UNA
LEGGENDA DEGLI ALPINI
Un libro ricostruisce la «sovraumana maestà» del
soldato celebrato da Corti nel Cavallo rosso.
Ritratto
di un eroe della campagna di Russia
IL
CAVALLO ROSSO fiorisce di pagine che
rimangono ben impresse nei lettori. Una in particolare è memorabile, lungo il
racconto del gelido inferno della ritirata di Russia. Mi riferisco alla morte
di Giuseppe Grandi, capitano della 46ª compagnia del battaglione Tirano,
l’alpino che nel romanzo di Eugenio Corti muore
cantando e invitando i suoi uomini a cantare con lui. Trattasi di un momento
apicale all’interno del romanzo, forse uno dei punti in cui il senso che Corti
vuole trasmetterci brilla con più evidenza e forza: tanto più le tenebre del
male paiono sovrastare la storia, quanto più la libertà, il coraggio e la fede
degli uomini sono chiamati in causa per salvaguardare il pezzetto di mondo ad
essi affidato. Dietro questa immortale pagina di letteratura c’è un soldato
che, come molti di cui Corti racconta, ha calcato quelle assiderate
steppe.
Marco Dalla Torre ha di recente dato alle stampe la
prima biografia di costui, dal titolo Il testamento del capitano Grandi , per i tipi di Edizioni Ares..
Dalla
Torre maneggia con scrupolo da storico (e da alpino) tutte le fonti in nostro
possesso sulla figura del capitano Grandi, intessendo un ordito narrativo e
scorrevole, che con discrezione sa ritrarsi per lasciare emergere le voci del
passato: su tutte, le testimonianze dei
compagni di Grandi e le lettere del capitano alla sua famiglia. Viene alla luce il ritratto affascinante e
provocatorio di una vera e propria leggenda degli alpini. È militare per
necessità, ma sportivo per vocazione, fin da giovanissimo, tanto da festeggiare
il diploma scendendo arditamente l’Arno in canoa. Si appassiona di arte
rinascimentale e di lettere, e soprattutto di montagna: la nostalgia delle Alpi
emerge prepotente nelle missive inviate alla volta di casa, mentre il treno lo
conduce incontro al suo destino, nelle piatte lande dell’Europa dell’est. Ha un
amore che non rivedrà più; la quale, per onorarne la memoria, non si sposerà
mai.
La testimonianza che di lui offrono
i suoi compagni è unanime nel ricordarlo come un valentissimo capitano. Sempre
portato a diffondere buon umore, desideroso di conquistarsi i sottoposti con
l’esempio e la compartecipazione e non con il vanto delle mostrine; un soldato
estremamente valoroso, capace di affrontare scalate proibitive e campi minati,
e di ricevere la ferita mortale in pieno petto, correndo incontro al nemico con
una bomba a mano, durante la carneficina della battaglia di Arnautowo. Questo
soldato è anche, e forse soprattutto, un uomo di fede, forse semplice, certo
grande. Laggiù in riva al Don si adopera per cercare di costruire una piccola
cappella; riceve coi suoi compagni la santa Comunione; muore essendosi
confessato.
La pace costruita col sangue
Non credo che il libro di Dalla
Torre sia per i soli fan di Corti. È al contrario, grazie anche ad alcuni utili
intermezzi di contestualizzazione storica, un volume pensato per una lettura
agevole da parte di chiunque voglia conoscere meglio sia il mondo degli alpini
sia la grandiosa – a suo modo – vicenda della ritirata di Russia. È vero, come
dice Rigoni Stern, citato da Dalla Torre nell’introduzione, che «la storia
piccola, qualche volta, sa spiegare meglio della storia grande».
Aggiungo che la caratura morale e
la simpatia del capitano Grandi sono affascinanti e fanno riflettere: è su
questo sangue che si è edificata la pace di cui godiamo. Disse don Carlo Gnocchi : «Non è sovrumana maestà quella del
capitano Grandi che, ferito a morte, vedendo intorno alla slitta il cerchio
silenzioso dei suoi alpini: “Che cosa sono, gridò, questi musi duri? Su
ragazzi, cantate con me: Il capitano si l’è ferito, si l’è ferito e sta per
morir”. E allora, sulle desolate distese della steppa invernale, si levò un
lesto e mesto corale di alpini…»
La
definizione più bella e sintetica è forse quella di Eugenio Corti, quando fa
dire al suo personaggio Luca questa definizione di Grandi:”un vero padre del
senso alpino”.
Giuseppe
morì che non aveva ancora 29 anni. Non si era ancora sposato e non aveva
sperimentato la gioia della paternità fisica. Forse un poco più grande dei suoi
soldati, ma di una manciata d’anni, e loro ne parlano più che come di un amico
e di un fratello che di un padre. Ma esiste la possibilità di vivere nelle
relazioni umane un senso di paternità non fisico. E in effetti diversi indizi
sembrano rivelarlo in Grandi. È questo che il genio di Corti ha saputo intuire.
Foto Ansa
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