sabato 20 marzo 2021

IL TESTAMENTO DI GIUSEPPE GRANDI

  UNA LEGGENDA DEGLI ALPINI

Un libro ricostruisce la «sovraumana maestà» del soldato celebrato da Corti nel Cavallo rosso.

Ritratto di un eroe della campagna di Russia

 

IL CAVALLO ROSSO fiorisce di pagine che rimangono ben impresse nei lettori. Una in particolare è memorabile, lungo il racconto del gelido inferno della ritirata di Russia. Mi riferisco alla morte di Giuseppe Grandi, capitano della 46ª compagnia del battaglione Tirano, l’alpino che nel romanzo di Eugenio Corti muore cantando e invitando i suoi uomini a cantare con lui. Trattasi di un momento apicale all’interno del romanzo, forse uno dei punti in cui il senso che Corti vuole trasmetterci brilla con più evidenza e forza: tanto più le tenebre del male paiono sovrastare la storia, quanto più la libertà, il coraggio e la fede degli uomini sono chiamati in causa per salvaguardare il pezzetto di mondo ad essi affidato. Dietro questa immortale pagina di letteratura c’è un soldato che, come molti di cui Corti racconta, ha calcato quelle assiderate steppe. 

Marco Dalla Torre ha di recente dato alle stampe la prima biografia di costui, dal titolo Il testamento del capitano Grandi, per i tipi di Edizioni Ares.. 

Dalla Torre maneggia con scrupolo da storico (e da alpino) tutte le fonti in nostro possesso sulla figura del capitano Grandi, intessendo un ordito narrativo e scorrevole, che con discrezione sa ritrarsi per lasciare emergere le voci del passato: su tutte, le testimonianze dei compagni di Grandi e le lettere del capitano alla sua famiglia. Viene alla luce il ritratto affascinante e provocatorio di una vera e propria leggenda degli alpini. È militare per necessità, ma sportivo per vocazione, fin da giovanissimo, tanto da festeggiare il diploma scendendo arditamente l’Arno in canoa. Si appassiona di arte rinascimentale e di lettere, e soprattutto di montagna: la nostalgia delle Alpi emerge prepotente nelle missive inviate alla volta di casa, mentre il treno lo conduce incontro al suo destino, nelle piatte lande dell’Europa dell’est. Ha un amore che non rivedrà più; la quale, per onorarne la memoria, non si sposerà mai.

La testimonianza che di lui offrono i suoi compagni è unanime nel ricordarlo come un valentissimo capitano. Sempre portato a diffondere buon umore, desideroso di conquistarsi i sottoposti con l’esempio e la compartecipazione e non con il vanto delle mostrine; un soldato estremamente valoroso, capace di affrontare scalate proibitive e campi minati, e di ricevere la ferita mortale in pieno petto, correndo incontro al nemico con una bomba a mano, durante la carneficina della battaglia di Arnautowo. Questo soldato è anche, e forse soprattutto, un uomo di fede, forse semplice, certo grande. Laggiù in riva al Don si adopera per cercare di costruire una piccola cappella; riceve coi suoi compagni la santa Comunione; muore essendosi confessato.


La pace costruita col sangue 

Non credo che il libro di Dalla Torre sia per i soli fan di Corti. È al contrario, grazie anche ad alcuni utili intermezzi di contestualizzazione storica, un volume pensato per una lettura agevole da parte di chiunque voglia conoscere meglio sia il mondo degli alpini sia la grandiosa – a suo modo – vicenda della ritirata di Russia. È vero, come dice Rigoni Stern, citato da Dalla Torre nell’introduzione, che «la storia piccola, qualche volta, sa spiegare meglio della storia grande». 

Aggiungo che la caratura morale e la simpatia del capitano Grandi sono affascinanti e fanno riflettere: è su questo sangue che si è edificata la pace di cui godiamo. Disse don Carlo Gnocchi: «Non è sovrumana maestà quella del capitano Grandi che, ferito a morte, vedendo intorno alla slitta il cerchio silenzioso dei suoi alpini: “Che cosa sono, gridò, questi musi duri? Su ragazzi, cantate con me: Il capitano si l’è ferito, si l’è ferito e sta per morir”. E allora, sulle desolate distese della steppa invernale, si levò un lesto e mesto corale di alpini…»

La definizione più bella e sintetica è forse quella di Eugenio Corti, quando fa dire al suo personaggio Luca questa definizione di Grandi:”un vero padre del senso alpino”.

Giuseppe morì che non aveva ancora 29 anni. Non si era ancora sposato e non aveva sperimentato la    gioia della paternità fisica. Forse un poco più grande dei suoi soldati, ma di una manciata d’anni, e loro ne parlano più che come di un amico e di un fratello che di un padre. Ma esiste la possibilità di vivere nelle relazioni umane un senso di paternità non fisico. E in effetti diversi indizi sembrano rivelarlo in Grandi. È questo che il genio di Corti ha saputo intuire.

Foto Ansa

 

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