Una meditazione di mons. Paolo Pezzi, arcivescovo della Madre di Dio a Mosca.
Dall’inizio delle operazioni militari in Ucraina, mi ha
molto impressionato come possa crescere a dismisura la cattiveria, quella che i
russi chiamano zloba. Questa parola indica non tanto il male in sé, quanto il gusto che si
può provare a fare del male. In certi casi, credo di essere stato anch’io
oggetto di questa cattiveria.Mons Paolo Pezzi
Ciò mi ha fatto domandare: che cosa ho io di nuovo da
dare in questa situazione? Quale può essere il mio contributo originale?
Certamente, alla cattiveria si può reagire bene o male: si può rendere male per
male, si possono ignorare le provocazioni, oppure si può addirittura pregare
per i proprio nemici. Io in questi mesi ho scoperto il perdono, specialmente il
perdono senza condizioni.
Ricordo moltissime discussioni avute con preti e fedeli
della mia diocesi: tutti erano d’accordo sul fatto che il perdono fosse importante,
però continuavano a ribadire che per perdonare serve che l’altro, pentito, mi
chieda scusa. Invece no, il perdono non ha precondizioni, nemmeno che l’altro
mi chieda perdono. Gesù, sulla croce, non ha perdonato perché i suoi
persecutori hanno riconosciuto di aver sbagliato. Mentre lo stavano deridendo e
umiliando, lui li ha perdonati: “Padre, perdona loro perché non sanno quello
che fanno”.
Un perdono così lo possiamo vivere solo noi cristiani, è un contributo che
possiamo portare solo noi. Non dico che sia facile o che a me riesca sempre,
però è vero che una persona non credente non lo può fare, un cristiano senza
fede non lo può fare. Lo
può fare solo un cristiano che abbia fatto l’esperienza del perdono e, avendola
fatta, la può riproporre. È questo il mio contributo originale nella drammatica
situazione del conflitto.
Da quando ho dato questo giudizio, ho cominciato a
parlare solo di questo, a tutti. Non penso di essere ascoltato da molti, ma
questo non mi sconforta. In fondo, di quelle decine di persone che erano sotto
la croce, chi ha risposto? Soltanto il buon ladrone, che forse non ha nemmeno
capito cosa stava accadendo. Perché allora io dovrei avere una successo
maggiore? L’importante è che io sia realmente convinto di ciò che annuncio e
testimonio, cioè che io faccia esperienza di quello di cui parlo.
Farne esperienza
significa per me sperimentare il godimento che deriva dal perdono vissuto, dato
e ricevuto. Senza quest’esperienza positiva il perdono resta fuori
di me, come un puro precetto morale. Nel perdonare io devo percepire che sto
traendo una grande utilità per la mia vita, che vivo meglio e che quindi
perdonare mi conviene. Così non è più uno sforzo faticoso, perché mi conviene e
sarei sciocco se non lo facessi.
Mi è tornata alla memoria la storia di una donna cui le
brigate rosse avevano ammazzato il marito lasciandola sola con tre figli.
L’avevo incontrata a Roma quando ero seminarista e lei mi raccontò che, dopo
l’attentato, don Giussani venne immediatamente a Roma e le disse soltanto:
“Cerchi di perdonare, vivrà meglio lei e sarà meglio per i suoi figli”. Mi ha
confidato che quando don Giussani le disse questo, lei non sapeva se ridere o
inveire contro di lui, ma si limitò ad accettare queste parole, semplicemente
perché era lui ad averle dette. Poi, però, ha aggiunto: “È proprio vero”. Era
vero che lei aveva vissuto meglio. Non sosteneva di avere chissà quale capacità
di perdonare, lo ha fatto e basta. Per questo ha vissuto meglio e i suoi figli
sono cresciuti senza rabbia nell’affrontare la vita.
Questa vita nuova
che sorge dall’esperienza del perdono senza condizioni è il contributo
originale che noi cristiani possiamo portare ad un mondo in lotta ed anche, in
effetti, l’unico vero modo di costruire la pace, tanto tra le nazioni quanto
nelle nostre case.
Maggio 2023
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