mercoledì 15 maggio 2024

PIZZABALLA: CARATTERI E CRITERI PER UNA PASTORALE DELLA PACE

 Pace in Terra Santa. Il patriarca di Gerusalemme ne indica la strada

A giudizio del cardinale Pierbattista Pizzaballa, in Terra Santa sta accadendo una tragedia che “è senza precedenti”. Senza precedenti e senza soluzioni già scritte, di una gravità unica al mondo. Perché è così immenso il carico di dolore, di conflitti, di incomprensioni accumulato nel tempo che una pace vera potrà lì germinare “solo dopo un lungo percorso di purificazione della memoria”, politica e religiosa.

Pierbattista PIZZABALLA

Pizzaballa, 59 anni, bergamasco, frate francescano, studioso della Bibbia e dell’ebraismo, per dodici anni custode della Terra Santa, è dal 2016 patriarca di Gerusalemme dei Latini. Il 10 ottobre 2023, tre giorni dopo la strage compiuta da Hamas con più di 1200 vittime inermi e col sequestro di oltre 240 persone di tutte le età, egli offrì se stesso in cambio della libertà dei bambini presi in ostaggio. Il suo nome è da annotare per un futuro conclave.

Il suo giudizio sulla guerra in corso a Gaza e sull’azione che la Chiesa vi può svolgere l’ha espresso nella “lectio magistralis” che ha tenuto a Roma il 2 maggio nell’aula magna della Pontificia Università Lateranense, col titolo

“Caratteri e criteri per una pastorale della pace”.

 È una “lectio”, la sua, di cui è doveroso tenere conto, tanto è originale e impegnativa, applicata a una situazione per molti aspetti indecifrabile. Non c’è analisi o soluzione, infatti, tra quelle in corso per ebrei e palestinesi, che non si riveli irrealizzabile o contraddittoria. Anche l’opzione per i due Stati, pur continuamente evocata, allo stato attuale dei fatti è una pura astrazione.

Alla parola “pace”, dice Pizzaballa, occorre anzitutto ridare il suo significato pieno. È “una realtà che viene da Dio e dalla relazione con lui”, è il “compimento delle promesse messianiche”, è la pace “annunciata da Gesù risorto”. Quindi “ogni azione pastorale della Chiesa, come ogni sua opera sociale, non può esser mai in nessun modo disgiunta dall’evangelizzazione”. E chi evangelizza sa che deve “annunciare la pace anche ai nemici, proprio come fece Pietro a Cornelio, che era – e non bisogna mai dimenticarlo di questi tempi – centurione delle forze militari che occupavano la sua terra”. Al fratello-nemico bisogna andare incontro anche con la consapevolezza del proprio limite, della propria debolezza, come Giacobbe che quando abbracciò Esaù era zoppicante e stremato per la sua lotta con l’angelo, eppure arrivò ad esclamare: “Ho visto il tuo volto come si vede il volto di Dio” (Genesi 33,10) 

Ma oltre che realtà divina, la pace è una realtà umana e sociale. Che è molto di più che tregua, armistizio, assenza di guerra, perché “si fonda sulla verità della persona umana”. Solo “nel contesto di uno sviluppo integrale dell’uomo, nel rispetto dei suoi diritti, può nascere una vera cultura della pace”, con i suoi testimoni di cui “il mondo ha quanto mai bisogno, anche a costo di essere perseguitati e tacciati come utopici e visionari. Per la pace si deve rischiare, sempre. Si deve essere disposti a perdere l’onore, a morire come Gesù”.

Di conseguenza, “il nostro stare in Terra Santa come credenti non può rinchiudersi in intimismo devozionale, né può limitarsi solamente al servizio della carità per i più poveri, ma è anche ‘parresìa’” (cfr. Giovanni 16,8-11), cioè “capacità di ascoltare tutte le voci, ma anche di giudicare criticamente e profeticamente il presente”.

Da qui nasce, a giudizio di Pizzaballa, una “responsabilità essenziale” per le leadership religiose in Medio Oriente, tutte, quella di saper orientare e guidare le comunità: “Invece di essere il supporto religioso di regimi politici poco credibili, la leadership religiosa dovrebbe diventare una voce libera e profetica di giustizia, diritti umani e pace”.

La fede religiosa, infatti, “ha un ruolo fondamentale nel ripensamento delle categorie della storia, della memoria, della colpa, della giustizia, del perdono, che pongono in contatto direttamente la sfera religiosa con quella morale, sociale e politica. Non si supereranno i conflitti interculturali se non si rileggono e si redimono le letture diverse e antitetiche delle proprie storie religiose, culturali e identitarie”.

E questo “anche a costo di pagare un prezzo alto in termini di solitudine, incomprensioni e rifiuto”.

È un compito, questo, che tuttavia è ancora da costruire. Perché – dice Pizzaballa – “un grande assente in questa guerra” è proprio la parola dei leader religiosi. “Con poche eccezioni, da loro non si sono sentiti in questi mesi discorsi, riflessioni, preghiere diversi da quelli di qualsiasi altro leader politico o sociale”. O peggio, proprio “dai leader religiosi locali si è parlata una lingua esattamente contraria a quella di chi parlava di pace”.

Anche il dialogo interreligioso tra cristiani, musulmani ed ebrei deve quindi varcare uno spartiacque: “non potrà più essere come prima”.

Né come lo è oggi: “Il mondo ebraico non si è sentito sostenuto da parte dei cristiani e lo ha espresso in maniera chiara. I cristiani a loro volta, divisi come sempre su tutto, incapaci di una parola comune, si sono distinti se non divisi sul sostegno a una parte o all’altra, oppure incerti e disorientati. I musulmani si sentono attaccati, e ritenuti conniventi con gli eccidi commessi il 7 ottobre. Insomma, dopo anni di dialogo interreligioso, ci siamo ritrovati a non intenderci l’un l’altro. È per me, personalmente, un grande dolore, ma anche una grande lezione”.

La strada alternativa che il patriarca di Gerusalemme dei Latini invita a percorrere è “un percorso di purificazione della memoria”, nel quale “la pace è strettamente legata al perdono”.

“Le ferite, se non sono curate, creano un atteggiamento di vittimismo e di rabbia, che rendono difficile, se non impossibile, la riconciliazione. Finché da parte di tutti non vi sarà una purificazione della comune memoria, fino a che non ci sarà un reciproco riconoscimento del male reciprocamente commesso e subìto, fino a che, insomma, non vi sarà una rilettura delle proprie relazioni storiche, le ferite del passato continueranno ad essere un bagaglio da portare sulle proprie spalle e un criterio di lettura delle relazioni reciproche”.

Se infatti, dice Pizzaballa, “tutti gli accordi di pace in Terra Santa, finora, sono di fatto falliti”, è proprio perché “presumevano di risolvere anni di tragedie senza tenere in considerazione l’enorme carico di ferite, dolore, rancore, rabbia che ancora covava e che in questi mesi è esploso in maniera estremamente violenta”.

Al contrario, invece, l’azione della Chiesa sarà tanto più valida quanto più saprà “trasformare in resurrezione” la proposta di perdono e riconciliazione. “Senza questa prospettiva, in Terra Santa nessun progetto politico potrà avere successo, e la pace resterebbe solo uno slogan poco credibile”.

Sono due le parole chiave da associare al perdono, dice Pizzaballa: “verità” e “giustizia”.

Certo, va riconosciuto che “da decenni in Terra Santa sussiste l’occupazione israeliana dei territori della Cisgiordania”, con il conseguente non riconoscimento di diritti basilari per la popolazione palestinese in Cisgiordania. Questa “oggettiva situazione di ingiustizia” è una verità che va detta.

E d’altra parte, a sua volta, l’israeliano può chiedere: “Come posso perdonare chi uccide la mia gente in maniera così barbara?”. Anche dietro questa domanda vi è un dolore “vero”, da rispettare.

Sono domande che rendono difficile “la comunione tra i cattolici palestinesi e israeliani, in questo contesto lacerato e polarizzato”. E sono le stesse domande che il patriarca di Gerusalemme dei latini si sente porre ogni giorno. A proposito delle quali ha scritto in una lettera di pochi mesi fa ai suoi fedeli:

“Ci vuole coraggio per essere capaci di chiedere giustizia senza spargere odio. Ci vuole coraggio per domandare misericordia, rifiutare l’oppressione, promuovere uguaglianza senza pretendere l’uniformità, mantenendosi liberi. Ci vuole coraggio oggi, anche nella nostra diocesi e nelle nostre comunità, per mantenere l’unità, sentirsi uniti l’uno all’altro, pur nelle diversità delle nostre opinioni, delle nostre sensibilità e visioni”.

L’importante, dice Pizzaballa, è capire che “il perdono, da solo, non può costruire la pace. Verità e giustizia, da sole, non possono costruire la pace”.

“È necessario, dunque, che la pastorale ecclesiale sappia porre questi tre elementi in continuo, difficile, doloroso, complesso, lacerante, faticoso dialogo tra loro. Ma è un processo fruttifero e rispettoso di Dio e dell’uomo, e costruttore, poco alla volta, nei tempi che non possediamo, di prospettive di pace. Perché ciò che sostiene questi tre modi di stare nella vita e le relazioni tra noi non è una ideologia, ma è l’amore. ‘L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato’ (Romani 5,5 ). È quell’amore l’anima del nostro desiderio di pace. Niente altro”.

In conclusione, per Pizzaballa “la pastorale della pace nella Chiesa non consiste in null’altro che essere semplicemente Chiesa”. Non bisogna cedere, dice, alla “facile tentazione” di supplire alla debolezza degli organismi internazionali e dei poteri locali nel costruire la pace, sostituendosi ad essi “in dinamiche di negoziazioni politiche”.

“Non è questo il compito della Chiesa. La pastorale della pace ha solo il Vangelo come riferimento. I caratteri e i criteri per costruire la pace si trovano tutti li. Da li si deve partire e li si deve tornare sempre. E il contributo che possiamo portare alla vita sociale della nostra travagliata diocesi di Gerusalemme.

*

 

Tratto da DIAKONOS di Sandro Magister 14 maggio 2024

Il testo integrale della “lectio” del cardinale Pierbattista Pizzaballa è nel sito web del patriarcato di Gerusalemme dei Latini:

> Caratteri e criteri per una pastorale della pace

Il 1 maggio, interrogato dai giornalisti al termine della messa celebrata nella chiesa romana di San’Onofrio, Pizzaballa ha così risposto, riguardo alle proteste pro Hamas e contro Israele nelle università:

“Confesso che fatico a capirle. Le università sono luoghi dove l’impegno culturale, anche acceso, anche duro, deve essere aperto a 360 gradi, dove l’impegno con idee forti e anche completamente diverse deve esprimersi non con la violenza, non con il boicottaggio, ma sapendo come impegnarsi. Il mondo è fatto di opinioni diverse che devono tradursi in impegno comune, non escludendo, ma ragionando”.


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