L’Europa, o meglio
l’Unione Europea, non va demolita, ma nemmeno aggiustata.
Va semplicemente
rifatta. Sarebbe ora di cominciare a dirlo con chiarezza. E sarebbe una
bella novità se in occasione della campagna elettorale per il rinnovo
dell’Europarlamento il Partito Popolare Europeo o anche solo qualche suo
candidato avesse il coraggio di dirlo forte e chiaro. Fino ad oggi invece
non si va oltre i sussurri. Non se ne è ancora trovato uno che affermi
apertamente l’ovvio indicibile: ossia che
i trattati europei non vanno aggiustati. Vanno ripensati e rifatti ex novo.
Votato nel 1992 dopo
la caduta del muro di Berlino, ma predisposto quando quel muro era ancora ben
saldo, il trattato di Maastricht entrò in vigore in un’Europa ormai
completamente diversa da quella per cui lo era voluto. Un’Europa dove non solo
era tornato in scena l’Est europeo, ma anche la Germania riunificandosi tornava
ad essere il più grande Paese del continente. Sarebbe stato meglio
prendere atto della nuova situazione e rimettersi all’opera ex novo.
Non lo si volle invece fare, ma anzi su
quella base ormai obsoleta si pretese di costruire il farraginoso macchinario
dei trattati successivi, che si stanno adesso rivelando ciò che fatalmente
sarebbero divenuti, ossia un traballante castello di carte.
All’ombra dell’aggrovigliata foresta di
norme di cui i trattati consistono si è sviluppato un centro di potere non democratico bicipite costituito da un lato
dalla Commissione, cuspide di una piramide burocratica forte (diciamolo ancora
una volta) di ben 23 mila dipendenti, e dall’altro dal Consiglio europeo, ossia
dal comitato dei capi di governo degli Stati membri dove in teoria tutti sono
sullo stesso piano ma in pratica non si fa nulla che non piaccia al cancelliere
tedesco e al presidente francese.
Ruotando attorno a un principio di sussidiarietà affermato in teoria ma poi
non applicato nella pratica, i trattati europei hanno aperto la via a un
continuo spostamento di potere dalle istituzioni democratiche degli Stati
membri alla macchina tecnocratica autoritaria della Commissione: un processo
che forti élite politiche, culturali e economiche hanno favorito in ogni modo.
Né dai popolari, né dai socialisti, le
forze politiche europee storiche, è sin qui mai venuta alcuna esplicita ed
efficacia resistenza a tale involuzione. Se
dunque la bandiera della battaglia per la democrazia in sede di Unione Europea è
stata raccolta dai “sovranisti” i partiti storici possono soltanto rimproverare
se stessi.
Oggi come oggi, giocare nei partiti storici una battaglia che da decenni si
continua a perdere risulta meno promettente che confrontarsi con i
“sovranisti”: quindi in Italia con la Lega.
Non c’è dubbio che dai “sovranisti”
vengono ai problemi risposte di solito molto grezze e talvolta preoccupanti. E
non c’è dubbio che il confronto con loro sarebbe comunque arduo. Mentre
continuano a vincere una battaglia dopo l’altra è difficile si rendano conto
che da soli non possono vincere la guerra.
Invece però di autoassolversi e di
stracciarsi le vesti i popolari — come pure i socialisti e i liberali —
farebbero bene a cercare di dare ai problemi risposte più credibili di quelle
dei loro avversari.
In democrazia (non nel mondo degli “illuminati”) il consenso si conquista
così: spiegandosi con gli elettori e cercando di convincerli. Non trattandoli
come dei babbei e demonizzando chi li convince. Chi fa così continua a perdere.
10 marzo 2019
Nessun commento:
Posta un commento