoria di archivio solo nel suo caso-, il massimo dei massimi di quanto la legge prevede. Non basta. Nel frattempo, quasi ad Formigonum, il Parlamento, su pressione manettara dei grillini, ha stabilito che se il reato è la corruzione (e qui – ripeto – non se ne vede la prova) puoi essere entrato nella terza età, ma niente domiciliari, niente minestra da far sorbire ai vecchietti degli ospizi, esercizio con il cucchiaio in cui si esibì magnificamente Berlusconi. Per Formigoni niente vecchietti ma lucchetti: prigione, gattabuia, gabbio. Ci sono violentatori cui sono stati dati i domiciliari, i ladri romeni che si sono presi una schioppettata all’ennesimo furto hanno patteggiato dieci mesi con la condizionale. Ciononostante se una volta sei stato potente, vale la massima di Mao Tse Tung: bastona il cane che affoga. 

Lo si era capito da tempo che Formigoni era stato destinato alla galera. Mi era bastato osservare il corredo di fotografie e di filmati che sui giornali e in tivù hanno circostanziato le accuse, suggestionando il tribunale del popolo: il delitto di giacca arancione e di chiappa al vento sulla barca. Pessimi costumi, tali da escluderlo dal club della caccia, ma non crimini per cui includerlo nel circuito penitenziario. 

Immaginavo pertanto che la Cassazione non si sarebbe discostata dalla linea segnata dal Palazzo di Giustizia di Milano, eppure mi restava un margine di dubbio. Finché ho avuto la certezza assoluta di come sarebbe finita (male) la faccenda. È stato quando la Chiesa, a nome della Madonna, lo ha scaricato alla vigilia della udienza finale. È accaduto che il pro-rettore del Santuario di Caravaggio (provincia di Bergamo, ma diocesi – sottolineo da bergamasco – di Cremona) avendo saputo che privatamente, senza striscioni, un gruppo di amici di Formigoni aveva organizzato di andare a messa nella basilica dedicata a Santa Maria del Fonte, patrona della Lombardia, per chiederle soccorso in vista della sentenza, ha scomunicato l’iniziativa con tanto di comunicato ufficiale. Il senso? Qui si celebrano le Messe per i barconi, non per Formigoni. Che tristezza. 

Quando il cosiddetto Celeste, col manto della Vergine, era governatore della Lombardia i preti lo incensavano, e a ragione: aveva trovato la strada per sostenere le scuole cattoliche e gli oratori, mostrando come ciò fosse un guadagno perfino per i miscredenti. Probabilmente, se morisse, gli rifiuterebbero il funerale. 

Per quanto mi riguarda, se me lo lasceranno fare, gli porterò le arance in carcere. Poserei anche una corona di fiori in morte della giustizia. Non lo farò solo perché voglio bene a Formigoni, ma non al punto di condividere l’ora d’aria con lui per vilipendio della magistratura. 

Vittorio Feltri 22 febbraio 2019


PROPRIO NON CAPISCO


DI LEONARDO LUGARESI
Mi è capitato solo l'altro giorno di venire a conoscenza di una risposta che il papa ha dato, durante la conferenza stampa nel viaggio di ritorno dalla recente visita a Panama, a un giornalista che gli chiedeva un bilancio di quella missione. Francesco ha risposto in spagnolo e questa è la traduzione ufficiale, che si trova qui: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/january/documents/papa-francesco_20190127_panama-volo-ritorno.html:
«La mia missione in una Giornata della Gioventù è la missione di Pietro, confermare nella fede, e questo non con indicazioni fredde o precettive, ma lasciandomi toccare il cuore e rispondendo a
quello che lì accade. Io non concepisco, perché io lo vivo così, non concepisco, faccio fatica a pensare che qualcuno possa compiere una missione solo con la testa. Per compiere una missione bisogna sentire, e quando senti vieni colpito. Ti colpisce la vita, ti colpiscono i problemi... All’aeroporto stavo salutando il Presidente e hanno portato un bambino africano, simpatico, nero nero, piccolo così. E mi ha detto: “Guardi, questo bambino stava passando la frontiera della Colombia, la madre è morta, è rimasto solo. Ha cinque anni. Viene dall’Africa, ma ancora non sappiamo da quale Paese perché non parla né l’inglese, né il portoghese, né il francese. Parla solo la lingua della sua tribù. Lo abbiamo un po’ adottato noi”. Un bambino con l’aria furba, si muoveva bene… Però il dramma di un bambino abbandonato dalla vita, perché sua mamma è morta e un poliziotto lo ha consegnato alle autorità perché se ne facciano carico. Questo ti colpisce, e così la missione comincia a prendere colore, ti fa dire qualcosa, ti fa accarezzare. Non è una cosa ragionata. La missione sempre ti coinvolge. Almeno a me coinvolge. Sarà perché sono “italiano” e mi viene da dentro e mi coinvolge. Dico sempre ai giovani: voi quello che fate nella vita lo dovete fare camminando, e con i tre linguaggi: quello della testa, quello del cuore, quello delle mani. E i tre linguaggi armonizzati, in modo che pensate ciò che sentite e ciò che fate, sentite ciò che pensate e ciò che fate, fate ciò che sentite e ciò che pensate. Non so fare un bilancio della missione. Io con tutto questo vado sempre alla preghiera e rimango davanti al Signore, a volte mi addormento davanti al Signore, ma portando tutte queste cose che ho vissuto nella missione e gli chiedo che Lui confermi nella fede attraverso di me».
Fin qui, tutto chiaro e niente da obiettare. Poi però il papa ha soggiunto:
«Questo è come intendo la missione del Papa e come la vivo io. Ci sono stati dei casi, ad esempio, in cui si sono poste delle difficoltà di tipo dogmatico, e io non mi sento di rispondere solo con la ragione, mi viene spontaneo agire in un altro modo (Esto es como concibo la misión del Papa y como la vivo yo. Hubo casos, por ejemplo, que se plantearon alguna dificultad de tipo dogmática y a mí no me sale contestarle solo la razón, me sale actuar de otra manera).
Qui, invece, non capisco: Francesco sembra dare una portata generale al principio di non seguire tanto la ragione quanto piuttosto le emozioni, facendone addirittura il cardine del suo modo di intendere la missione del papa, e soprattutto specifica che lo adotta anche nell'affrontare «delle difficoltà di tipo dogmatico», in cui «gli viene spontaneo agire in un altro modo».

Mah! Una questione dogmatica su quale base dovrebbe essere affrontata, se non secondo ragione, ovviamente di una ragione che non prescinde, ma presuppone la fede? E qual è mai «l'altro modo» in cui gli «viene spontaneo agire»?
Forse è sfuggito a me, però non mi pare che vi sia stata alcuna reazione rispetto ad un'affermazione del genere, che qualche problema dovrebbe suscitarlo. È davvero così scontato che il papa dica che, di fronte a questioni dogmatiche, «gli viene spontaneo» agire in un modo diverso da quello della ragione?


mercoledì 20 febbraio 2019

L‘ALLARME DI FINKIELKRAUT: "GLI ISLAMISTI VOGLIONO CONQUISTARE LA FRANCIA"



Il filosofo francese ricostruisce quanto accaduto durante l'aggressione a Parigi e collega la violenza antisemita alla crescita dell'islam radicale nelle periferie della Francia
Alain Finkielkraut è il filosofo francese che è stato aggredito da un gruppetto di gilet gialli durante la manifestazione sdi sabato a Parigi. Gruppetto di cui uno dei partecipanti è già stato identificato. E si tratta di un islamico vicino agli ambienti salafiti. All'inizio, tutti hanno pensato fosse un rigurgito antisemita da parte di alcuni militanti dell'estrema destra francese. Poi la realtà si è rivelata differente.

Finkielkraut ha raccontato a Repubblica gli attimi dell'aggressione: "Alcuni manifestanti si sono avvicinati per propormi di entrare nel corteo e indossare il gilet giallo, non so se fossero sinceri o ironici, comunque non erano ostili". Poi sono arrivati gli insulti: "Erano in tanti, urlavano forte. Ho capito solo che era meglio andarsene perché rischiavo di essere linciato. Se non ci fossero stati i poliziotti mi avrebbero spaccato la testa. Detto questo, non mi sento né vittima né martire".
Il filosofo ricostruisce l'accaduto e racconta quello che gli è stato urlato: "Solo dopo, rivedendo le immagini, ho ricostruito che non si sente 'sporco ebreo' ma 'grossa merda sionista', 'razzista', 'fascista'. Un uomo ha urlato: 'La Francia è nostra'. Qualcuno penserà alla citazione del vecchio slogan nazionalista antisemita 'La Francia ai francesi'. Non credo. L'uomo aveva la barba, la kefiah, il governo l'ha identificato come qualcuno vicino ai salafiti. Il senso era: 'La Francia è la terra dell'Islam'. Questo insulto deve farci riflettere".

E sul pericolo del populismo in Europa, il filosofo francese dice "che bisogna rispettare la libertà e la saggezza dei popoli europei quando rifiutano di aderire a una visione multiculturale della società. Liquidare l'attuale governo italiano con il termine 'lebbra nazionalista' è stato un grave errore di Macron".
Finkielkraut afferma cheil populismo è inquietante, ma è una reazione patologica al fenomeno di trasformazione demografica che i governi non vogliono affrontare. Se non ci fosse stata la Merkel che nel 2015 decise di accogliere un milione di profughi siriani, dicendo “noi ce la faremo” (Wir schaffen das), non avremmo avuto la Brexit”. “Io -continua- sono figlio di immigrati polacchi, e sono stato integrato, ma il sistema scolastico francese che ha permesso la mia integrazione è crollato, e oggi l’ideologia dominante mette tutto sullo stesso piano, la grande letteratura vale quanto il rap”.

E non si pente di aver sostenuto i gilet gialli: "Grazie alla casacca fluorescente è diventata visibile la Francia rurale, delle periferie lontane. Sono i perdenti della globalizzazione e dello Stato sociale. Purtroppo il movimento è stato corrotto dal successo mediatico. Alcuni esponenti si sono montati la testa, diventando arroganti.
Quel che mi allontana oggi dal movimento non è l'antisemitismo, che è marginale, ma un egualitarismo pericoloso, in cui uno vale uno, l'intelligenza e le competenze non vengono più rispettate".


martedì 19 febbraio 2019

CATTOCOMUNISTI, GIÙ LE MANI DA GUARESCHI



Il vescovo Zuppi e Bertinotti insieme per Guareschi in chiave vagamente antisalvini. Il collante? "Don Camillo e Peppone guardavano a quello che li univa e non a ciò che li divideva". Il solito refrain del cattocomunismo, che dopo aver prodotto solo fallimenti viene sulle rive del Po per appropriarsi di un uomo libero che impegnò la vita per non essere schiavo del potere e dei compromessi. E che del cattocomunismo, con i suoi personaggi, era l'esatta antitesi.


Per favore, lasciateci almeno don Camillo e Peppone, lasciateci quel mondo piccolo che è il nostro mondo, non è la teologia del popolo, ma è il popolo teologo cui bastava alzare gli occhi al campanile per scorgervi Dio. In perenne crisi d’astinenza da telecamere, il narcisismo ecclesiastico e quello politico si incontrano nella casa natale di Giovannino Guareschi. 

Matteo Maria Zuppi e Fausto Bertinotti, uno arcivescovo di Santa Romana Chiesa, corrente egemone santegidina, l’altro subcomandante sconfitto da una scia inarrestabile di tracolli politici e ideologici del comunismo. 

Il prelato, che si atteggia a don Camillo con l’arma della pacca sulla spalla e l’ex segretario rifondarolo che gioca ad essere la reincarnazione di Bottazzi senza comandare più neanche un consiglio comunale. Più che ossimori, sposi forzati della più colossale modificazione genetica del ‘900 politico: il cattocomunismo. 

Al teatro Verdi di Busseto va in scena un evento organizzato dall’Arcidiocesi di Bologna in trasferta: una lettura dei testi di Guareschi. Dalla cronaca che ne fa Repubblica il senso è stato questo: “Dalla contrapposizione tra un uomo di cultura marxista e uno di Chiesa, risalta invece una sostanziale convergenza di sapore dossettiano proiettando un’aura di amara nostalgia per la politica che fu innervata di grandi passioni ideali”. 

Convergenza? Non stentiamo a crederlo dato che sia Zuppi che Bertinotti sono figli di quella stagione di cui oggi vediamo i frutti rovinosi: “Guardiamo più a quello che ci unisce, che a quello che ci divide”. Frase che Guareschi non si sarebbe mai sognato di pronunciare. Per anni ce la siamo sentita ripetere come mantra. Un compitino, condito dalla solita accusa strisciante al populismo attuale. 

Però, almeno adesso non toccateci Guareschi, non cercate di mettere il vostro cappello su un uomo che non aveva nulla a che fare con la vostra pretesa così accomodante. Perché Guareschi e il suo don Camillo non hanno nulla a che fare con il cattocomunismo, ne sono l’esatta antitesi, l’anticorpo perfetto. L’errore che tanto Zuppi quanto Bertinotti fanno, e con loro tutti quelli che equiparano don Camillo a Peppone a anticipatori del compromesso storico è quello di spacciare l’affetto di don Camillo per Peppone, ricambiato, come un preludio dell’abbraccio mortale tra cattolici e marxisti. 

Usare Guareschi in chiave anti salviniana. Un furbesco errore e una falsificazione. 

No, cari Zuppi e Bertinotti, non vi sarà facile appropriarvi di un uomo che all’epoca avreste demolito e umiliato quando pagò con il carcere la sua libertà controcorrente nei confronti del Presidente della Repubblica. Allora, quando Giovannino era vivo e vegeto e dalle colonne del Candido sbeffeggiava quel potere di cui ora voi siete comunque gli eredi, lo avreste bollato come nemico del popolo. E non avreste potuto comprenderlo perché per comprendere don Camillo e Peppone bisogna anzitutto essere emiliani o figli di una terra rossa come la Toscana o l’Umbria. Terre in cui i vincitori sono sempre stati i comunisti, ma i vincenti, cioè quelli della parte giusta, sono sempre stati i cattolici. Questo lo sapevano Guareschi, don Camillo, Peppone e persino lo Smilzo. Ma anche la maestra monarchica, perché a tenerli uniti e prossimi non era la pretesa di un’ideologia comune e geneticamente modificata, ma un sentimento di affetto cresciuto nel tempo, nelle frequentazioni comuni, nelle famiglie fianco a fianco.

Nessuno si è mai sognato - men che meno don Camillo e Peppone - di pensare di andare d’accordo rinunciando ad un pezzo della propria identità. Che era forte, ma solo una, e anche Peppone, che battezzava suo figlio di nascosto lo sapeva, era quella vincente: era quella di chi cantava Noi vogliamo Dio, nonostante per Bandiera rossa provasse un affetto tra il patetico e il compassionevole. Lo sa chi ha percorso i “fossi per la lunga”, come si dice qui. Non lo sa chi è nato a Milano e Roma e - dopo aver vagato alla ricerca dell’ideologia migliore sempre sconfitta -, è venuto qui, sulle rive del Grande Fiume ad appropriarsi un mondo piccolo che non potrà mai essere il suo. 

ANDREA ZAMBRANO
lanuovabussola

RICONOSCERE LA PRESENZA


La Cristianità oggi sembra tutta assorbita dai problemi del mondo, come se questo fosse il compito fondamentale della Chiesa. E Cristo diventa la premessa per le nostre attività. C'è bisogno invece che si ricordi che la fede è anzitutto riconoscere, seguire e amare la Sua presenza.


La situazione attuale della Cristianità - preferisco usare la parola Cristianità rispetto a quellapiù oggettiva e istituzionale di Chiesa - solleva qualche preoccupazione. Sembra infatti che questa Cristianità si muova nel mondo cercando di accettare tutte le provocazioni che il contesto culturale, politico e sociale presenta, tentando di affrontare e risolvere questi problemi uno dopo l’altro. Come se questo fosse il compito precipuo e fondamentale della Chiesa.

In questo modo il grande interlocutore, o “il grande protagonista” come amava dire l’indimenticato cardinale Giacomo Biffi, non solo rimane sullo sfondo ma rischia di essere dimenticato.

Si tirano tutte le conseguenze come se Cristo fosse presente, ma appunto rischia di essere un “come se”. Perché il Signore Gesù Cristo non può essere la premessa per le nostre attività o per quelle che Benedetto XVI chiamava “le conseguenze spirituali ed etiche della fede”. La fede è la Sua presenza da riconoscere, da seguire e da amare nel mistero della Chiesa. Perciò la Chiesa si deve sempre di nuovo presentare ai suoi figli - e aldilà di essi - a tutto il mondo, come il luogo dove l’incontro con Cristo è oggettivo, il luogo nel quale la conversione a Lui è resa possibile e dove inizia quel cammino verso l’esperienza di vita nuova che costituirà la prova che il Signore mantiene tutte le sue promesse.

Penso che occorra che ogni tanto qualche voce nella Cristianità richiami questi valori o questa Presenza. Senza questa Presenza, senza la coscienza di questa Presenza, tutto il resto non è soltanto secondario ma rischia di essere inutile.

LUIGI NEGRI
* Arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio
19/2/2019



giovedì 14 febbraio 2019

LA RIEDUCAZIONE LAICISTA E L'OMOTRANSNEGATIVITA'


LA LEGGE SCALFAROTTO REGIONALE

La regione Emilia-Romagna pare volersi accodare presto ad altre amministrazioni regionali in materia di omofobia e transfobia, approvando ciò che non è stato ottenuto per via parlamentare.

Stiamo parlando della cosiddetta legge contro “l'omotransnegatività e le violenze determinate dall'orientamento sessuale o dall'identità di genere”, presentata in commissione Parità dell’Assemblea legislativa regionale e che ricalca la già bocciata legge Scalfarotto, contro la quale numerose contestazioni si erano sollevate nelle stanze della politica e nelle piazze di tutta Italia. Tale progetto di legge (pdl), la cui discussione in commissione è iniziata mercoledì 13 febbraio, è stato presentato dai consigli comunali di Bologna, Parma, San Pietro in Casale e Reggio Emilia e si trova ora abbinato ad un altro pdl denominato “norme per il diritto all'autodeterminazione, contro le discriminazioni e le violenze determinate dall'orientamento sessuale o dall'identità di genere”, che vede tra i firmatari i consiglieri del Movimento Cinque Stelle Silvia Piccinini (prima firmataria), Raffaella Sensoli e Andrea Bertani.

Eppure come per la legge nazionale rimasta poi bloccata dopo la sua approvazione alla Camera, il copione sembra essere lo stesso: cavalcare la giusta lotta contro le discriminazioni, per colpire le opinioni e la libertà di espressione.
Nel testo presentato dai comuni emiliani, dalla giunta bolognese targata PD del sindaco Merola, molto attenta alle istanze Lgbt, a quella civica di Pizzarotti a Parma, schieratasi di recente a favore delle trascrizioni di bambini come “figli” di coppie omogenitoriali, sono molti i punti che destano preoccupazione.

Si parla dell’intenzione diprevenire e superare le situazioni, anche potenziali, di discriminazione e omotransnegatività, quali comportamenti di avversione, dileggio, violenza verbale, psicologica e fisica”. Un’accezione a maglie molto larghe dentro la quale potrebbe finire qualsiasi tipo di affermazione a sostegno della famiglia naturale, così come riconosciuta dall’articolo 29 della Costituzione. Una dichiarazione che si andrebbe ad unire alla volontà della Regione di promuovere e valorizzare “l’integrazione tra le politiche educative, scolastiche e formative, sociali e sanitarie, del lavoro”, coadiuvata dall’adesione alla rete RE.A.DY (Rete nazionale delle Pubbliche Amministrazioni anti discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere).

Insomma parrebbero esserci tutti i requisiti per una rieducazione a tuttotondo: dalla sanità, al mondo del lavoro, fino a giungere nelle scuole, un settore della vita pubblica delicatissimo se si pensa alle numerose iniziative di comitati dei genitori dispiegatesi in Emilia-Romagna e non solo, per far prevalere la priorità educativa delle famiglie sui propri figli rispetto alle iniziative scolastiche.

Non manca inoltre l’ormai inflazionato “contrasto degli stereotipi di genere anche in relazione ad “attività e iniziative a sostegno dell’associazionismo sportivo”, con buona pace di chi potrebbe affermare che le differenze nelle discipline sportive, non nascano dalla società, bensì dalla biologia umana. Infine a garantire la corretta vigilanza sull’attuazione del pdl e sui suoi risultati sarebbe, oltre all’osservatorio regionale, il Corecom (Comitato Regionale per le Comunicazioni), con il compito di effettuare “la rilevazione sui contenuti della programmazione televisiva e radiofonica regionale e locale, nonché dei messaggi commerciali e pubblicitari, eventualmente discriminatori”. Una funzione che però potrebbe travalicare le stesse prerogative del comitato, come sottolineato dal consigliere del Gruppo misto Michele Facci, assegnando dunque al Corecom compiti maggiori rispetto a quelli previsti dalla legge quadro sulle parità.
Enrico Castagnoli
Dal Corriere Cesenate 14 febbraio 2019