Che posto ha il discepolato cristiano nella moderna società democratica?
Come possono i cristiani contribuire a una sana democrazia e a un governo veramente
popolare della nostra Italia?
Per affrontare queste domande si è sviluppato un
interessante dibattito sull’eredità di don Sturzo in
occasione dell’anniversario del suo appello «a tutti gli uomini liberi e
forti» (1919). Per proseguire la riflessione, pensiamo sia necessario tornare al V Convegno della Chiesa italiana, che si è
svolto a Firenze nel 2015: un evento sinodale.
In quell’occasione papa Francesco ha pronunciato un discorso che potremmo
definire «profetico» alla luce dell’oggi. Bisogna tirarlo fuori dai sussidi
chiusi da tempo e tornare a meditare su quelle parole che pongono un legame forte tra fede e politica, perché
«i credenti sono cittadini».
I CREDENTI SONO CITTADINI
«La nazione non è un museo – affermava Francesco –, ma è un’opera
collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune
proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze
politiche o religiose». Ma soprattutto aggiungeva che è inutile
cercare soluzioni in «condotte e forme superate che neppure
culturalmente hanno capacità di essere significative». Ed eccoci all’attuale
crisi della democrazia. In un tempo in cui il bisogno di partecipazione si sta
esprimendo in forme e modi nuovi, non è possibile tornare all’«usato garantito»
o alle retoriche già sentite. Tantomeno, quindi, possiamo immaginare di
risolvere la questione mettendo i cattolici tutti da una «parte» (considerando
tutti «gli altri» dall’altra). Non basta più neanche una sola tradizione
politica a risolvere i problemi del Paese.
La forza propulsiva del cattolicesimo democratico ha bisogno di essere
resistente in questi tempi confusi, ma anche di ascoltare e capire meglio,
perfino coloro che oggi sono riusciti a intercettare umori e idee della gente.
Agostino e Benedetto, davanti al crollo dell’Impero, hanno messo le basi del
cristianesimo del Medioevo. Il cristianesimo non ha mai temuto i cambi di
paradigma.
Che fare, dunque? La Chiesa italiana saprà farsi interpellare dal mutamento
in corso senza limitarsi ad attendere tempi migliori? E come? Abbiamo compreso
che è impossibile pensare il futuro dell’Italia senza una partecipazione attiva
di tutti i cittadini. Per questo prendiamo spunto da un passaggio del discorso
introduttivo del card. Gualtiero Bassetti alla sessione invernale del Consiglio
permanente della Cei: «Ripartiamo, fratelli, da questo stile sinodale,
viviamolo sul campo, tra la gente…».
CHE COS'E' LA "SINODALITA'"
Ecco il punto: soltanto un esercizio effettivo di sinodalità
all’interno della Chiesa potrà aiutarci a leggere la nostra storia d’oggi e a
fare discernimento. Che cos’è la sinodalità?
Essa consiste nel
coinvolgimento e nella partecipazione attiva di tutto il popolo di Dio alla
vita e alla missione della Chiesa attraverso la discussione e il discernimento.
Essa respinge ogni forma di clericalismo, incluso quello politico. La crisi
della funzione storica delle élites – che fino a poco fa era
riuscita a far dare alle democrazie occidentali il meglio di sé – deve aprirci
gli occhi. La sinodalità è radicata nella natura popolare della Chiesa, «popolo
di Dio».
Perché la sinodalità? Perché questo ampio
coinvolgimento? Perché innanzitutto dobbiamo capire che cosa ci è accaduto.
Dopo anni in cui forse abbiamo dato per scontato il rapporto tra Chiesa e
popolo, e abbiamo immaginato che il Vangelo fosse penetrato nella gente
d’Italia, constatiamo invece che il messaggio di Cristo resta, talvolta almeno,
ancora uno scandalo. Sentimenti di paura, diffidenza e persino odio – del tutto
alieni dalla coscienza cristiana – hanno preso forma tra la nostra gente e si
sono espressi nei social networks, oltre che nel broadcasting personale
di questo o di quel leader politico, finendo per inquinare il senso estetico ed
etico del nostro popolo. Il fenomeno – sia chiaro – non riguarda solamente la
nostra Italia.
A questo si aggiunga il fatto che il potere politico oggi ha anche
ambizioni «teologiche». Pure il crocifisso è usato come segno dal valore
politico, ma in maniera inversa rispetto a quello che eravamo abituati: se
prima si dava a Dio quel che invece sarebbe stato bene restasse nelle mani di
Cesare, adesso è Cesare a impugnare e brandire quello che è di Dio, a volte
pure con la complicità dei chierici.
LE SFIDE DEL PRESENTE
Il «nemico», dunque, non è più solamente la
secolarizzazione, come spesso abbiamo detto, ma è la paura, l’ostilità, il sentirsi minacciati, la frattura dei
legami sociali e la perdita del senso di fratellanza umana e di solidarietà.
Nella società sta venendo meno la fiducia:
nei medici, negli insegnanti, nei politici, negli intellettuali, nei
giornalisti, negli uomini del sacro… Risuonano su questa situazione confusa le
parole che il Papa a Firenze ha rivolto alla Chiesa italiana: «Sia una Chiesa
libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere
qualcosa». E aveva chiesto alla Chiesa: «discutere insieme, oserei dire
arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti».
Francesco proseguiva raccomandando la ricostruzione dei legami per
favorire «l’amicizia sociale». Quindi,
compito della Chiesa italiana – diceva – è «dare una risposta chiara davanti
alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una
delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della
società comune». È da fuggire, dunque, l’opzione tombale, cioè l’eresia che le
nostre comunità non abbiano più nulla da dire nel fermento della nostra
società.
Quale deve essere, allora, il senso di questa risposta? Possiamo
riconoscerlo nel discorso di fine anno 2018 del presidente Mattarella, il quale
ha affermato l’importanza dell’impegno «per riconoscersi come una comunità di
vita» che ha un «comune destino». Sentirsi comunità significa «condividere
valori, prospettive, diritti e doveri», «“pensarsi” dentro un futuro comune, da
costruire insieme»». D’altronde, la forza della Chiesa cattolica in politica è
la sua cattolicità, cioè la sua capacità di ricordare
l’universalità e di tenere insieme i pezzi lì dove tutto sembra andare in
frantumi. E ciò vale anche per la nostra Chiesa italiana.
A questo punto torniamo alla nostra domanda iniziale. Possiamo riconoscere
il nostro compito oggi come discepoli di Cristo impegnati nelle tensioni della
nostra moderna democrazia in due punti evidenziati dal Presidente: da una
parte, contrastare le «tendenze alla regressione della storia»; dall’altra,
fare la nostra parte per costruire il Paese come «comunità di vita», curando
le ferite dei legami spezzati e della fiducia tradita. E questo potrà avvenire
solamente grazie a un largo coinvolgimento del popolo di Dio, in un processo
sinodale non ristretto né alle élites del pensiero cattolico
né ai contesti (specifici e importanti) di formazione.
L’esercizio della sinodalità e quello della democrazia sono cose diverse
come metodo. Ma si può facilmente cogliere quanto sia importante la
sinodalità nella Chiesa per discernere le forme dell’impegno democratico dei
cristiani affinché essi siano – come ci chiedeva Francesco alla fine
del suo discorso di Firenze – «costruttori dell’Italia». Che dunque stia
maturando il tempo per un sinodo della Chiesa italiana?
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