STEFANO SPINELLI 25 OTTOBRE 2020 TEMPI
I paesi
che insistono perché la Commissione dia le pagelle agli Stati non fanno che
bloccare l’arrivo delle risorse del Recovery Fund e imporre una visione
politica di parte.
Gli Stati sono alle
prese con una grave crisi sanitaria ed economica e l’Europa ha promesso aiuti
mediante lo strumento del Recovery Fund e ne sta ancora discutendo. Intanto il
tempo passa e la pandemia chiede risposte. La domanda che si fanno tutti gli
Stati, almeno quelli che hanno deciso di attivare la richiesta di fondi, come
l’Italia, è questa: a quando le sovvenzioni?
Il recente vertice dei
capi di Stato e di governo dell’Ue del 15 e 16 ottobre ha lasciato in
sottofondo il delicato problema. Si è dunque persa un’occasione per accelerare
l’attivazione del piano di aiuti agli Stati per 750 miliardi (parte in
sovvenzioni e parte in prestiti), che sarebbero necessari adesso, per
contrastare gli effetti della pandemia sanitaria. Invece, ben che vada, si
parla comunque di fondi disponibili nel corso della seconda parte del 2021 (gli
Stati dovrebbero presentare i relativi “piani per la ripresa e la resilienza”
entro il 30 aprile; la Commissione dovrebbe valutarli entro due mesi, prima di
essere approvati dal Consiglio). Il problema è che – per poter avviare la
procedura – manca ancora un’intesa tra Parlamento e Consiglio.
COSA STA SUCCEDENDO?
L’Europa deve approvare
il prossimo quadro finanziario pluriennale, cioè il budget a lungo termine
dell’Ue a cui sono legate le risorse del Next generation Eu, e quindi anche
l’operatività del Recovery Fund. Alcuni europarlamentari e alcuni Stati (i cosiddetti
frugali del nord Europa, in particolare l’Olanda e il suo premier Rutte)
vorrebbero condizionare l’ottenimento dei fondi di Bruxelles al rispetto del
cosiddetto Stato di diritto. «Non ci sarà nessun Recovery Fund senza il
meccanismo vincolante dello Stato di diritto», ha detto il leader dei Popolari,
Weber (anche se gli stessi Popolari hanno posizioni diverse sia sulla
condizionalità degli aiuti, sia sull’opportunità di comminare sanzioni a
Ungheria e Polonia, i due paesi sinora sottoposti ad accertamento per
violazioni).
Altri paesi del blocco
di Visegard minacciano invece il veto se si dovesse rivedere l’accordo di
luglio. In particolare, i primi ministri Orban e Morawiecki, hanno annunciato
che lanceranno un istituto congiunto per valutare l’applicazione dello Stato di
diritto in tutti gli Stati membri dell’Ue. Ritengono infatti che, nel valutare
il rispetto delle regole democratiche, Bruxelles utilizzerebbe «due pesi e due
misure». «Lo scopo di questo istituto di diritto comparato è quello di non farci
prendere in giro», hanno spiegato. Il Consiglio Europeo cerca di mediare, al
momento senza esito.
La questione non è di
secondo piano e il dibattito sullo Stato di diritto, che si è aperto tra
Parlamento europeo e Consiglio e tra singoli Stati membri, rischia di bloccare
e sicuramente di allontanare gli aiuti europei ai paesi, ed evidenzia tutti i
limiti di questa Europa.
L’UE DÀ LE PAGELLE AGLI STATI
Ma cos’è precisamente
questo Stato di diritto, questo rule of law di cui tanto oggi si parla? Dal
punto di vista storico-giuridico, la nozione, a fondamento delle concezioni
costituzionali europee, indica il primato della legge sulle amministrazioni,
l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la separazione dei poteri. Il
principio è richiamato – ma non declinato – nell’art. 2 del Trattato Ue. In
realtà, detto istituto viene oggi utilizzato per dare patenti di conformità ai
valori democratici, con riguardo a una magistratura indipendente, alla lotta
alla corruzione, al pluralismo dell’informazione, al bilanciamento dei poteri,
e in generale alla tutela dei diritti fondamentali dei cittadini.
«Lo Stato di diritto e i
nostri valori condivisi – ha detto Ursula von der Leyen – sono alla base delle
nostre società. Fanno parte della nostra identità comune di europei». E ha
lanciato un nuovo meccanismo di prevenzione e di promozione della cultura dello
Stato di diritto, che si propone di monitorare annualmente i singoli Stati,
enucleando le criticità presenti all’interno di ciascuno di essi. Il 30
settembre la Commissione ha pubblicato il primo report.
È in questa ottica che è
stata avanzata anche la proposta di collegare lo Stato di diritto all’uso dei
fondi europei, consentendo all’Ue di sospendere, ridurre o limitare l’accesso
ai suoi finanziamenti in caso di violazioni. Ma questa proposta pare
problematica per tanti aspetti e rischia di dividere l’Europa. Al di là della
bontà generale e astratta dei principi richiamati, questo meccanismo può
facilmente trasformarsi in un’arma politica, per contrastare paesi nemici, o
limitare la sovranità dei singoli Stati, in relazione a scelte concrete che
potrebbero essere valutate non coerenti con certi contenuti valoriali.
«Purtroppo – ha detto il popolare Bellamy – i dibattiti sullo Stato di diritto
sono spesso utilizzati come opportunità per perseguire processi di parte,
condannando alcuni duramente senza fatti concreti, pur rimanendo in silenzio
contro altri governi che commettono difetti reali su questioni cruciali».
La maggiore o minore
democraticità di uno Stato è un tema politico. Difficilmente può essere oggetto
di valutazioni oggettive e paritetiche. C’è una gradualità di situazioni
all’interno dei singoli Stati membri, che rende improbo individuare il grado di
rottura dello Stato di diritto. C’è infine la domanda principe. A chi spetta
dare le pagelle sulla salute democratica degli Stati membri?
LO SCAMBIO TRA SOVVENZIONI E “DIRITTI”
Un primo problema è
quello relativo al contenuto valoriale “condiviso” che dovrebbe fungere da
criterio obiettivo e imparziale per l’esame degli Stati membri. Nel report
della Commissione, le critiche più dure sono quelle dedicate a Polonia e
Ungheria, accusate di «crescente influenza del potere esecutivo e legislativo
sul funzionamento della giustizia» e di «politiche repressive dei media». Ma lo
spettro d’indagine è molto vasto e comprende anche la tutela di nuovi diritti
civili. Così l’Ungheria è stata richiamata con riguardo al problema migratorio,
per essersi sottratta alla ripartizione di quote previste dall’Ue. Alla Polonia
è stato censurato l’operato nei confronti delle Ong e dei gruppi Lgbt
(lesbiche, gay, bisessuali, transgender).
Su questi punti la
presidente della Commissione, nel suo discorso sullo stato dell’Ue al Parlamento
europeo, ha annunciato il «superamento del Regolamento di Dublino» al fine di
un riparto degli immigrati, per dare concretezza a un’accoglienza
corresponsabile, ma è da molti anni che se ne parla senza alcun esito (e ciò
evidenzia un’omissione di intervento che è propria delle stesse istituzioni
europee e di pressoché tutti gli Stati membri, anche se solo alcuni subiscono
richiami).
E ha parlato di una «Ue
dell’uguaglianza», precisando che «la discriminazione basata sull’orientamento
sessuale non ha assolutamente alcun posto nell’Ue. Per quanto sarà in mio
potere, agirò contro ciò, inclusa la sospensione della distribuzione dei
fondi». E sull’omogenitorialità: «Lavorerò per il riconoscimento reciproco
delle relazioni familiari nell’Unione europea, perché se tu sei genitore
in un Paese, lo sei in ogni Paese». Ci si chiede perché mai l’agenda Lgbt, che
prevede anche l’ideologia gender e l’utero in affitto, debba considerarsi
elemento caratterizzante lo Stato di diritto.
Nel report, anche
l’Italia viene ammonita. «Le istituzioni nazionali per la difesa dei diritti
dell’uomo giocano un ruolo importante come guardiani dello Stato di diritto».
Si auspica quindi «l’approvazione di un progetto di legge per la creazione di
un’Autorità nazionale indipendente dei diritti dell’uomo (Nhri)». Ci si chiede
quali contenuti dovrebbe mai avere una tale istituzione per conformarsi ai
valori europei.