Contro l’ortodossia illiberale della sinistra: nuovo j’accuse della giornalista che si è dimessa dal New York Times in polemica con il conformismo del giornale
Per gentile concessione di Deseret News pubblichiamo di seguito in una nostra traduzione un commento di Bari Weiss apparso nel numero di marzo 2021 dell’omonimo magazine statunitense. L’autrice si è trovata al centro delle cronache di mezzo mondo l’estate scorsa quando si è dimessa polemicamente dal New York Times, denunciando il settarismo e il «bullismo» ideologico del giornale di riferimento della sinistra americana in una dura lettera all’editore che i lettori di Tempi possono recuperare qui. Il testo originale in inglese dell’articolo scritto da Bari Weiss per Deseret è disponibile in questa pagina.
BARI WEISS
è nata il 25 marzo del 1984 a Pittsburgh, Pennsylvania, di religione ebraica,
ha studiato alla Columbia University . Giornalista, ha lavorato a The Wall Street Journal (2013-2017) e al The New
York Times (2017-2020)
Sono nata nel 1984, il che mi situa nell’ultima
generazione che ha visto la luce in America prima che esistesse l’espressione
“cancel culture”. Il mondo in cui sono nata era liberale. Non nel senso fazioso
del termine [liberal in inglese significa anche progressista, ndt], bensì nel
senso classico e dunque più ampio del termine. C’era allora una diffusa visione
liberale condivisa da liberal e conservatori, repubblicani e democratici.
Tale visione
contava su alcune verità fondanti che
parevano ovvie quanto l’azzurro del cielo: la convizione che tutti sono creati
a immagine di Dio; la convinzione che tutti sono uguali per questo; la
presunzione di innocenza; una repulsione verso la giustizia sommaria; l’impegno
per il pluralismo e la libertà di espressione, e per la libertà di pensiero e
di fede.
Come ho ricordato altrove, questa visione del mondo
riconosceva che ci sono interi ambiti della vita umana collocati al di fuori
della politica, come l’amicizia, l’arte, la musica, la famiglia e l’amore. Era
possibile che i giudici della Corte suprema Antonin Scalia (conservatore) e
Ruth Bader Ginsburg (progressista) coltivassero la migliore delle amicizie
perché, come disse una volta lo stesso Scalia, certe cose sono più importanti
dei voti.
Soprattutto,
questa visione del mondo insisteva sul fatto che ciò che ci lega non è il
sangue o la terra, ma la dedizione a un insieme condiviso di idee. Con tutti i suoi fallimenti, la cosa che rende
grande l’America è che essa rappresenta il distacco dalla nozione, tuttora
prevalente in tanti altri posti, per cui la biologia, il luogo di nascita, la
classe sociale, il rango, il genere, la razza siano un destino. I nostri
secondi padri fondatori, abolizionisti come Frederick Douglas, erano
testimonianze viventi di questa verità.
Quella vecchia visione condivisa – ogni suo singolo aspetto – è stata travolta dalla nuova ortodossia liberale. Poiché questa ideologia si ammanta del linguaggio del progresso, tanti comprensibilmente si lasciano ingannare dal brand che si è auto-attribuito. Non fatelo. Essa promette giustizia rivoluzionaria, ma minaccia di trascinarci in un passato dove siamo tutti schierati uno contro l’altro secondo la tribù di appartenenza.
Il metodo
principale di questo movimento ideologico non è costruire o rinnovare o
riformare, ma abbattere. La
persuasione è rimpiazzata dalla pubblica gogna. Il perdono è rimpiazzato dalla
punizione. La pietà è rimpiazzata dalla vendetta. Il pluralismo dal
conformismo; il dibattito dal de-platforming [divieto di fare intervenire in
pubblico determinate personalità, ndt]; i fatti dai sentimenti; le idee
dall’identità.
Secondo il
nuovo illiberalismo il passato non può essere compreso nei suoi termini propri,
ma deve essere giudicato attraverso la morale e i costumi del presente. L’educazione, secondo questa ideologia, non è
insegnare alle persone come pensare, bensì dire loro cosa pensare. Tutto quanto
sopra è il motivo per cui William Peris, docente alla UCLA [University of
California, Los Angeles, ndt] e veterano dell’aeronautica, è stato sottoposto a procedimento
disciplinare per aver letto in aula ad alta voce la Lettera
dal carcere di Birmingham di Martin Luther King Jr. O per cui un
distretto scolastico della California ha vietato Il buio oltre la siepe di
Harper Lee, Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain
e Uomini e topi di John Steinbeck. O per cui il comitato di
gestione delle scuole di San Francisco ha votato a favore della rinominazione
di 44 istituti, compresi quelli intitolati a George Washington, Paul Revere e
Dianne Feinstein – avete letto bene – a causa di vari peccati.
In questa ideologia, se non twitti il giusto tweet o
non condividi il giusto slogan o non posti il giusto motto e la giusta foto su
Instagram, la tua vita intera può essere rovinata. Se pensate che io stia
esagerando, date un’occhiata alla vicenda di Tiffany Riley, la preside di una scuola pubblica del Vermont
licenziata questo autunno perché ha dichiarato di sostenere le vite dei neri ma
non l’organizzazione Black Lives Matter.
In questa ideologia, le intenzioni non importano un
fico secco. Chiedete a Greg Patton.
In autunno il professore di comunicazione aziendale alla USC [University of
Southern California, ndt] stava facendo lezione in aula sulle “parole
superflue” – come “um” e “like” e così via – per il suo corso di master. In
Cina, ha ossevato, «la classica parola superflua è “che che che”. In cinese
sarebbe…», e ha pronunciato un termine cinese che suonava come un insulto
razzista inglese.
Alcuni studenti si sono offesi e hanno scritto una
lettera al decano della facoltà di economia accusando il loro professore di
«negligenza e disprezzo». E hanno aggiunto: «Non dovremmo trovarci a combattere
in aula per il nostro senso di pace e benessere mentale».
Invece di rispondere loro che le loro affermazioni
erano follia, il decano si è arreso alla pazzia: «Per la facoltà è
semplicemente inaccettabile l’utilizzo in aula di parole che possono
emarginare, causare sofferenza e danneggiare la sicurezza psicologica dei
nostri studenti». Patton è stato sospeso dall’insegnamento nel corso, e la
sempre più elastica nozione di “sicurezza” è stata brandita, ancora una volta,
come un’arma poderosa.
Il vittimismo, in questa ideologia, conferisce forza
morale. «Penso, dunque sono» è sostituito da: «Sono, dunque so», e «so, dunque
ho ragione».
In questa
ideologia, tu sei colpevole dei peccati di tuo padre. In altri termini: tu non
sei tu. Sei solo un mero avatar della tua
razza o della tua religione. E il razzismo non riguarda più la discriminazione
sulla base del colore della pelle di qualcuno. Il razzismo è qualunque sistema
che consenta risultati diversi tra diversi gruppi razziali. Per questo le città
di Seattle e San Francisco hanno rivisitato l’algebra perché
razzista. Per questo, ancora, una Smithsonian Institution
l’estate scorsa ha stabilito che
il duro lavoro, l’individualismo e la famiglia sono caratteri “bianchi”.
In questa ideologia totalizzante, puoi essere colpevole per prossimità. Un imprenditore palestinese di Milwaukee, Majdi Wadi, è stato quasi ridotto sul lastrico quest’estate per i tweet razzisti e antisemiti scritti dalla figlia adolescente. Un calciatore professionista è stato licenziato a causa dei post di sua moglie. Ci sono centinaia di esempi simili. L’illuminismo, per dirla con il critico Ed Rothstein, è stato rimpiazzato dall’esorcismo.
Cosa forse più importante, in questa ideologia, la
parola – il modo in cui si risolvono i conflitti nelle società civilizzate –
può essere violenza, mentre la violenza, se esercitata dalle persone giuste
perseguendo una giusta causa, non è affatto violenza.
È così che, in giugno, più di 800 miei ex colleghi
del New York Times hanno dichiarato che
un commento del senatore Tom Cotton li aveva messi in «pericolo», mentre la più
celebrata giornalista della testata – ultima vincitrice del premio Pulitzer –
ribadiva pubblicamente che saccheggi e rivolte sono «non violenza». Quella
giornalista, creatrice del Progetto 1619 [colossale
iniziativa editoriale del Nyt che mira a riscrivere la storia
americana come storia di un impero fondato sullo schiavismo, ndt], continua a
essere mitizzata. Intanto i redattori che avevano pubblicato il commento sono
stati umiliati pubblicamente e allontanati dal giornale.
Si può dissentire dalla tesi esposta da Tom Cotton –
il senatore invocava l’impiego della Guardia nazionale per mettere fine alle
rivolte dell’estate – e insieme credere, come me, che non ci si può definire il
quotidiano di riferimento e ignorare le opinioni di metà del paese.
Mi sono dimessa poche settimane dopo quell’episodio vergognoso, convinta che non ci fosse possibilità di rischiare intellettualmente in un giornale che si piega come una tenda davanti alla folla. Come ho scritto nella lettera di dimissioni, «sono tutti brutti segnali, specialmente per i giovani autori indipendenti e per i redattori particolarmente attenti a quello che devono fare per avanzare nella carriera. Regola uno: esprimi le tue idee a tuo rischio e pericolo. Regola due: non arrischiarti a commissionare un articolo che contraddica la narrazione. Regola tre: mai credere a un direttore o a un editore che ti invita ad andare controcorrente. Alla fine l’editore si piegherà al volere della folla, il direttore sarà licenziato o assegnato ad altra mansione e tu sarai abbandonato».
Il lettore scettico giustamente obietterà che le
culture hanno sempre avuto dei tabù. Che ci sono sempre stati comportamenti o
parole considerati inaccettabili. L’ostracismo ci accompagna fin dai tempi
della Bibbia e la gogna è da tempo un modo per le tribù e le culture di
conservare le usanze sociali importanti.
Tutto vero. Ma quella che chiamiamo cancel culture rappresenta una deviazione
dai tabù tradizionali, in due modi.
Il primo è
la tecnologia. Peccati che un tempo sarebbero
rimasti confinati nella pubblica piazza o nel municipio locale ora sono a
disposizione di tutto il mondo per l’eternità. In questa nostra era del Big
Tech non esiste possibilità di trasferirsi in un’altra città e ricominciare,
perché la nuvola di tutti i nostri post e simili resta sospesa per sempre sulla
nostra testa.
Il secondo è
che nel passato i tabù delle società erano in genere stabiliti attraverso una
visione culturale diffusa. I tabù di
oggi, invece, sono spesso idee radicali sospinte da una congrega di infervorati
che tentano di ridefinire cosa sia accettabile e cosa dovrebbe essere evitato.
È un gruppo che controlla quasi tutte le istituzioni che producono la vita
culturale e intellettuale americana: di sicuro i media, ma anche l’istruzione
superiore, musei, case editrici, squadre del marketing e della pubblicità,
Hollywood, l’istruzione primaria e secondaria, le aziende tecnologiche e sempre
più le funzioni risorse umane delle grandi imprese.
Non dovrebbe perciò sorprendere che un recente studio del Cato
Institute ha rilevato che il 62 per cento degli americani
dice di autocensurarsi. Più un gruppo è conservatore e più tenderà a nascondere
le proprie idee: ammette di autocensurarsi il 52 per cento dei democratici,
contro il 77 per cento dei repubblicani.
E per forza hanno paura. In un’era in cui la gente
viene denigrata per cose trascurabili, lagnanze insignificanti e divergenze di
opinione in un ambiente che si presume liberale e tollerante, chi oserebbe
rendere noto il proprio voto per un repubblicano?
Ma nessuno entra in un gruppo per sentirsi male. Le
persone entrano nei gruppi che le fanno sentire bene, che danno loro un
significato, che offrono un senso di appartenenza. Motivo per cui così tanta
gente della mia generazione e più giovane ancora è attratta da questa
ideologia. Non credo che sia perché le manchi l’intelligenza o perché siano
tutti fiocchi di neve.
L’ascesa di questo movimento è avvenuta sullo sfondo
di grandi cambiamenti nella vita del paese: la lacerazione del nostro tessuto
sociale, la perdita della religione e il declino delle organizzazioni civili,
l’emergenza oppiacei, il collasso dell’industria, il trionfo di Big Tech, la
scomparsa della fiducia nella meritocrazia, l’arroganza delle nostre élite, il
succedersi di crisi finanziarie, un dibattito pubblico intossicato, il debito
devastante accumulato dagli studenti, la morte della fiducia. È avvenuta in un
contesto in cui il sogno americano sembra esaurirsi e le diseguaglianze della
nostra presuna meritocrazia equa e liberale sono evidentemente distorte a
vantaggio di alcuni e a danno di altri.
«Mi sono convertito perché ne avevo bisogno e vivevo
in una società in disintegrazione assetata di fede». Così scrisse Arthur
Koestler nel 1949 a proposito della sua infatuazione per il comunismo. Lo
stesso si può dire di questa nuova fede rivoluzionaria.
Se vogliamo che le nostre giovani menti brillanti
respingano questa visione del mondo, dobbiamo affrontare questi problemi perché
senza questi malanni non avremmo avuto né Donald Trump né la rivoluzione
culturale che sta trasformando dall’interno le più importanti istituzioni
d’America.
Da qualche
parte però dobbiamo cominciare e l’unico posto da cui possiamo partire è un
appello al coraggio e al dovere.
È nostro dovere resistere alla folla in questa epoca
di pensiero di massa. È nostro dovere dire la verità in un’epoca di menzogne. È
nostro dovere pensare liberamente in un’epoca di conformismo.
Come ha detto perfettamente una volta il grande
giudice americano Learned Hand, «la libertà si trova nel cuore degli uomini e
delle donne; quando muore là dentro, nessuna costitizione, nessuna legge,
nessun tribunale può fare granché per soccorrerla».
Tenere vivo lo spirito della libertà in un’epoca di
illiberalismo strisciante è niente meno che il nostro obbligo morale. Dipende
tutto da questo.
Tratto da TEMPI
L’intero articolo di TEMPI
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