lunedì 27 gennaio 2020

EMILIA-ROMAGNA. LA LEZIONE CHE I CATTOLICI DEVONO TRARRE


Rodolfo Casadei 27 gennaio 2020

No, la vittoria del centrosinistra in Emilia-Romagna non è l’equivalente della vittoria contro i nazisti a Stalingrado; Lucia Borgonzoni non è Friedrich Paulus e Stefano Bonaccini non è Georgij Zhukov, così come Zingaretti non è Stalin e Salvini non è Hitler.

Perciò non contate su di me per il grande fronte democratico antifascista che ha dimostrato che la marcia della Lega non è inarrestabile. Non contate su di me per la santa alleanza fra radicali e cattolici, liberaldemocratici e socialdemocratici, sinistra europeista e destra europeista in funzione antisovranista, dove il sovranismo è l’uomo nero pronto a sguinzagliare falangi di razzisti, manipoli di neonazisti e coorti di neofascisti contro immigrati, ebrei, musulmani, preti di strada, omosessuali e transessuali.

E perdonatemi se per rafforzare il mio “no” tiro in ballo il servo di Dio don Luigi Giussani, e le motivazioni con cui giustificò il “no” di Comunione e Liberazione all’analoga richiesta che nei terribili anni Settanta veniva fatta al suo movimento (e a quella gemmazione di Cl che era il Movimento Popolare) di aderire al fronte antifascista promosso ed egemonizzato dall’allora Pci, quando il neofascismo era una cosa seria, e non si accontentava di essere accomunato a chi suona i citofoni delle famiglie contenenti qualche pregiudicato, ma metteva bombe, sprangava avversari e sparava in piazza.
Diceva a quel tempo (che secondo alcuni si sta ripresentando) Giussani: «Non ci si può riconoscere in un progetto politico che oggi viene portato avanti con grande tenacia dal Pci e da altre forze di sinistra “laica”, e che consiste nella mobilitazione di un fronte democratico ed antifascista, l’adesione al quale è suggerita come forma di resistenza al neofascismo emergente, e che dovrebbe essere egemonizzato da chi lo propone. (…)
Questa proposta – culturale prima che politica – non può essere, ritengo, accolta dai cattolici proprio perché è ancora la tradizionale proposta della cultura illuministico–borghese, che in questa nuova versione tende a quella ultima intolleranza, che fatalmente riemerge in ogni progetto culturale, e quindi socio–politico, che sia generato non da un senso religioso (consapevole o inconsapevole che sia), ma da una elaborazione intellettuale. Ancora una volta, si accuseranno di fascismo tutti coloro che non di ciò saranno rei, ma di non aderire alla cultura ed ai progetti dei promotori del fronte; ed in special modo si tenderà a trattare da fascisti tutti coloro che vivono realmente la fede ecclesiale.
Ma, nell’attuale stato di cose, i cattolici hanno spazio e possibilità di non entrare in questo fronte democratico e antifascista così ambiguo, senza correre il rischio di essere spinti a fianco dei neo-fascisti? A mio avviso una vita ecclesiale consapevole e tutta tesa ad incarnarsi può ancora garantire lo spazio necessario perché questa posizione emerga e si affermi come l’ambito adeguato di una presenza inconfondibile. Certamente si tratterà di uno spazio molto esiguo e da difendere con atteggiamento insonne e deciso. (…) Proprio per questo i cattolici italiani devono impegnarsi ad una presenza intelligente ed organizzata, che testimoni e renda evidente un’unità popolare da cui si generi una resistenza nuova, secondo l’aspetto più autentico di quello spirito che mobilitò le energie migliori della società italiana fra il 1943 e il 1945». (Comunione e Liberazione – Intervista a Luigi Giussani, a cura di Robi Ronza, Jaca Book 1976, pp. 172-174)


Rapportato ai giorni nostri, ce n’è per tutti: sia per i cattolici che vorrebbero imbarcarsi con Salvini che per quelli intenzionati a partecipare alla nuova Resistenza contro di lui. Gli uni e gli altri vivono l’oblìo della loro identità. L’oblìo di «una vita ecclesiale consapevole e tutta tesa ad incarnarsi» in una «presenza inconfondibile (…) una presenza intelligente ed organizzata, che testimoni e renda evidente un’unità popolare». Che cosa vuol dire? Che cosa voleva dire allora e che cosa vuol dire oggi? Vuol dire che il cristianesimo nel suo aspetto più socialmente tangibile, cioè la comunione, non può essere ridotto ad anestetico per i casi tristi personali – malattia, morte, adulteri, divorzi, figli o coniuge sbandati – mentre l’impegno politico è lasciato alla generosità del singolo e non si distingue in nessun modo da quello di chi cristiano non è. Si finisce per diventare subalterni alla cultura dominante.

Si finisce trascinati nella corrente di chi identifica la cura per l’ambiente con l’utopismo rabbioso di Greta, l’amore per l’altro con l’immigrazionismo, l’amicizia fra uomini di fede diversa con la fusione delle fedi in una religione universale, l’abbraccio all’uomo e alla donna feriti nel profondo della loro affettività con l’accettazione fatalistica della distruzione della famiglia naturale, l’aspirazione all’Europa unita con l’europeismo odierno tecnocratico e cresocratico (cioè fondato sul potere del denaro) distruttore di culture e nazioni. Oppure, nel momento in cui questa cultura dominante va in crisi per le sue insuperabili contraddizioni dovute alla sua concezione sbagliata della natura umana, che produce realtà sociali, economiche e ambientali insostenibili, nel momento in cui l’establishment a cui ci si era aggrappati comincia ad affondare, ci si rivolge con speranza all’uomo forte che scimmiotta l’identità cristiana. Ma che non potrà incarnarla davvero, perché la disintermediazione fra il leader e il popolo di cui si fa forte compromette sia la natura del popolo che quella della leadership in generale. Il primo diventa massa e il secondo diventa Narciso.

Il popolo è luoghi e tempi particolari, che non possono essere espropriati o svenduti, è rapporti reali e opere, è tradizione, storia, legame fra le generazioni; è costruire e abitare spazi che sono la nostra terra promessa. Non è generato dal leader: il leader ne è una espressione, una guida che conduce la marcia solo se è in grado di difendere e conservare tutto ciò che è stato. Questo non vale solo per Salvini: vale per Renzi, vale per Berlusconi, vale per chiunque si sia considerato o sia stato considerato il mediatore unico fra il potere politico e i bisogni delle persone e delle loro formazioni sociali. E valeva davanti al fascismo, quello vero; ma tenendo presente l’aforisma marxiano secondo cui la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa, possiamo applicare alla situazione attuale le parole che Giussani pronunciava in riferimento al Ventennio: «Io sono persuaso che l’impeto con cui i cattolici seppero avviare un tentativo di unità politica e di presenza culturale e sociale, tra la fine dell’800 e la guerra ’14-’18, non ha poi potuto svilupparsi proprio a causa della mortificazione inflitta dal fascismo; e le conseguenze di tale soffocamento hanno poi perdurato ben oltre la caduta del regime fascista; in pratica fino ad oggi». (Comunione e Liberazione – Intervista a Luigi Giussani, p. 172)

Di fronte alle sfide del presente bisogna tornare alle origini. Tornare al fatto che la specificità del popolo cristiano è di essere stato suscitato da Cristo, e che è la Sua presenza misteriosa che lo anima, che percorre i rapporti fra le persone, che qualifica quella speciale forma di unità che va sotto il nome di comunione. Si tratta di un fatto integrale, e questa integralità non può non investire anche la politica. Ci soccorre ancora un giudizio di Giussani del 1972 o 1973: «Ciò che non è ancora chiaro è che vivere la fede in una situazione, pone un orizzonte globale che già contiene il momento politico. Il lavoro politico per noi coincide con il materializzarsi della comunione, con la capacità della comunione di investire la totalità dell’esistenza». (citato in Massimo Camisasca, In cammino dentro il mondo – La storia di Cl, San Paolo 2014, p. 335).

E qui si chiarisce anche che l’integralità non è integralismo: non si tratta di imporre i precetti cristiani nelle leggi positive; non si tratta neppure -benché giusto, positivo e lodevole – solamente di impegnarsi per il riconoscimento negli ordinamenti delle verità morali che non sono confessionali, ma radicate nella coscienza di ogni uomo, credente o non credente. Si tratta di agire nella vita pubblica a partire da quel cambiamento della personalità che avviene prendendo parte all’esperienza di comunione che si fa nella comunità cristiana. Esperienza fatta di volti precisi, di rapporti reali, di storie. Esperienza che non può non desiderare l’unità dei cristiani nella politica, nell’impegno sociale, nella cultura, ecc. Non l’unità disciplinare, per pura obbedienza a ordini dall’alto, ma l’anelito all’unità nelle cose importanti che nasce dall’esperienza dell’unità che Cristo fa fra noi e ci dona.

I risultati dell’aver abbandonato questo cammino sono sotto gli occhi di tutti, ma molti preferiscono fare finta di non vedere e pretendono di essere seguiti sulla strada della subalternità culturale. Io non ci sto. Andate senza di me. Non lo dico per farmi notare, ma per farvi risparmiare sulle vettovaglie.

FOTO ANSA

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