Il vescovo
Zuppi e Bertinotti insieme per Guareschi in chiave vagamente antisalvini. Il
collante? "Don Camillo e Peppone guardavano a quello che li univa e non a
ciò che li divideva". Il solito refrain del cattocomunismo, che
dopo aver prodotto solo fallimenti viene sulle rive del Po per appropriarsi di
un uomo libero che impegnò la vita per non essere schiavo del potere
e dei compromessi. E che del cattocomunismo, con i suoi personaggi, era
l'esatta antitesi.
Per favore,
lasciateci almeno don Camillo e Peppone, lasciateci quel mondo piccolo che
è il nostro mondo, non è la teologia del popolo, ma è il popolo teologo cui
bastava alzare gli occhi al campanile per scorgervi Dio. In perenne crisi
d’astinenza da telecamere, il narcisismo ecclesiastico e quello politico si
incontrano nella casa natale di Giovannino Guareschi.
Matteo Maria
Zuppi e Fausto Bertinotti, uno arcivescovo di Santa Romana
Chiesa, corrente egemone santegidina, l’altro subcomandante
sconfitto da una scia inarrestabile di tracolli politici e ideologici del
comunismo.
Il prelato, che
si atteggia a don Camillo con l’arma della pacca sulla
spalla e l’ex segretario rifondarolo che gioca ad essere la reincarnazione di
Bottazzi senza comandare più neanche un consiglio comunale. Più che ossimori,
sposi forzati della più colossale modificazione genetica del ‘900 politico: il
cattocomunismo.
Al teatro Verdi
di Busseto va in scena un evento organizzato
dall’Arcidiocesi di Bologna in trasferta: una lettura dei testi di Guareschi.
Dalla cronaca che ne fa Repubblica il senso è stato questo: “Dalla
contrapposizione tra un uomo di cultura marxista e uno di Chiesa, risalta
invece una sostanziale convergenza di sapore dossettiano proiettando un’aura di
amara nostalgia per la politica che fu innervata di grandi passioni ideali”.
Convergenza?
Non stentiamo a crederlo dato che sia Zuppi che
Bertinotti sono figli di quella stagione di cui oggi vediamo i frutti rovinosi:
“Guardiamo più a quello che ci unisce, che a quello che ci divide”.
Frase che Guareschi non si sarebbe mai sognato di pronunciare. Per anni ce la
siamo sentita ripetere come mantra. Un compitino, condito dalla solita accusa
strisciante al populismo attuale.
Però, almeno
adesso non toccateci Guareschi, non cercate
di mettere il vostro cappello su un uomo che non aveva nulla a che fare con la
vostra pretesa così accomodante. Perché
Guareschi e il suo don Camillo non hanno nulla a che fare con il
cattocomunismo, ne sono l’esatta antitesi, l’anticorpo perfetto. L’errore
che tanto Zuppi quanto Bertinotti fanno, e con loro tutti quelli che equiparano
don Camillo a Peppone a anticipatori del compromesso storico è quello di
spacciare l’affetto di don Camillo per Peppone, ricambiato, come un preludio
dell’abbraccio mortale tra cattolici e marxisti.
Usare Guareschi
in chiave anti salviniana. Un furbesco errore e una
falsificazione.
No, cari Zuppi
e Bertinotti, non vi sarà facile appropriarvi di un
uomo che all’epoca avreste demolito e umiliato quando pagò con il carcere la
sua libertà controcorrente nei confronti del Presidente della Repubblica.
Allora, quando Giovannino era vivo e vegeto e dalle colonne del Candido sbeffeggiava
quel potere di cui ora voi siete comunque gli eredi, lo avreste bollato come
nemico del popolo. E non avreste potuto comprenderlo perché per comprendere don
Camillo e Peppone bisogna anzitutto essere emiliani o figli di una terra rossa
come la Toscana o l’Umbria. Terre in cui i vincitori sono sempre stati i
comunisti, ma i vincenti, cioè quelli della parte giusta, sono sempre stati i
cattolici. Questo lo sapevano Guareschi, don Camillo, Peppone e persino
lo Smilzo. Ma anche la maestra monarchica, perché a tenerli uniti e
prossimi non era la pretesa di un’ideologia comune e geneticamente modificata,
ma un sentimento di affetto cresciuto nel tempo, nelle frequentazioni comuni,
nelle famiglie fianco a fianco.
Nessuno si è
mai sognato - men che meno don Camillo e Peppone - di pensare di andare d’accordo
rinunciando ad un pezzo della propria identità. Che era forte, ma solo una,
e anche Peppone, che battezzava suo figlio di nascosto lo sapeva, era quella
vincente: era quella di chi cantava Noi vogliamo Dio, nonostante
per Bandiera rossa provasse un affetto tra il patetico e il
compassionevole. Lo sa chi ha percorso i “fossi per la lunga”, come si dice
qui. Non lo sa chi è nato a Milano e Roma e - dopo aver vagato alla ricerca
dell’ideologia migliore sempre sconfitta -, è venuto qui, sulle rive del Grande
Fiume ad appropriarsi un mondo piccolo che non potrà mai
essere il suo.
ANDREA ZAMBRANO
lanuovabussola
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