lunedì 28 febbraio 2011

PER INCISO

CHE IL PIU' CELEBRE AUTORE ITALIANO, UMBERTO ECO, PARAGONI SILVIO BERLUSCONI A HITLER APPARTIENE ALLA GRANDE TRADIZIONE DELLA COMMEDIA ALL'ITALIANA.         CHE PRODI SI VANTI DI UNA DIFFERENZA ANTROPOLOGICA FRA LUI E BERLUSCONI APPARTIENE AL PENSIERO CLASSICO DEL RAZZISMO E DELLA XENOFOBIA

TIBHIRINE UOMINI DI DIO

IO SUPERSTITE DEI MONACI DI TIBHIRINE

Quando è arrivato a Tibhirine?

Non dimenticherò mai quel 19 settembre 1964, quando siamo arrivati vicino al monastero sulla due cavalli. Vedrò sempre quel bambino in groppa a un asino venirci incontro ad accoglierci. Ero felicissimo. Dalla mia piccola cella vedevo il chiostro, il giardino e il villaggio in lontananza. Mi sono detto: ecco il paesaggio che vedrò fino alla fine della vita. Perché nel mio cuore era per la vita. Senza ritorno. Sono rimasto trentadue anni, dal 1964 al rapimento nel 1996.

Com’era la vita laggiù?

I primi tempi furono difficili. Alla comunità mancava stabilità e fu un periodo molto duro. Del resto, la nuova Algeria si stava assestando. I rapporti con la gente dei dintorni non erano scontati. C’erano ripercussioni del rifiuto dei francesi. Si avvertiva questo fossato in occasione delle feste, cristiane o musulmane. Non si aveva nulla da spartire gli uni con gli altri. Abbiamo lottato e cercato di ammansirci reciprocamente. In questo il dispensario, gestito da frère Luc, è stato molto importante. Accoglieva fino a ottanta persone al giorno! Poi Christian de Chergé è stato eletto priore, nel 1984. Avevamo bisogno di qualcuno come lui che parlasse arabo e conoscesse bene la cultura musulmana. Da allora siamo diventati una vera comunità, più stabile. Chi s’impegnava lo faceva sul serio. Eravamo quasi autonomi. Fu un vantaggio, perché ci permise di intraprendere molte iniziative nei rapporti islamo-cristiani.

Che ruolo ha svolto Christian de Chergé?

Con lui c’è stata un’evoluzione verso l’islamologia. Lui ha studiato molto il Corano. La mattina teneva la lectio divina con una Bibbia in arabo. Talvolta faceva la meditazione con il Corano. Cercava di farci crescere. Avevamo rapporti con l’islam, ma non a livello intellettuale. Lui conosceva molto bene l’ambiente musulmano e la spiritualità sufi. Alcuni monaci ritenevano che la comunità dovesse restare in equilibrio e che non tutto dovesse essere orientato dall’islam. Questo causò delle frizioni. Le tensioni finirono per essere superate grazie alla creazione di un gruppo di scambio e di condivisione con musulmani sufi, che avevamo chiamato "ribat", con termine arabo. Avevamo capito che la discussione sui dogmi divideva, poiché era impossibile. Allora si parlava del cammino verso Dio. Si pregava in silenzio, ciascuno secondo la propria preghiera. Quegli incontri biennali si sono interrotti nel 1993, quando cominciò a diventare pericoloso. Ma la conoscenza reciproca ha fatto di noi dei veri fratelli, nel profondo.

Che segno ha lasciato in lei père Christian de Chergé?

Quello che mi ha colpito in lui è la sua passione interiore per la scoperta dell’anima musulmana e per vivere questa comunione con loro e con Dio, sempre restando vero monaco e vero cristiano.

(...)
Non prova mai nostalgia per la vita a Tibhirine?
 Un po’, sì… Abbiamo vissuto cose molto belle insieme. E poi, la vita in comune per rappresentare il Signore e la Chiesa. È una vocazione molto bella. Può andare lontano. Cristo è più grande della Chiesa. I sufi utilizzavano un’immagine per parlare del nostro rapporto con i musulmani. È una scala doppia. Poggia a terra e la parte alta tocca il cielo. Noi saliamo da un lato, loro dall’altro, con il loro metodo. Più si è vicini a Dio, più si è vicini gli uni agli altri. E viceversa, più si è vicini gli uni agli altri, più si è vicini a Dio. C’è tutta la teologia qui dentro!

Eppure l’appuntamento era con la morte…


Quello che abbiamo vissuto là, insieme e fin dall’inizio, è stata un’azione di grazia. Ci eravamo preparati insieme. Per fedeltà alla nostra vocazione avevamo scelto di resistere, sapendo benissimo cosa poteva succedere. Il Signore ci manda, non si danno le dimissioni anche se, attorno a noi, i violenti cercano di farci partire, e persino le autorità. Ma abbiamo il Nostro Maestro ed eravamo impegnati con Lui. Poi è sopraggiunta anche la volontà di essere fedeli alle persone che stavano attorno a noi e di non abbandonarle. Erano minacciate quanto noi. Erano prese tra due fuochi, l’esercito e i terroristi. La decisione di non separarsi era stata presa nel 1993. E anche se fossimo stati dispersi con la forza, dovevamo ritrovarci a Fez, in Marocco, per ripartire e stabilirsi in un altro Paese musulmano.

Come vive quello che è successo: come un fallimento o un compimento?


Dopo il rapimento, io e père Amédée siamo stati costretti ad andare ad Algeri con la polizia. Pregavamo per i confratelli. Perché Dio desse loro la forza e la grazia di andare fino in fondo. Ci si aspettava un intervento della Francia o un intervento ecclesiastico che ottenesse la liberazione. Abbiamo appreso la loro morte il 21 maggio 1996. Stavamo recitando i vespri. All’improvviso è arrivato in cappella un giovane confratello che si è gettato per terra davanti a tutti, gridando la sua disperazione: "I fratelli sono stati tutti uccisi!". La sera, mentre eravamo fianco a fianco a lavare i piatti, gli ho detto: "Bisogna viverlo come qualcosa di molto bello, di molto grande. Bisogna esserne degni. E la messa che celebreremo per loro non sarà in nero. Sarà in rosso". Li abbiamo visti subito come martiri, veramente. Il martirio era il compimento di tutto quello che avevamo preparato da molto tempo nella nostra vita. Quegli anni che avevamo vissuto insieme nel pericolo. Eravamo pronti, tutti. Ma questo non ha escluso la paura.

(...)
Come interpreta l’attuale inasprimento di alcuni musulmani contro i cristiani, di cui i recenti attentati sono un segno?

Viene dagli estremisti. I veri musulmani dicono: questi non siamo noi. Si vergognano di quello che è successo ai confratelli. Non è la "religione". D’altra parte, non ci si conosce abbastanza. Ci si percepisce attraverso i violenti e questo crea una tendenza a raggrupparsi tra simili e ad avere paura dei contatti. La soluzione è coltivare l’amicizia, anche a rischio di farsi ingannare.

Farsi ingannare?

Sì, c’è chi parla di reciprocità, si vede poco o nulla: ai musulmani è permesso costruire moschee da noi, ma prima che si possa costruire chiese da loro…

Lo pensa davvero? In realtà i cristiani sono spesso accusati di ingenuità con l’islam…

Non è questo il punto. Per la fede, rischiamo! Sta scritto nel Vangelo: "Amate come io vi ho amato". Spesso si è perdenti, bisogna saperlo. Ma capita che ci sia una reazione. Allora ecco la reciprocità, e un riconoscimento reciproco può andare molto lontano.

Qual è la sua speranza per il 2011?

Bisogna sperare che l’amore sia sempre il più forte. Che l’amore di Dio avrà l’ultima parola. Fondata in Dio, la speranza deve dimorare. E non siamo noi a poter risolvere le cose. La speranza invincibile, come diceva Christian de Chergé. Non deve essere vinta, deve sempre restare viva, fondata su Dio, sulla Sua grazia. Anche quando si muore sotto i colpi. Come diceva, la speranza deve restare viva…
(traduzione di Anna Maria Brogi)


LEGGI TUTTA L'INTERVISTA A QUESTO LINK

http://www.avvenire.it/Cultura/Tibhirine_201102280950140370000.htm

LA CARITA' NON INGANNA, IL WELFARE SI

Bisogna che qualcuno lo dica a Tito Boeri. Il pubblico non è capace di garantire il sostegno alle fasce più povere della popolazione.


Non è che non voglia, è che proprio non ci riesce. Sarà la burocrazia, saranno le leggi fatte male, sarà che non ha soldi, ma proprio ’gna a fa. E bisogna anche che qualcuno gli dica che ad aiutare i poveri gli “enti caritatevoli” sono più bravi. Se fosse povero, lo saprebbe. In un editoriale sulla Repubblica si è scagliato contro l’ipotesi, contenuta nell’(ex) decreto Milleproroghe, che siano gli “enti caritatevoli” a gestire i soldi della social card perché sarebbe fatale che finirebbero per “promuovere un partito politico o una religione”. E la prova è che “sono lastricate le vie delle metropoli lombarde di enti assistenziali che favoriscono le famiglie che non sono certo in condizioni di bisogno…”.

I tre puntini di sospensione che Boeri lascia cadere dalla sua penna molto liberale alludono allo scandalo affittopoli del Pio Albergo Trivulzio. Peccato che il Pat sia gestito dal pubblico. La nomina dei vertici è il frutto di un accordo tra i partiti presenti in comune e in regione cioè proprio gli enti ai quali Boeri vorrebbe affidare tutta la gestione dei soldi per i poveri. Il Pat è la dimostrazione che quando il pubblico vuole fare del bene finisce fatalmente per dare un appartamento a canone scontato, tra gli altri, anche alla compagna del noto e benestante avvocato Giuliano Pisapia candidato del centrosinistra a sindaco di Milano.

Chi promuove “un partito” non è la mensa della Caritas, è il comune, qualunque esso sia. Sotto il titolo “Welfare, l’inganno della carità”, Boeri scrive anche delle perle tipo: “Attribuendo la scelta dei beneficiari (dell’aiuto, ndr) al terzo settore il rischio che i soldi non vadano ai poveri è più forte che lasciando alle amministrazioni pubbliche questa funzione”. Che ridere.

P.S. Come è andata la raccolta dei fondi del 5 per mille destinati agli “enti caritatevoli” da parte del suo sito Lavoce.info?

http://www.miradouro.it/node/48893

UNA FERITA NEL CUORE DELL'ESSERE UMANO

L'aborto volontario nel discorso di Benedetto XVI all'assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita
Tratto da L'Osservatore Romano del 27 febbraio 2011
L'aborto è un "dramma" per la donna e una "ferita gravissima" per la coscienza morale. Lo ha ribadito il Papa ricevendo in udienza stamane, sabato 26 febbraio, nella Sala Clementina, i partecipanti all'assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita.
Signori Cardinali
Venerati Fratelli nell'Episcopato
e nel Sacerdozio,
cari Fratelli e Sorelle,


vi accolgo con gioia in occasione dell'Assemblea annuale della Pontificia Accademia per la Vita. Saluto in particolare il Presidente, Mons. Ignacio Carrasco de Paula, e lo ringrazio per le sue cortesi parole. A ciascuno rivolgo il mio cordiale benvenuto!

Nei lavori di questi giorni avete affrontato temi di rilevante attualità, che interrogano profondamente la società contemporanea e la sfidano a trovare risposte sempre più adeguate al bene della persona umana. La tematica della sindrome post-abortiva - vale a dire il grave disagio psichico sperimentato frequentemente dalle donne che hanno fatto ricorso all'aborto volontario - rivela la voce insopprimibile della coscienza morale, e la ferita gravissima che essa subisce ogniqualvolta l'azione umana tradisce l'innata vocazione al bene dell'essere umano, che essa testimonia.

In questa riflessione sarebbe utile anche porre l'attenzione sulla coscienza, talvolta offuscata, dei padri dei bambini, che spesso lasciano sole le donne incinte. La coscienza morale - insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica - è quel "giudizio della ragione, mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto" (n. 1778). È infatti compito della coscienza morale discernere il bene dal male nelle diverse situazioni dell'esistenza, affinché, sulla base di questo giudizio, l'essere umano possa liberamente orientarsi al bene. A quanti vorrebbero negare l'esistenza della coscienza morale nell'uomo, riducendo la sua voce al risultato di condizionamenti esterni o ad un fenomeno puramente emotivo, è importante ribadire che la qualità morale dell'agire umano non è un valore estrinseco oppure opzionale e non è neppure una prerogativa dei cristiani o dei credenti, ma accomuna ogni essere umano.

Nella coscienza morale Dio parla a ciascuno e invita a difendere la vita umana in ogni momento. In questo legame personale con il Creatore sta la dignità profonda della coscienza morale e la ragione della sua inviolabilità.
Nella coscienza l'uomo tutto intero - intelligenza, emotività, volontà - realizza la propria vocazione al bene, cosicché la scelta del bene o del male nelle situazioni concrete dell'esistenza finisce per segnare profondamente la persona umana in ogni espressione del suo essere. Tutto l'uomo, infatti, rimane ferito quando il suo agire si svolge contrariamente al dettame della propria coscienza. Tuttavia, anche quando l'uomo rifiuta la verità e il bene che il Creatore gli propone, Dio non lo abbandona, ma, proprio attraverso la voce della coscienza, continua a cercarlo e a parlargli, affinché riconosca l'errore e si apra alla Misericordia divina, capace di sanare qualsiasi ferita.
I medici, in particolare, non possono venire meno al grave compito di difendere dall'inganno la coscienza di molte donne che pensano di trovare nell'aborto la soluzione a difficoltà familiari, economiche, sociali, o a problemi di salute del loro bambino. Specialmente in quest'ultima situazione, la donna viene spesso convinta, a volte dagli stessi medici, che l'aborto rappresenta non solo una scelta moralmente lecita, ma persino un doveroso atto "terapeutico" per evitare sofferenze al bambino e alla sua famiglia, e un "ingiusto" peso alla società.

Su uno sfondo culturale caratterizzato dall'eclissi del senso della vita, in cui si è molto attenuata la comune percezione della gravità morale dell'aborto e di altre forme di attentati contro la vita umana, si richiede ai medici una speciale fortezza per continuare ad affermare che l'aborto non risolve nulla, ma uccide il bambino, distrugge la donna e acceca la coscienza del padre del bambino, rovinando, spesso, la vita famigliare.
Tale compito, tuttavia, non riguarda solo la professione medica e gli operatori sanitari. È necessario che la società tutta si ponga a difesa del diritto alla vita del concepito e del vero bene della donna, che mai, in nessuna circostanza, potrà trovare realizzazione nella scelta dell'aborto. Parimenti sarà necessario - come indicato dai vostri lavori - non far mancare gli aiuti necessari alle donne che, avendo purtroppo già fatto ricorso all'aborto, ne stanno ora sperimentando tutto il dramma morale ed esistenziale. Molteplici sono le iniziative, a livello diocesano o da parte di singoli enti di volontariato, che offrono sostegno psicologico e spirituale, per un recupero umano pieno. La solidarietà della comunità cristiana non può rinunciare a questo tipo di corresponsabilità.

Vorrei richiamare a tale proposito l'invito rivolto dal Venerabile Giovanni Paolo II alle donne che hanno fatto ricorso all'aborto: "La Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s'è trattato d'una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro animo non s'è ancor rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l'avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Allo stesso Padre e alla sua misericordia potete affidare con speranza il vostro bambino. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita" (Enc. Evangelium vitae, 99).
La coscienza morale dei ricercatori e di tutta la società civile è intimamente implicata anche nel secondo tema oggetto dei vostri lavori: l'utilizzo delle banche del cordone ombelicale, a scopo clinico e di ricerca. La ricerca medico-scientifica è un valore, e dunque un impegno, non solo per i ricercatori, ma per l'intera comunità civile. Ne scaturisce il dovere di promozione di ricerche eticamente valide da parte delle istituzioni e il valore della solidarietà dei singoli nella partecipazione a ricerche volte a promuovere il bene comune. Questo valore, e la necessità di questa solidarietà, si evidenziano molto bene nel caso dell'impiego delle cellule staminali provenienti dal cordone ombelicale. Si tratta di applicazioni cliniche importanti e di ricerche promettenti sul piano scientifico, ma che nella loro realizzazione molto dipendono dalla generosità nella donazione del sangue cordonale al momento del parto e dall'adeguamento delle strutture, per rendere attuativa la volontà di donazione da parte delle partorienti. Invito, pertanto, tutti voi a farvi promotori di una vera e consapevole solidarietà umana e cristiana. A tale proposito, molti ricercatori medici guardano giustamente con perplessità al crescente fiorire di banche private per la conservazione del sangue cordonale ad esclusivo uso autologo. Tale opzione - come dimostrano i lavori della vostra Assemblea - oltre ad essere priva di una reale superiorità scientifica rispetto alla donazione cordonale, indebolisce il genuino spirito solidaristico che deve costantemente animare la ricerca di quel bene comune a cui, in ultima analisi, la scienza e la ricerca mediche tendono.
Cari Fratelli e Sorelle, rinnovo l'espressione della mia riconoscenza al Presidente e a tutti i Membri della Pontificia Accademia per la Vita per il valore scientifico ed etico con cui realizzate il vostro impegno a servizio del bene della persona umana. Il mio augurio è che manteniate sempre vivo lo spirito di autentico servizio che rende le menti e i cuori sensibili a riconoscere i bisogni degli uomini nostri contemporanei. A ciascuno di voi e ai vostri cari imparto di cuore la Benedizione Apostolica.

SI PUO' SPERARE IN NAPOLITANO?


DA VENT'ANNI IL PAESE NON RESPIRA PIU'.
E' POSSIBILE RIPRISTINARE LA DIVISONE DEI POTERI?
GIULIANO FERRARA SPERA CHE POSSA FARLO NAPOLITANO.

MA E' IMPOSSIBILE.

Ho l'onore di conoscere il presidente Napolitano da molti anni. Quand'ero adolescente, venne a Roma da Napoli come capo della sezione culturale del Partito comunista. Era stimato fin da allora per la sua pignoleria e per il suo aplomb istituzionale. L'intellighenzia borghese del Pci, che era piuttosto sorniona nonostante il suo plumbeo stalinismo togliattiano, lo chiamava «il Prefetto» e ridacchiava della sua somiglianza con Umberto II. Lui tirava diritto, freddo e flemmatico com'è.

Nessuna storia personale è senza macchia, nessuna carriera senza errori, ma Napolitano è il tipo ideale del galantuomo meridionale. Quando Berlusconi vinse a sorpresa le drammatiche elezioni del 1994, l'allora capogruppo del maggior partito di opposizione tenne alla Camera un discorso aperto e responsabile, freddo in mezzo alle passioni scatenate. Il Cav. scese dal banco del governo, attraversò l'emiciclo e gli strinse la mano, gesto significativo e poco protocollare. Fece sensazione. Qualche tempo dopo proposi al presidente del Consiglio di mandare Napolitano a Bruxelles come commissario europeo, insieme con Mario Monti. Se ne discusse seriamente, eravamo arrivati al punto, ma alla fine quel magnifico tipaccio di Cesare Previti irruppe in una riunione di ministri, a Palazzo Chigi, e con impeto da centurione disse rombante la sua: «Napolitano no». «Perché?», domandai. «Perché è comunista», fu la sua risposta. Chiusa lì. Andò la Bonino, che non ho mai capito bene che cosa sia.
Cesarone sbagliava. Il peccato originale di Napolitano non è il suo comunismo all'italiana, che è ovviamente anche parte di una tragedia mondiale da me condivisa in gioventù, ma l'articolo 68 della Costituzione. Tra il febbraio e l'ottobre del 1993, anno del Grande Terrore giustizialista, quando l'uso barbarico della carcerazione preventiva assicurò alla galera un certo numero di ladri, ma distrusse con ferocia selettiva (i sommersi e i salvati si conoscono) le basi della Repubblica costituzionale, Napolitano contribuì da presidente della Camera allo smantellamento coatto di un pilastro della politica democratica, garanzia della divisione dei poteri. I padri costituenti avevano scritto queste parole: «Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale».
I padri, gente del calibro di Moro, Togliatti, La Malfa, Nenni, Andreotti, Terracini, Dossetti, Meuccio Ruini, De Gasperi e molti altri che potrei citare, non erano stupidi. Sapevano che questo scudo non avrebbe soltanto difeso i parlamentari dall'inquisizione e dal pregiudizio politico, ma potenzialmente anche da curiosità inerenti i loro comportamenti, privati e pubblici, segnati dall'illegalità. Tuttavia vollero che quelle parole così esplicite fossero iscritte nella Carta fondamentale, perché la politica può essere sporca, meschina, truffaldina, ma niente è più sporco, meschino e truffaldino della giustizia politica, dell'uso politico della giustizia. L'articolo 68 fu cancellato in un Paese stremato dalla delusione per il cattivo uso dell'immunità da parte delle Camere, e inferocito oltre ogni misura di misericordia e di equilibrio contro i responsabili di un declino del prestigio e della salute delle istituzioni, ma le conseguenze di quella decisione, presa sotto la ferula dei magistrati d'assalto, che si preparavano a correre per il potere candidandosi e formando nuovi partiti, sono state disastrose.
Da quasi vent'anni il Paese non respira più, vive in una perpetua apnea giudiziaria. Che voti per Berlusconi o per Prodi, i governi dipendono dal comportamento dell'ordine giudiziario trasformatosi in potere autonomo e insindacabile in mano a una minoranza attivistica. Reggono o cadono, i governi eletti dal popolo, a seconda della loro forza di resistenza all'iniziativa blindata di alcuni magistrati che affettano di credere in una missione purificatrice di sradicamento del male, ma stringono nel loro mirino il «nemico assoluto» che secondo loro ha corrotto il popolo, intendono correggere o annichilire il giudizio sovrano degli italiani sulla politica. Questa missione reazionaria, codina, antidemocratica, che ha un costo inaudito per l'economia e per la pace civile, è assolta in forme militanti, passando da una indagine a un talk show dei più facinorosi, da una sentenza a una pressione vociferante e intimidente sul legislatore, sbaraccando lo stato di diritto, la privacy dei cittadini, mettendo in discussione tutto e minacciando tutti con la sola riserva, quando gli riesce, di selezionare gli avversari e risparmiarne alcuni, pur sempre ammonendoli e impaurendoli, allo scopo di ottenerne l'appoggio politico.
Il presidente della Repubblica è politicamente irresponsabile, ma della Costituzione è custode. Questa non è una questione costituzionale, non riguarda i sondaggi e la volubilità dell'opinione pubblica, la lotta tra i partiti. Questo passaggio lo riguarda direttamente, perché riguarda il tradimento consumato di una Carta in nome della quale si celebrano centocinquant'anni di Italia unita. Napolitano può dare un grande contributo di persuasione morale e di intelligenza critica alla storia di questo Paese, entrandovi a pieno diritto come un galantuomo al di sopra delle parti: predicare apertamente, a vent'anni dal tradimento, la necessità di ripristinare il testo mutilato della legge fondamentale dello Stato, e del suo principio cardinale di divisione dei poteri.
Tratto da Il Giornale del 27 febbraio 2011

mercoledì 23 febbraio 2011

LA VERITA' VI FARA' LIBERI





La storia di Eric Liddell e Harold Abrahams alle Olimpiadi di Parigi del 1924, narrata (e romanzata) nel film "Chariots of Fire" di Hugh Hudson, del 1981 (in Italia col titolo "Momenti di gloria").

Liddel vinse la medaglia d'oro nei 400 piani, grazie ad un compagno di squadra che gli aveva ceduto il suo posto in una batteria; Liddel, cristiano fervente, non aveva voluto correre la propria nei 100 metri, specialità nella quale non aveva rivali, perché si svolgeva di domenica.

Abrahams, di fede ebraica, aveva così potuto vincere i 100 metri, mentre Liddel esultava per lui,  da vero sportivo.

La geniale musica di Vangelis ha contribuito a far vincere 4 Oscar a questo bel film, il più meritato dei quali ovviamente per la colonna sonora, che è diventata ormai un classico dei nostri tempi. Nel video, al pianoforte (e altri strumenti), lo stesso Vangelis.

SE IL P.M. SI "SORPRENDE"

Quando sono incapaci o perfidi, ciò che accade non di rado, purtroppo non rispondono né dell’incapacità né della perfidia. E quelli bravi, tanti, ne soffrono.

Sorprende la sorpresa del sostituto procuratore Nino Di Matteo che, di fronte all’assoluzione di Giovanni Mercadante, rimasto 12 mesi in carcere e altri 43 agli arresti domiciliari, si chiede come sia potuto accadere: come sia stato possibile cioè che l’ex deputato regionale siciliano di Forza Italia sia stato assolto in Appello, dopo la condanna a 10 anni e 8 mesi rimediata in tribunale. La domanda da porsi, semmai, sarebbe quella opposta: come sia possibile rimanere in “custodia cautelare” per 4 anni e 7 mesi, con un’imputazione pesante come l’associazione mafiosa, per poi ritrovarsi scagionati perché il fatto non sussiste. Ma ognuno si pone gli interrogativi che crede. Anche di fronte a un Mercadante che è un uomo finito, ad appena 63 anni, distrutto da una vicenda in cui uno dei capisaldi dell’accusa, sbandierato – tanto per cambiare – dall’immancabile Massimo Ciancimino, era una storia di corna.

Sorprende la sorpresa nella vicenda Mercadante come in quella che ha riguardato Totò Cuffaro, l’ex presidente della regione condannato per favoreggiamento aggravato di Cosa nostra e in carcere da un mese esatto, per scontare sette anni. La procura, sempre col pm Di Matteo, aveva ottenuto, dopo la prima condanna, un secondo processo per concorso esterno. Ma il Gup ha detto che le accuse e i fatti erano uguali a quelli dell’altro giudizio e lo ha immediatamente prosciolto. Anche in questo caso la sorpresa dell’accusa si tradurrà in un più che probabile ricorso in appello. Perché i processi, nel rito palermitano, non conta vincerli: importa piuttosto che siano interminabili, con indagini che si aprono e si chiudono e si riaprono, per poi richiudersi talvolta alla chetichella e con la segreta speranza di avere un altro spunto per riprenderle al momento opportuno. Chissà.

Indagini spesso inconcludenti quanto infinite. Come quelle sulle stragi di mafia e sulla trattativa, in cui il protagonista principale, a Palermo, è ancora una volta l’ineffabile figlio di Vito Ciancimino. La procura di Caltanissetta, 19 anni dopo l’eccidio di via D’Amelio, sta faticosamente rimettendo in piedi una verità difficile, per anni inquinata da un falso pentito come Vincenzo Scarantino. Tutto questo per tirare fuori dalla galera un gruppo di possibili innocenti, condannati con sentenze definitive come esecutori materiali della strage. Che Scarantino fosse un pentito fasullo non è però una scoperta recente: lui stesso, tra l’altro, aveva provato più volte a ritrattare, dicendo di essersi inventato tutto. Aveva però trovato pubblici ministeri e giudici che avevano creduto solo alle accuse e non alle retromarce e che avevano distribuito, al di là di ogni ragionevole dubbio, ergastoli a pioggia.

Fra coloro che allora rappresentavano l’accusa a Caltanissetta c’era proprio il sostituto Di Matteo. Lo stesso magistrato che oggi, pm di Palermo, crede a Ciancimino e alle sue ricostruzioni, a volte un po’ ardite, per non dire pindariche. Il pool di cui fa parte Di Matteo, guidato da Antonio Ingroia, sta affrontando il fondamentale snodo della presunta trattativa fra mafia e stato, nel 1992-’93, leggendo la strage di via D’Amelio come frutto acido degli accordi tra pezzi di Cosa nostra, pezzi delle istituzioni e l’immancabile Silvio Berlusconi: in altre parole, Di Matteo, ora in compagnia di Ingroia, punta a dimostrare l’esatto contrario di quanto lo stesso Di Matteo aveva sostenuto anni fa a Caltanissetta. Il caso Mercadante fa parte di questo contesto. Di che si stupisce Di Matteo?


IL SENSO RELIGIOSO QUESTIONI DI METODO






PRIMA PREMESSA: REALISMO

“Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità”: questa provocante espressione del premio Nobel per la medicina Alexis Carrel ci fa capire che anzitutto per capire la vita occorre realismo, cioè la capacità di considerare-osservare la realtà. Allora si scopre che la realtà è un dato, non una teoria. E fa parte di questo dato anche il nostro io. Incontriamo così la nostra esperienza elementare: un insieme di evidenze e di esigenze (esigenza di verità, di bontà, di bellezza, di felicità, di giustizia, di amore vero…) con cui siamo lanciati nell’esistenza.


“La Moldava” di Smetana: metafora della vita

Smetana descrive il corso del fiume nazionale boemo, la Moldava. Le scene descritte sono le seguenti:
la sorgente
il cammino del fiume (melodia-ritornello)
la caccia nei boschi
la festa di nozze dei contadini
la pianura di notte
le cascate
l’attraversamento trionfale di Praga
l’addio
La melodia-ritornello, che ha reso celebre questo poema sinfonico, è tratta da un antico canto dei pellegrini: essa dunque richiama in se stessa e nella sua tradizione l’idea di cammino o di pellegrinaggio: l’uomo come homo viator. E’ abbastanza evidente quindi che il cammino del fiume è una metafora del cammino dell’uomo. E’ un cammino pieno di speranza, orientato verso un grande orizzonte. E tutto ciò che si attraversa in questo cammino acquista significato solo guardando a questo grande orizzonte.
Anzitutto il mistero della sorgente. Uno zampillare di vita che emerge dalle profondità della madre-terra o patria (termine molto caro all’autore): non c’è cosa più evidente infatti che non ci diamo l’essere noi, ma lo riceviamo, in continuazione, anche in questo medesimo istante, come un fiume che riceve continuamente la sua acqua da altro. L’osservazione della realtà deve quindi portarci anzitutto a guardare questo fatto: senza questa osservazione si può equivocare tutto il resto.
La caccia nei boschi è in realtà un aumento dello stupore: i corni imitano l’abbaiare dei cani, i richiami tra i cacciatori, la misteriosa profondità dei boschi. Metafora forse della necessità di affrontare le situazioni e i problemi dell’esistenza, con creatività e astuzia.
La festa di nozze dei contadini è un’espressione felice della bellezza della vita condivisa con gli altri, cioè della vita di un popolo: tutti insieme dentro la danza misteriosa della vita.
La pianura di notte è un momento di silenzio e di struggimento: il fiume attraversa silenziosamente la pianura mentre gli uomini si riposano dalle loro fatiche e ripensano ai grandi desideri che portano nel cuore. E’ il desiderio di qualcosa di grande che continuamente riemerge.
Le cascate sono come un momento di lotta: la vita come combattimento drammatico, come affronto coraggioso di situazioni difficili, di ostacoli, di impedimenti. Ed il ritornello arriva trionfalmente a descrivere l’ingresso del fiume in Praga, la “città dorata”: la festa si ripresenta e sembra quasi di assistere alla conclusione del viaggio del fiume.
Ma la conclusione vera e propria è un misterioso addio. Può essere il semplice allontanamento del fiume dalla città, come un nostalgico addio alla vita (e così lo interpreta Friksai); ma può essere anche la descrizione dell’arrivo del fiume al mare e il suo immergersi dentro la profondità del mare medesimo, come un’immagine del destino infinito cui misteriosamente la vita giunge. Qualunque sia l’interpretazione corretta, rimane la suggestione finale di un mistero. E l’osservazione della realtà porta proprio ad incontrarsi con questo mistero.

Val la pena ricordare qui quello che scriveva Jacopone da Todi: “Amore, amore, grida tutto il mondo, amore, amore, omne cosa conclama”; è l’indicazione del Destino ultimo come il destino di amore che si compie in quel “regno celesto, che compie omne festo che’l core ha bramato”.

martedì 22 febbraio 2011

IL NUOVO VATE NAZIONALE

Roberto Benigni merita un grande “grazie!”. Certo, alcune baggianate le ha dette nella sua performance al festival di Sanremo.
Per esempio, se ho ben capito (perché affastellava argomenti con un eloquio sovraeccitato) ha detto che fu Mazzini, nel 1830, a inventare il Tricolore. E’ una sciocchezza.
Chissà come gli è venuta in mente: il Tricolore fu concepito da Luigi Zamboni e Giambattista De Rolandis, a Bologna nel 1794 (l’ho raccontato di recente su queste colonne). E fu poi ripreso – come tutti sanno – dalla Repubblica Cispadana nel 1797. Mazzini non era neanche nato.
Suggestivo è il riferimento benignesco alle origini del Tricolore dalla Divina Commedia (Purg. XXX, 30-33), ma purtroppo l’attore toscano ignora che i colori bianco, rosso e verde del vestito di Beatrice indicano le tre virtù teologali, Fede, Speranza e Carità e così il riferimento dantesco rimane monco.
Qualcuno poi dovrà spiegare a Bossi e alla Lega che il Tricolore nasce dallo stendardo della Lega lombarda (la croce rossa in campo bianco che proveniva dalle crociate) e che l’unità d’Italia è in gran parte un’ “impresa padana”. 
Ma chissà se ascolteranno.
Per tornare a Benigni, ci sono poi le gaffe dovute all’ingarbugliamento verbale del comico, come quando ha detto che la cultura italiana esisteva prima della nazione: una cosa senza senso, chissà perché rilanciata dai tg come una geniale idea.
In realtà intendeva dire che la nazione e la cultura italiane esistevano prima dello Stato unitario (che è sorto appunto nel 1861).
Era uno spunto bello – quello della cultura italiana che precede lo Stato – che sarebbe stato da approfondire. Peccato che l’abbia lasciato cadere.
E peccato che l’orazione civile di Benigni abbia celebrato un Risorgimento da scuola elementare di cento anni fa.
E’ stato un alluvione di retorica da piccola vedetta lombarda. Ha narrato una favoletta piena di eroi giovani e forti (che sono morti) assai lontana dalla realtà dei fatti.
Non c’è stato nemmeno il sentore delle zone d’ombra, degli errori e pure degli orrori della “conquista piemontese”.
Detto questo credo che Benigni sia stato grande e abbia fatto comunque una grande cosa.
Prima di tutto per la sua emozione e la sua commozione che ci hanno toccato il cuore e che ci hanno fatto sentire come nostro perfino un inno nazionale improbabile e per certi aspetti imbarazzante.
Il caso Benigni è emblematico. Nessuno ha riflettuto su quanto sia singolare che a un comico sia di fatto affidata l’unica vera celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia (in effetti la performance di Benigni a Sanremo era più attesa dei discorsi ufficiali del presidente Napolitano).
In realtà c’è una ragione profonda. E’ data dal fatto che, dopo il fascismo, che ridusse l’amor di patria a una macchietta comica prima e tragica poi (per il nazionalismo, il colonialismo e la catastrofe bellica), le sole due modalità che gli italiani, nel cinquantennio repubblicano, si sono concessi per essere patriottici sono state il calcio (lo stadio, dove giocava la Nazionale, è diventato l’unico posto dove sventolavamo il Tricolore) e la comicità (vedi “La grande guerra” interpretata da Gassman e Sordi, per fare un esempio).
Il registro comico ci permette infatti di dirci che siamo fieri di essere italiani (specie col mito “italiani brava gente”), ma con un sorriso rassicurante, col sottinteso cioè che non ci prendiamo troppo sul serio e nessuno si sogna più di emulare la Roma imperiale: infatti gli italiani possono essere solo “eroi involontari”, proprio come Gassman e Sordi in quel capolavoro di Monicelli.
Anche il palcoscenico della celebrazione di Benigni era emblematico: il festival di Sanremo e la Tv.
Emblematico perché (primo) Festival e Tv sono il tempio del sentimento nazional-popolare, (secondo) perché rientrano perfettamente nello stereotipo più diffuso e banale – gli italiani spaghetti e mandolino – e (terzo) perché confermano perfino lo stereotipo colto per il quale – in fin dei conti – la nostra arte e la nostra cultura ci fanno da duemila anni il cuore del mondo (del resto  il Festival si vanta di essere “la musica italiana”).
C’è un’altra piccola rivoluzione memorabile compiuta da Benigni: per un cinquantennio la parola “patria” è stata un tabù per la Sinistra comunista e per la cultura ufficiale. Bastava pronunciarla per essere accusati di fascismo.
Non solo. I comunisti avevano certamente dato un grandissimo contributo alla liberazione del Paese dal nazifascismo, nella guerra partigiana, però il Pci era asservito a Stalin, a una potenza straniera minacciosa e nemica dell’Italia.
Per capire cosa significa ciò bisogna ricordare che nel momento più drammatico dello scontro fra mondo libero e Urss, attorno al 1948-1949, quando l’Armata Rossa si stava divorando mezza Europa, asservendo decine di Stati dell’Est europeo e arrivando fino a Trieste con mire fameliche e aggressive, uno come Enrico Berlinguer – il migliore di quel campo (a quel tempo leader della Fgci) – affermava che in caso di guerra i giovani non avrebbero combattuto contro l’Armata Rossa.
Fece indignare lo stesso De Gasperi che gli rispose di persona, con un suo duro discorso (il legame del Pci con l’Urss è durato a lungo: perfino i finanziamenti sovietici sono arrivati fino alla fine degli anni Settanta).
Ancora negli anni Ottanta – nella decisiva vicenda degli euromissili (che poi porterà tali cambiamenti a Mosca da provocare il crollo del comunismo) – il Pci, anziché schierarsi con la Nato per far fronte alla minaccia dei missili sovietici puntati sull’Europa, scelse un “pacifismo” che di fatto significava non difendere gli interessi nazionali e avvantaggiare l’Urss (chissà se il presidente Napolitano ricorda…).
Ciò detto che oggi si possa parlare di “patria” senza più i tabù ideologici del passato, come ha fatto Benigni, è una gran bella cosa. Che tutti insieme ci si possa riconoscere nel nostro passato e nel nostro Paese, come una sola famiglia è meraviglioso.
Tanto più in questo anniversario dei 150 anni dell’unità nazionale, nel quale il Paese sembra dilaniato dagli odi e il disprezzo reciproco quasi rende impossibile riconoscersi come un solo popolo.
Benigni si è trovato a svolgere un ruolo che non dovrebbe essere affidato a un attore, specialmente a un attore comico, ma ha trovato nella propria religiosità il modo per cantare un inno che ci ha unito e che nessuno avrebbe potuto restituire con eguale semplicità. Per qualche minuto sugli odi e sul disprezzo reciproco ha prevalso in tutti la sensazione di essere un popolo. E ha prevalso l’amore per quella cosa bellissima che si chiama Italia.
Antonio Socci  Da Libero, 19 febbraio 2011
Leggi anche Massimo Viglione : L’Italia dei comici e dei cantanti e l’Italia degli italiani http://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=2331

sabato 19 febbraio 2011

IL RISORGIMENTO E LA QUESTIONE CATTOLICA

1861-2011. A centocinquant'annni dall'Unità d'Italia. Quale identità?, convegno tenutosi anRoma il 12 febbraio e organizzato da Alleanza Cattolica.
Sono intervenuti l'on. Gianni Alemanno, Attilio Tamburrini, Marco Invernizzi, Mauro Ronco, Francesco Pappalardo, Marina Valensise, Giovanni Formicola, mons. Luigi Negri, gli onn. Alfredo Mantovano, Alessandro Pagano e Massimo Polledri, quindi Massimo Introvigne e Giovanni Cantoni. Una omonima raccolta di saggi storici e intepretativi, curata da Oscar Sanguinetti e Francesco Pappalardo (Cantagalli, Siena) viene presentata nell'occasione così come un manifesto, sintetizzato nello slogan «Unità sì, Risorgimento no», con cui si chiede di non dimenticare il senso autentico dell'identità italiana imperniata sulla fede cattolica affinché sia possibile operare efficacemente per una "memoria condivisa" che non rinunci alla verità. Quello che segue è il testo di una delle relazioni presentate al convegno.

La questione cattolica nel Risorgimento italiano

Si è soliti sovrapporre la “questione cattolica” e la “questione romana” a proposito del Risorgimento. In realtà i due problemi hanno storie ed esiti diversi. La questione romana esplode nel 1870 e si conclude dal punto di vista giuridico e politico nel 1929, mentre la questione cattolica, che è soprattutto un problema culturale, rimane aperta durante tutti i regimi politici che si succedono in Italia, il liberale, il fascista, il repubblicano.


Continua a leggere qui

Leggi anche i libri di Angela Pellicciari “Risorgimento da riscrivere” (ed. Ares) e “l’altro Risorgimento”  (ed.Ares) e il volume del Card. Biffi “l’unità d’Italia – 150 anni” (Cantagalli)

UN MAESTRO DI LAICITA'

Auguri a un principe della chiesa che resterà nella storia

Eminenza, auguri vivissimi per i suoi 80 anni così lucidi e ben portati. “Laico, cioè cristiano” era un ritornello di don Giussani, che ci incitava a seguirla e a collaborare. Questa laicità lei ci insegna: che non possiamo pretendere che Dio faccia quel che spetta a noi e, insieme, dobbiamo aver fiducia che Dio compirà quello che noi non riusciamo a fare e che, addirittura, distruggiamo. La sua presidenza dei vescovi italiani ha costretto tutti – ed entusiasmato molti – in un confronto con la realtà, in un’affermazione delle ragioni concrete per cui si sta al mondo, si decide e si vive personalmente e con gli altri. Così io ho vissuto le occasioni in cui siamo stati più insieme: il referendum sulla legge 40 e il Family day. A Lei dobbiamo molto se il popolo italiano ha mantenuto la sua fondamentale cattolicità, in questi anni così tempestosi. Ricordo la sua omelia al funerale dei caduti di Nassiriya, quando insieme alla vedova Coletta ci ritrovammo tutti tristi, ma non disperati. Dio è entrato nella storia e si è immedesimato nel destino degli uomini, abbracciando una realtà che, per quanto dura, porta tracce dell’amore con cui è stata creata ed è sostenuta. Abbiamo bisogno ancora di lei che, per fortuna, sa che l’opera di costruzione e di educazione è infinita ed è una responsabilità da cui non ci si può esimere, in qualsiasi ruolo e in qualsiasi momento. Continui a darci una mano.

di Giancarlo Cesana

venerdì 18 febbraio 2011

GLI SCRISTIANIZZATORI D'ITALIA

Contro il Cav. un rigurgito d’odio di un settimanale venduto nelle chiese

Scrive Famiglia Cristiana: “Viene subito in mente la Nemesi. Tu, Berlusconi, delle donne ti sei servito, e in malo modo; le stesse donne faranno giustizia”. Poco dopo la notizia che il processo per rito immediato a Silvio Berlusconi era stato fissato per il 6 aprile, il sito della rivista dei paolini aveva già vomitato la sua sentenza, pescando le parole in un inconscio un po’ disturbato, dal punto di vista del catechismo, che invece di innalzarsi ai Novissimi – morte, giudizio, inferno e paradiso – si infila nei gorghi della giustizia-vendetta: una nemesi senza perdono, né diritto d’appello, la punizione del reprobo in un bel rigurgito d’odio.

La nemesi al posto della giustizia. Nel lapsus linguistico e giuridico di Giorgio Vecchiato, stella di quella congrega di vecchietti rancorosi che sono gli editorialisti del settimanale dei Paolini, c’è tutto il peggio di un certo mondo cattolico. C’è la rivelazione, per chi non conoscesse da decenni i giacobini in tonaca di Famiglia Cristiana, di un modo di pensare che in teologia ha subordinato tutto ad un’astratta morale; che in politica ha sostituito la moderazione del giudizio con un ossequio giacobino alla dittatura della legalità, versione pm di Milano. E nella pastorale ha fatto dell’antiberlusconismo l’unico orizzonte ideale.
La stessa cultura che ha fatto dire a Vito Mancuso che lo stile di vita del Cav. è un male di cui ci si deve liberare per “la salute mentale dei nostri giovani”. Conclude Vecchiato: “davvero aspettiamo giustizia. Anzi, Giustizia, con la G maiuscola”.

Noi non vi seguiremo nelle stanze da letto degli altri, non ci abbasseremo per guardare dal buco della serratura. Sputtanate pure Berlusconi, continuate a farlo serenamente, travestiti da agenti del comune senso del pudore. Spiate, origliate, pedinate, fotografate e diffondete il romanzo porno politico che demolisce il vostro nemico.

Ma la violenza con cui giudicate la vita degli altri fa di voi, gentili signori, gli eredi mentali delle spie della Stasi.

E quando parlate di giustizia, voi,  rigorosi scristianizzatori dell’Italia, ricordatevi che la Giustizia con la maiuscola, per le famiglie cristiane, è solo quella divina.

IL PROGETTO ORWELLIANO


Non riusciamo a togliergli la fiducia alle Camere? Non ce la facciamo con le elezioni perché i cittadini sono indegni di esercitare la sovranità? E allora infamiamolo e paralizziamolo con altri mezzi. Così gli italiani, che loro giudicano rincretiniti ma non perdono mai il common sense, il senso comune, stanno cominciando a reagire. E piano piano gli scandalisti stanno diventando lo scandalo, i nuovi puritani stanno diventando vecchi ipocriti, i neogiacobini che vogliono sostituire al governo un comitato di salute pubblica guidato e orientato da loro, dietro le quinte, prendono ad essere tipi sospetti e perfino sinistri per la maggioranza del paese. Chi mette un ragazzino di tredici anni a recitare in pubblico le litanie dell’odio politico può perfino vincere una battaglia tattica, eccitare una grande folla e ipnotizzare qualche milione di spettatori televisivi per una sera, ma perde l’amore di un antico paese civile e cristiano com’è l’Italia.
GIULIANO FERRARA
Teatro Dal Verme, Milano 14 febbraio 2011

A SANREMO UNA PERSONA VERA

L'esordio di Davide Van De Sfroos
di Marcello Filotei
Tratto da L'Osservatore Romano del 17 febbraio 2011
Sembra un festival di controfigure quello che è cominciato martedì sera a Sanremo. In mancanza di grandi personaggi, nella prima serata si allude prima di tutto a quelli che non ci sono: un presentatore come quelli di una volta (ricordati con innegabile eleganza) e i fidanzati delle aiutanti presentatrici. Fanno eccezione due comici che continuano a fare i comici e a dissacrare tutto, che poi è il ruolo della satira.
Nel turbinio di personaggi costruiti a tavolino appare a un certo punto una persona vera: Davide Van De Sfroos, l'unico originale, nel senso che non interpreta se stesso, ma è proprio fatto così. Le platee affollate le affronta da decenni e quindi lo emozionano quel tanto che basta per dare il meglio. La canzone Yanez, come altri brani di un repertorio molto vasto, è un gran miscuglio: il Bob Dylan di Desire, il suono di certe ballate di Willy DeVille, il Paolo Conte che usava le chitarre ritmiche, gli ottoni latinoamericani ed echi lirici di Morricone, dal quale in molti hanno imparato a usare la tromba nel cantabile. Tutto ben mescolato con gusto e annaffiato con qualcosa da dire. Peccato che la lingua laghée parlata a Mezzegra (sull'altro ramo del lago di Como) non permetta di cogliere appieno le vicissitudini dei protagonisti salgariani invecchiati e ridotti a frequentazioni da riviera romagnola. Un po' di malinconia per la Perla di Labuan, la Lady Marianna che ha popolato i sogni di intere generazioni e ora s'è rifada i tètt, l'ha mea pudüü rifàss el coer ("si è rifatta il seno, non ha potuto rifarsi il cuore"), commiserazione per Kammamuri, che da sessant'anni sta in soel dondolo de la pension ("sta sul dondolo della pensione"), e James Brook che el giüga ai caart giù al Bagno Riviera e i hann dii che l'è sempru ciucch ("gioca alle carte giù al bagno Riviera e dicono che è sempre ubriaco"). Ce n'è per tutti, compreso Sandokan che g'ha l'artrite e g'ha el riporto, partiss per Mompracem cul pedalò ("ha l'artrite e il riporto, parte per Mompracem con il pedalò"): "M'hai rotto un mito", chioserebbe un personaggio di Carlo Verdone.
Sembra lo stesso metodo usato da Sergio Caputo al festival del 1987 con Il Garibaldi innamorato, ma anche - fatte le dovute proporzioni (a favore di Van De Sfroos, malignerebbe qualcuno) - da Gabriel García Márquez nel celebre El otoño del patriarca: prendi un uomo potente, trattalo male, descrivilo quando la sua parabola ha definitivamente toccato il punto più basso. Risultato: malinconia dei bei tempi andati.
Per il resto la sfilata delle controfigure. Le più tristi sono quelle dei cantanti che imitano se stessi quando avevano successo: Max Pezzali, rigorosamente con tutti gli accenti delle parole che non coincidono con il ritmo (stile 883 quando vendevano i dischi), Patty Pravo che potrebbe essere scambiata facilmente per una delle sue numerose parodie, Albano Carrisi che continua a interpretare Al Bano che voleva fare il tenore lirico, così come le temporaneamente eliminate Oxa o Tatangelo (figuriamoci se non ne ripescano almeno una), la prima ingabbiata da anni nel suo personaggio, la seconda che propone un brano Bastardo, di cui il titolo sembra essere la cosa più elegante. Per non tralasciare Tricarico che non c'entra niente con il festival ma ci va quasi tutti gli anni, e Vecchioni che forse predica un po' troppo, sarà l'età, ma la zampata del poeta ce l'ha ancora.
Si intravede ogni tanto qualcuno che sa cantare, La Crus con la soprano Susanna Rigacci, e balugina pure qualcuno che era stato annunciato come protagonista, Franco Battiato, che si concede brevemente in duetto con Luca Madonia (in stile "Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?"). Tutto come da copione, insomma. San-remo è fatto così, quando non ci sono canzoni adatte, prendono il sopravvento esauste evocazioni dei brani che hanno avuto meritato successo in passato. Ma non bisogna pensarci troppo e prendere il festival per quello che è. Come dicono in America: "Se la vita ti dà solo limoni, fatti una bella limonata".

giovedì 17 febbraio 2011

BIFFI : L'ALTRO RISORGIMENTO

UN CAPITOLO DAL LIBRO DEL CARDINALE BIFFI
L’UNITA’ D’ITALIA E LA FEDE CATTOLICA

L’appunto più grave però che si può muovere al movimento risorgimentale è di aver sottovalutato il radicamento nell’animo italiano della fede cattolica e la sua quasi consostanzialità con l’identità nazionale.

Le «leggi eversive» Tra le due guerre di indipendenza, la classe politica sabauda si è preparata alla sua storica missione aggregatrice, elaborando tutta una serie di provvedimenti che colpivano pesantemente la realtà e la vita del cattolicesimo. E così dimostrava di non avere alcuna considerazione per il patrimonio ideale che più sostanziosamente accomunava le genti d’Italia, molto eterogenee per il resto. Possiamo intravedere in una visione complessiva il disagio e il conseguente malessere che ci sono stati inflitti. È stato un dramma politico e sociale, per esempio, la fusione precipitosa di due realtà così lontane e disparate come l’area lombardo-piemontese e l’area meridionale. È stato un dramma amministrativo l’improvvisa assimilazione centralizzata delle forme di governo degli antichi Stati. Ma soprattutto è stato un dramma spirituale e morale che a motivare e a condurre il processo unitario fosse un’ideologia deliberatamente antiecclesiale.
Ci si è posti così in conflitto con i sentimenti più profondi del nostro popolo, con le sue tradizioni più radicate, con la più evidente ragione della sua specificità. In tal modo, si sono messe le premesse a una sorta di alienazione degli italiani, che difficilmente sarebbero arrivati a percepire il nuovo Stato come qualcosa di connaturale e di proprio. Privata di una scala di valori sicura e accettata ab immemorabili, la nostra gente ha dato spesso l’impressione di essere senza convinzioni e indifferente di fronte ai doveri verso la collettività. E anche le leggi civili hanno faticato a essere sentite come vincolanti.

Il «potere temporale» o la libertas Ecclesiae È un luogo comune che la causa principale della inimicizia con la Chiesa sia stato il potere temporale dei papi. Questa persuasione - che ha certamente qualche fondamento – ha dato un alibi ideologico all’azione antiecclesiale dei governi del Regno. Ma è tempo di riconoscere che il nocciolo del problema non stava qui. Il conflitto comincia - tra le due guerre di indipendenza - con le leggi eversive del Regno Sardo, dove non c’era ombra di potere temporale. Prosegue poi con l’estensione di quelle leggi all’Italia intera (1866-1867) e con le continue interferenze statali nella vita della Chiesa, soprattutto a proposito della nomina dei vescovi. La ragione primaria della tensione non stava nel principato terreno del Vescovo di Roma - ingombrante eredità della storia, che è stato provvidenziale aver superato - ma nella volontà di attentare alla libertas Ecclesiae.

La Controriforma Un altro luogo comune dell’epoca è che i guai d’Italia e le sue arretratezze derivano dalla Controriforma. È questa la causa - secondo Francesco De Sanctis (che ha fatto scuola) - del decadimento spirituale e morale degli ultimi secoli (e così si spiega anche perché non sia stata riconosciuta la vitalità culturale italiana del Settecento e si continui aimmaginare che non ci sia nella nostra gente alcuna religiosità, se non esteriore e formalistica). In quest’ottica è naturale che si sia enfatizzato il «riscatto» e la «risurrezione» apportati dal movimento risorgimentale. La realtà, come s’è visto, è ben diversa. Casomai si può dire che sfortuna d’Italia è stata che la Controriforma non è riuscita a raggiungere e a trasformare l’intera penisola. Dove ha agito in profondità - per esempio, con la Riforma borromaica (e cioè nel Nord, fino all’Emilia) -la gente è stata davvero educata a superare le antiche propensioni alla furbizia, alla violenza privata, alla passività, al clientelismo, e si è trovata pronta a entrare nella moderna società europea.

Difetto di realismo Si può riconoscere che gli artefici del Risorgimento siano stati animati da ideali oggettivamente nobili e meritevoli di rispetto. Ma, almeno per la questione religiosa, sono stati poco realistici: non hanno saputo o voluto tenere conto del cattolicesimo non come essi desideravano che fosse, ma come è in se stesso; vale a dire un modo originale e completo, e quindi anche sociale, di essere uomini. I più aperti e moderati tra loro erano sì disposti a fare spazio alla religione; ma a una religione che si esprimesse unicamente negli atti di culto, nelle meditazioni intimistiche e nelle opere personali di carità. Ma questo è il cattolicesimo come lo vorrebbero i non cattolici di ogni tempo. Non è la «novità», inconfutabile e rinnovatrice di tutto, che è conseguenza dell’incarnazione del Figlio di Dio.

Uno «storico» un po’ disattento «L’errore del cardinale Biffi - ha scritto impavidamente Giovanni Spadolini - è di confondere il temporalismo col cattolicesimo. Il Risorgimento fu contro il potere temporale [...]. Non fu contro la religione dei padri.. .». Che dire? Parrebbe che qui non ci si ricordi che le multiformi leggi antiecclesiali del 1850 e del 1855 (che nel 1866 verranno poi estese a tutto il Regno d’Italia) sono state elaborate e promulgate in Piemonte, dove non c’era ombra di «potere temporale».

* Arcivescovo emerito di Bologna