venerdì 24 maggio 2024

ELEZIONI EUROPEE COSA C’E’ IN GIOCO

INCONTRO CON LORENZO MALAGOLA PIERGIACOMO SIBIANO, 

STEFANO CAVEDAGNA, RODOLFO CASADEI

 INTRODUCE ARTURO ALBERTI

 CESENA 23 maggio 2024


INTERVENTO INTRODUTTIVO DI RODOLFO CASADEI

L’Italia non ha problemi con l’Europa, l’Italia ha dei problemi con l’Unione Europea, di cui siamo uno dei 6 stati fondatori. Eravamo tutti europeisti sfegatati quando l’ideale dell’Europa unita coincideva con quello di Adenauer, De Gasperi, Schumann, i tre capi di governo cattolici e cristiano-democratici che sono alle origini della Comunità europea del carbone e dell’acciaio che è stata l’embrione di tutte le successive integrazioni, dal Trattato di Roma (1957) al Trattato di Lisbona (2007). Ma oggi tanti stati europei e tanti cittadini di stati europei hanno dei problemi con l’Unione Europea.

1.C’è un problema che riguarda gli scambi economici: la Ue moltiplica direttive e regolamenti che creano difficoltà a chi produce e che danneggiano la competitività delle imprese europee, mentre allo stesso tempo non è capace di fare la guardia alle frontiere, e lascia entrare merci che non rispondono ai severi standard qualitativi, ambientali, sociali fissati per le imprese europee. Così le nostre imprese muoiono oppure emigrano; nella Ue entrano prodotti di aziende extracomunitarie oppure di aziende comunitarie che hanno delocalizzato la produzione fuori dalla UE per non dover sottostare agli irrealistici standard europei.

            2.Poi c’è un problema ancora più grande, ideologico, di scelta di civiltà: la UE si è trasformata in una forza al servizio dell’omologazione, dell’omogeneizzazione, dell’uniformità. Che certamente è un processo mondiale, legato principalmente a due fattori. Da un lato l’evoluzione del capitalismo nell’era dell’economia globalizzata, che ha dato vita all’oligarchia capitalista dei Gafam, le multinazionali delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft. Queste grandi imprese puntano tutto sull’omogeneizzazione dei consumi, potremmo dire sull’i-phonizzazione dell’economia, cioè creare prodotti universali come gli i-phone, identici per tutti, che in quanto tali permettono alle multinazionali di sfruttare fino in fondo le loro economie di scala. A danno delle aziende piccole e medie. L’altro fattore è l’egemonia dello scientismo, dell’ideologia scientista che riduce tutto a dati, a flussi di dati. Non esistono più differenze qualitative, ogni realtà, anche quella realtà misteriosa che è l’essere umano, è ridotta a un insieme di dati componibili e scomponibili.

Dunque la Ue ha tradito il suo motto di inizio secolo, “uniti nella diversità”, un motto che interpretava fedelmente la natura più intima e più vera dell’Europa, e lo ha sostituito con la pretesa di imporre a tutti gli stessi standard, a tutti le stesse procedure. Prendendo a prestito dal mondo della biologia l’espressione, possiamo dire che la Ue sta distruggendo la biodiversità culturale, istituzionale, umana delle nazioni europee, sta introducendo una monocoltura politica che, come le monocolture agricole, minaccia la biodiversità. Cioè minaccia la vita, perché la vita fiorisce, si sviluppa e prospera solo se è consentita la diversità. Senza diversità basta un’epidemia, basta un virus per distruggere tutto. 

            3.Poi c’è un terzo punto problematico negli orientamenti attuali della UE – almeno lo è per me: ed è l’assenza di limiti nel processi di allargamento dell’Unione Europea. Se io ora vi chiedessi: quali devono essere i confini definitivi dell’Unione Europea? Dove dovrebbe arrestarsi l’integrazione di nuovi paesi, dopodiché quello è il confine definitivo della Ue? Nessuno qui dentro mi saprebbe rispondere. Ma nemmeno a Bruxelles qualcuno mi risponderebbe. Perché il punto è proprio questo: per quelli di Bruxelles può essere integrato nell’Unione Europea non chi appartiene alla civiltà europea, ma chi adegua il proprio sistema giuridico e le proprie leggi alle procedure stabilite dall’Unione Europea. Perciò qualunque paese del mondo potrebbe far parte dell’Unione Europea: basta che adotti tutte le procedure comunitarie, l”acquis communautaire”, come si dice. L’identità europea non è più storica, è procedurale. Ma dalla storia non può uscire nessuno! E poiché dalla storia non si esce, questo piccolo dettaglio fa sì che le utopie si trasformino in distopie, questa astoricità e proceduralità dell’Europa unita che non pone limiti al suo allargamento fatalmente è il volto di un nuovo imperialismo. Ci strappiamo le vesti per l’imperialismo della Russia, o per quello degli Stati Uniti, o per le velleità egemoniche della Cina, a seconda delle nostre simpatie e antipatie politiche, ma nel momento in cui non fissiamo confini all’allargamento della UE, noi europei riproponiamo il volto più inquietante della nostra storia, quello dell’imperialismo e del colonialismo. E riproponiamo l’errore di fondo dei progetti moderni e post-moderni: l’assenza di limiti. È questa idea dell’assenza di limiti, dell’abolizione dei limiti che sta distruggendo gli ecosistemi naturali e umani, culturali e storici.   

            Faccio qualche esempio dei problemi che ho evidenziato. La questione economica e finanziaria.


            Se noi guardiamo la crescita reale del Pil pro capite, prima dell’introduzione dell’euro l’Italia cresceva molto di più che poi sotto l’euro. Fra il 1961 e il 1980 il Pil pro capite italiano è cresciuto alla media annuale del 4,1 per cento. Fra il 1980 e il 1998, cioè l’ultimo anno prima dell’adozione dell’euro, la crescita media annua è stata dell’1,9 per cento. Invece fra il 1999, anno di adozione dell’euro, e il 2016 la crescita media annua del Pil è stata dello 0 per cento, mentre gli altri paesi dell’Europa occidentale crescevano chi dell’1 chi del 2 per cento. Fra il 2017 e il 2023 il Pil pro capite è tornato a crescere, a una media del 2,9 per cento, ma al prezzo di un indebitamento crescente: il rapporto fra il debito pubblico e il Pil è passato dal 134,8 per cento del 2016 al 142,9 per cento dell’anno scorso. E’ il terzo più alto del mondo fra i paesi industrializzati dopo quelli di Giappone e Grecia.

            Nel 1999 il reddito pro capite italiano era superiore del 19 per cento al reddito medio dell’Unione Europea, che contava 15 stati; oggi è inferiore al reddito medio della Ue del 3 per cento, benché nel frattempo la Ue sia stata allargata a 13 paesi dell’est Europa a basso reddito. Due settimane fa i grandi giornali hanno dato notizia di uno studio Ocse che dice che l’Italia è l’unico paese della UE dove il salario reale fra il 1990 ed oggi è calato anziché crescere. Già, ma cosa è successo dopo il 1990? C’è stato il Trattato di Maastricht nel 1992 e poi l’ingresso nell’euro il 1° gennaio 1999. Le politiche di austerità imposte dall’Europa, la stretta sul costo del lavoro per restare competitivi con un euro sopravvalutato, le liberalizzazioni a spezzatino hanno impedito di fare quegli investimenti tecnologici e infrastrutturali che ci avrebbero permesso di aumentare la produttività. Perché anche la produttività, guarda un po’, non è più cresciuta dopo Maastricht e dopo l’euro. Scappa da ridere a pensare che il PD ritiene che questi problemi si risolvono instaurando il salario minimo…

Io non voglio dire che il  declino economico dell’Italia sia tutto ascrivibile all’euro e a Maastricht: il debito italiano era già diventato troppo alto prima di Maastricht e dell’euro, la base industriale stava già perdendo competitività. Ma Maastricht e l’euro hanno cronicizzato la nostra tendenza al declino anziché invertirla. Vi invito a leggere un articolo di un economista austriaco che si chiama Philipp Heimberger che si può scaricare gratis da internet che si intitola: Italy’s decline: A critical reassessment of prevailing explanations. Spiega l’interazione fra cause interne e cause “europee” del declino economico italiano.

            Perché insomma, essere entrati in un’unione monetaria senza che ci fosse e senza che ci sia tuttora un’unione fiscale, è qualcosa che non si era mai visto nella storia delle unioni monetarie. Una cosa del genere fatalmente favoriva i più forti, e infatti si è visto. Mentre l’Italia perdeva posizioni, la Germania registrava un record storico: a partire dal 2002, per quasi vent’anni ha registrato avanzi della bilancia commerciale superiori al 3 per cento, e fra il 2012 e il 2019 addirittura superiori al 6 per cento, in violazione degli obiettivi dell’Unione Europea. Lo spirito dell’Unione Europea avrebbe voluto politiche fiscali e finanziarie simili fra i paesi dell’euro, dal momento che lo statuto della Bce, la Banca centrale europea, indicava come obiettivo un tasso di inflazione attorno al 2 per cento. Invece la Germania ha perseguito la politica dell’inflazione zero per cento, e questo ha squilibrato l’euro. L’Italia si è trovata a competere sui mercati mondiali con una valuta sopravvalutata del 20 per cento rispetto ai suoi fondamentali, la Germania con una moneta sottovalutata del 20 per cento rispetto ai suoi fondamentali.

            Non sto auspicando un’uscita dell’Italia dall’euro: non sono pazzo. Quando il dentifricio è uscito dal tubetto, non si può più far rientrare. Voglio solo dire che lo spirito europeista latita, ogni paese della UE fa i suoi interessi, e i grandi paesi come Germania e Francia fanno i loro grandi interessi. Vedete quanto strepita la Francia oggi per la difesa europea comune. Vedete quanto spesso il presidente Macron utilizza l’espressione “Unione Europea soggetto strategico autonomo”. Ma che senso ha una difesa europea comune quando la strategia politico-militare dell’Europa coincide con quella della Nato, è subalterna a quella della Nato? Che senso ha una difesa comune se hai rinunciato sin dall’inizio all’autonomia strategica? È uno specchietto per le allodole che serve soltanto a gettare le basi di un’egemonia francese nel settore dell’industria militare. Non lo penso solo io, non lo scrivono fogli estremisti di estrema destra o di estrema sinistra, lo scrive un giornale dell’establishment come il Financial Times all’indomani del discorso di Emmanuel Macron alla Sorbona il 25 aprile scorso: «Nel complesso, Macron non ha dissipato la percezione che le sue iniziative siano progettate principalmente per rafforzare gli interessi militar-industriali della Francia e per sostenere l’influenza in declino di una potenza di medie dimensioni in decadenza». Perciò occhio, che la difesa comune non diventi la fregatura italiana...

            Macron fece suonare l’Inno alla Gioa di Beethoven e issare la bandiera dell’Unione Europea dopo la sua prima vittoria alle presidenziali del 2016, ma in Libia appoggia Haftar e il governo della Cirenaica contro il governo di Tripoli, che è quello riconosciuto a livello internazionale e per il quale si impegna l’Unione Europea. Perché? Per contrastare l’Italia e la Turchia, che considera come i rivali della Francia nel Mediterraneo e nel Nord Africa. Oggi tutti piangono calde lacrime sulla russificazione dei paesi del Sahel; l’ultimo in ordine di tempo è il Niger, dove prima sono stati allontanati i militari francesi, adesso gli americani, mentre arrivano soldati russi. Ma nel 2018 l’’Italia fece una fatica dannata a far partire la sua missione in Niger per la sicurezza delle frontiere e l’addestramento dell’esercito nigerino, perché la Francia faceva ostruzione: non voleva interferenze nella sua sfera di influenza africana. Sfera di influenza che in pochi anni si è disintegrata, e oggi l’instabilità di quell’area è una minaccia per tutti i paesi europei, a cominciare dall’Italia. 

            Sto parlando della Francia ma lo stesso discorso si può fare per la Germania e per i cosiddetti “paesi frugali”. Quando la Germania e i paesi frugali si oppongono alla mutualizzazione del debito europeo, non lo fanno in nome dell’Europa, lo fanno in nome dell’interesse nazionale. Poiché hanno meno debito dei paesi mediterranei (Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Grecia), non hanno nessuna intenzione di attuare una politica di di integrazione che andrebbe più a vantaggio nostro che a vantaggio loro. Si è molto parlato della generosità della Ue a trazione tedesca nei confronti dei paesi dell’Est, soprattutto della Polonia e dell’Ungheria, per i fondi europei versati a questi paesi. Sì, però se andiamo a vedere le esportazioni tedesche verso Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, un mercato di 58 milioni di persone, superano quelle tedesche verso gli Stati Uniti, un mercato da 300 milioni di persone! Qualche tempo fa è uscito un articolo sul Guardian – altro giornale insospettabile – che spiegava che fra il 2010 e il 2016 la Polonia ha ricevuto fondi europei pari al 2,7 per cento del suo Pil, e contemporaneamente gli investitori occidentali (principalmente tedeschi) hanno realizzato profitti pari al 4,7 per cento del Pil polacco. Stesso andamento nella Repubblica Ceca: fondi europei pari al 2 per cento del Pil, profitti degli investitori europei pari al 7,5 per cento del Pil ceco; in Ungheria 4 per cento il valore dei fondi, 7,2 per cento il valore dei profitti rispetto al Pil ungherese. L’Unione Europea ha finanziato il sistema autostradale polacco, ma guarda caso il sistema si sviluppa da est verso ovest, non si sviluppa da sud verso nord! Favorisce il trasporto delle merci verso i porti tedeschi del Mare del Nord, non favorisce il trasporto delle merci verso i porti polacchi sul Mar Baltico, non incrementa la competitività dei porti polacchi.

            Quando qualcuno si lamenta perché in Ungheria governa Viktor Orban da quattordici anni o perché in Polonia ha governato per otto anni di seguito il partito Giustizia e Diritto dei fratelli Kaczinsky, forse dovrebbe riflettere un po’ su queste cose.

            Per quanto riguarda la questione dell’omologazione perversa, faccio un solo esempio per spiegarmi. Da tempo l’Unione Europea vuole istituire un sistema obbligatorio e armonizzato di etichettature fronte-pacco dei prodotti alimentari per spingere i consumatori verso un’alimentazione più sana. Vorrebbero far passare il Nutriscore o un sistema simile, che è basato sui colori del semaforo: verde per l’alimento sano, giallo per quello problematico, rosso per quello da limitare severamente. E poiché il giudizio è basato sul consumo di 100 grammi di prodotto, eccellenze alimentari come l’olio d’oliva, il prosciutto San Daniele e il Parmigiano Reggiano si ritroverebbero col semaforo rosso. Ma chi è che normalmente pensa di pranzare o di cenare assumendo 100 grammi di olio o 100 grammi di Parmigiano? Quanta ignoranza delle tradizioni alimentari, degli usi e costumi dei diversi paesi, c’è nella testa di  chi cataloga gli alimenti sulla base dei 100 grammi a porzione? E poi, spiegatemi: siamo tutti uguali? Viviamo tutti alla stessa maniera? Il muratore ha lo stesso fabbisogno di nutrienti dell’impiegato? Lo sportivo deve nutrirsi come il sedentario? Che diritto avete di manipolare i consumatori, di disinformare i consumatori con le vostre etichette che generalizzano dosi e consumi? E soprattutto: ci alimenteremo con cibi anonimi, prodotti in laboratorio in base a precisi standard nutrizionali, e butteremo a mare le tradizioni gastronomiche che sono parte integrante dell’identità e della cultura di un popolo? Il risultato non sarebbe cittadini più sani – finora nessuno studio nei paesi dove è stato adottato il Nutriscore ha dimostrato una diminuzione dell’obesità-; il risultato sarebbe la distruzione della qualità, la distruzione delle produzioni alimentari doc e dop, la distruzione di un patrimonio identitario e l’egemonia delle multinazionali che offrirebbero pochi prodotti, uguali per tutti, in una sorta di “dieta universale. Come scrive l’analista Pietro Paganini, «L’introduzione della Dieta universale e degli schemi fronte-pacco come il Nutriscore hanno come conseguenza l’omologazione del mercato alimentare, il probabile consolidamento di un oligopolio di marchi a scapito della più virtuosa concorrenza e più ampia offerta di varietà di alimenti, e la scomparsa progressiva delle tradizioni locali. L’universalizzazione alimentare è una possibile minaccia per la diversità».

            Concludo tornando alla questione dei criteri per l’ammissione nell’Unione Europea. Nella visione che si è imposta, oggi può essere ammesso a far parte dell’Unione Europea non chi è europeo per cultura, ma chi accetta i criteri per l’integrazione nella Ue. E quali sono i criteri, scartato quello delle radici culturali? E’ il criterio dei diritti. Oggi può aspirare a far parte della UE qualsiasi paese che si impegni ad introdurre leggi che promuovono i diritti individuali. Diritti relativi all’identità sessuale, diritti sociali, diritti di gruppo nell’ottica della identity politics. Il consenso popolare nei riguardi della UE– così si ragiona - crescerà quanto più la UE promuoverà i diritti dell’individuo. Ma questo non funzionerà. Perché il primato dei diritti individuali e dei diritti della identity politics non crea solidarietà, ma divisione. Non produce la coesione della società, ma al contrario, la frammenta. Non concilia i conflitti, li alimenta. E consegna il potere nelle mani delle Corti, dei giudici, della giurisprudenza, chiamate a decidere le controversie sui diritti. No.

 Non bisogna partire dagli individui, ma dalle comunità. Bisogna partire dalle appartenenze comunitarie, territoriali, nazionali, in un’ottica sussidiaria. La sussidiarietà valorizza le solidarietà che già esistono, e che cedono il passo alla solidarietà sovranazionale, europea, quando il livello europeo è la dimensione giusta dell’azione politica per affrontare certi problemi. Come ha scritto il filosofo della politica Pierre Manent, cattolico: «L’Europa di cui si parla a Bruxelles è in gran parte una finzione ideologica. La realtà dell’Europa, la sua realtà storica e politica riposa sulla pluralità significante delle sue nazioni. Esse si guardano, rivaleggiano, si imitano, si distinguono. L’identità europea non è separabile da questa dinamica delle nazioni che formano l’Europa». Abbiamo bisogno di rappresentanti al Parlamento europeo che ragionino in questi termini. 

Grazie.

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