venerdì 8 febbraio 2019

CARITÀ. L’INIZIO DI UN MONDO NUOVO


Nella crisi di oggi, i gesti di carità pongono un giudizio culturale e politico. E ci rimettono davanti a una questione decisiva: proporre un ideale concreto, che risponda ai bisogni e intacchi il cuore.

DAVIDE PROSPERI
Davide Drospe
Da qualche anno, ormai, si sente ripetere sempre più spesso, e più noiosamente, lo stesso ritornello: c’è una crisi della politica, in Italia e non solo. Anche le ultime elezioni, che avrebbero dovuto sancire un cambio di rotta atteso e conclamato (almeno stando al plebiscito di voti che l’attuale maggioranza ha raccolto), in realtà hanno contribuito solo a rafforzare la malinconica persuasione che la politica ha perso una volta per tutte il suo ruolo di rappresentanza; se non ancora in termini istituzionali, per lo meno come rappresentanza delle istanze del popolo. 

Questo sentimento è alimentato dai social network e cavalcato da tanti mass media, che fanno il gioco di quei soggetti politici e culturali che si identificano con l’antipolitica e la destrutturazione della società. Poi cosa importa che a fronte di questo non vi sia alcuna proposta concreta di costruire qualcosa? È una questione che ai più appare irrilevante; ora è il momento di demolire, perché tutto è marcio e non merita di stare in piedi...

Ora, che la politica sia in crisi è sotto gli occhi di tutti. Ma per come la vedo io, tale crisi rovinosa non deriva dall’assenza di una classe dirigente, e nemmeno dal venire meno di una rete associativa, dei famosi “corpi intermedi” – associazioni, sindacati e via dicendo –, che pure sono fattori sempre più evidenti. Il carattere profondo di questa crisi è un altro: la rinuncia a pensare che la politica sia innanzitutto un tentativo di espressione di un ideale.

L’aspetto più drammatico dell’epoca che stiamo vivendo è proprio l’assenza di ideali proposti. Fossero anche ideali particolari o limitati, come è stato in tante epoche della nostra storia (vedi il Sessantotto, per esempio), in cui comunque certi impeti erano espressione di un tentativo di dare risposta alle domande profonde dell’uomo. Poi molto spesso hanno tradito quella mossa iniziale, diventando ideologia nella misura in cui non hanno fatto i conti con la realtà in tutti i suoi aspetti. Ma adesso constatiamo amaramente che non c’è più neanche questo tentativo.

Perché oggi sempre di più nei giudizi, e conseguentemente nelle decisioni, prevale “la pancia”? Perché vale solo il mio immediato bisogno o tornaconto, nel senso che non c’è più un ideale affermato, riconosciuto per cui spendersi e quindi si pensa che in questo modo ci si possa sentire più liberi. L’unico risultato, invece, è una schiavitù dalla mentalità dominante, quella mentalità che senza accorgerci ci plasma nella concezione e che per questo don Giussani identificava con la parola “potere”. Perché inevitabilmente c’è sempre un potere che tiene le fila, che ti sollecita a fare quello che vuole; e sarà sempre più così quanto più ci indirizzeremo verso una concezione della persona autonoma e slegata da rapporti, affetti e realtà educative autentiche che possano sostenere la costruzione di un soggetto umano maturo.

Dobbiamo prendere consapevolezza che questa è la strada che, volontariamente o involontariamente, abbiamo imboccato. E occorre cambiare rotta.

È per questo che, negli ultimi anni, CL ha proposto un’altra modalità di vivere il rapporto con la politica. Non è stata una rinuncia, ma l’affermazione della necessità di prendere coscienza di questa svolta storica che non riguarda solo i cattolici, ma la radice del disagio che mina profondamente le fondamenta della nostra società.

In che cosa è consistita la preoccupazione educativa di questa proposta? Nell’affermazione decisa che il primo argine a questo potere è la costruzione di un soggetto umano solido. Anche l’idea recente di vedere la rinascita di un partito cattolico nel nostro Paese, quando non c’è più un tessuto sociale che lo identifichi, rischia di avere un respiro molto corto. Torniamo inevitabilmente allo stesso punto: oggi più che mai, non sarà possibile fare un partito se manca il soggetto che vive una certa esperienza ideale. Questo è il vero problema. La sfida attuale è riproporre come l’ideale vissuto sia qualcosa di molto concreto.

In questo senso io credo che certi gesti di carità che CL sta realizzando da anni abbiano un significato che va ben al di là della raccolta di beni o fondi per i più bisognosi. La verità è che pongono pubblicamente un giudizio culturale, ma anche politico, in quanto rappresentano una forma concreta di riproporre un ideale, che diventa anche un’ipotesi di risposta a certi bisogni.

Nelle scorse settimane molti di noi hanno partecipato a diversi gesti di carità, che continueranno in varie forme nei prossimi mesi, come le Tende di Natale per sostenere i progetti di cooperazione di Avsi o il grande gesto nazionale della Colletta Alimentare, di cui avete letto nelle pagine precedenti.
Prendiamo ad esempio proprio quest’ultimo, un gesto di dimensioni colossali, che ha raccolto il corrispettivo di 17 milioni di pasti da donare a chi ne ha più bisogno, grazie soprattutto alla testimonianza dei 150mila volontari – molti dei quali giovani – che hanno animato la giornata mostrando a tutti che può ancora esserci un guadagno per la propria umanità a fare del bene gratuitamente. È interessante provare a fissare l’attenzione sulle ragioni che stanno all’origine di un simile trasporto per questo genere di gesti: da dove nasce e dove ci può portare? Certamente tanti che vi hanno partecipato avranno avuto motivi diversi, personali e non. Ma c’è sempre un punto sorgivo da cui parte il contagio.
La vera radice del valore educativo di questi gesti, innanzitutto per chi li fa, è nell’affermazione che l’ideale per cui ci si mette insieme arriva, deve arrivare fino al concreto di toccare il bisogno della singola persona
A mio avviso la vera radice del valore educativo di questi gesti, innanzitutto per chi li fa, è nell’affermazione che l’ideale per cui ci si mette insieme – si può pensare di mettersi a costruire e ricostruire con speranza anche davanti a un futuro incerto –, arriva, deve arrivare fino al concreto di toccare il bisogno della singola persona. Solo un tale ideale concreto e totalizzante può avere la forza di contagiare altri in un’epoca nella quale sembra che niente abbia più la forza di toccarci, in cui non si sente nemmeno più il bisogno di mettersi insieme per fare o anche solo per capire, perché a tutto ognuno può avere accesso da solo nell’era della digitalizzazione...

Noi stiamo vivendo, oggi, una condizione nella quale si aprono moltissime sfide per la società e per l’umanità, a tutti i livelli. Però in tutto questo è come se mancasse un giudizio sintetico.
Ad esempio, mi hanno raccontato che durante un incontro pubblico a Milano in cui era stata proposta una testimonianza delle Suore di Carità dell’Assunzione su come loro offrono una disponibilità reale ad aiutare gli immigrati – dalle questioni minime fino all’educazione – gratuitamente e spesso senza essere riconosciute, taluni dei presenti – in gran parte cristiani impegnati – abbiano avvertito una specie di distanza, espressa a mezza bocca con parole tipo «sì, va bene, ma questi ci stanno invadendo, bisogna mettere argini, frenare gli arrivi…». Da dove nasce una reazione del genere? Perché possiamo avvertire lo scandalo di una distanza persino davanti a gesti così profondamente umani? Dà scandalo anche a noi perché questa gratuità, questo modo di fare e di accogliere, è un giudizio che batte in breccia una mentalità che ormai abbiamo addosso, fa venir meno una consuetudine con un certo modo di sentire le cose: la carità è un giudizio storico, e non è appena qualcosa che riguarda uno spazio di generosità che uno può dare nella vita.
L’unica cosa che può avere la forza di intaccare il cuore dell’uomo, in qualsiasi condizione esso si trovi, è accorgersi di uno sguardo diverso su di sé, accorgersi che per qualcuno la tua vita vale
Perché, allora, ripartire proprio dalla carità per riproporre l’ideale? Perché l’unica cosa che può avere la forza di intaccare il cuore dell’uomo, in qualsiasi condizione esso si trovi, è accorgersi di uno sguardo diverso su di sé, accorgersi che per qualcuno la tua vita vale. Accorgersi che hai un destino e che questo destino è Bene.

In Riconoscere Cristo, don Giussani parte proprio da lì: qual è il fattore di diversità con cui tu ti impatti nel presente con il fatto di Cristo contemporaneo? Vedi gente che vive con questa diversità buona addosso, profondamente umana. Questo è l’inizio di un mondo nuovo, perché è il principio di un soggetto nuovo nella storia che è generato dall’incontro con Cristo presente.

«Il lavoro che diventa obbedienza si chiama carità», osserva Giussani: «L’amore alla donna che diventa segno della perfezione finale, della bellezza finale, si chiama carità. E il popolo che, invece che soggetto di una storia umana piena di litigi e di lotte, diventa storia di Cristo, regno di Cristo, gloria di Cristo, è carità. Perché la carità è guardare la presenza, ogni presenza, colti nell’animo dalla passione per Cristo, dalla tenerezza per Cristo». Letizia e gioia, ovvero quello che desideriamo anche nella vita comune, sono possibili solo a queste condizioni. Altrimenti «sono due parole da strappare dal vocabolario umano», non esistono più: «Esiste la contentezza, la soddisfazione, tutto quello che volete, ma la letizia non esiste; perché la letizia esige la gratuità assoluta, che è possibile solo con la presenza del divino, con l’anticipo della felicità, e la gioia ne è l’esplosione momentanea, quando Dio vuole, per sorreggere il cuore di una persona o di un popolo in momenti educativamente significativi».

Ecco, «sorreggere il cuore di un popolo», perché «non sia un groviglio di facce, ma il regno di Cristo che avanza». È per questo che la carità è ciò di cui abbiamo più bisogno: perché, come conclude Giussani, «è la legge di tutti». 

Da "Tracce" 2019 gennaio


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