Oggi ricorre il centenario di Ronald Reagan, uno dei giganti del XX secolo.
Il sognatore pragmatico che demolì lo status quo
Quando il sole tramonta su Simi Valley, l’ombra del Muro si allunga verso la biblioteca-museo e la tomba di Ronald Reagan, il presidente americano che ha contribuito più di tutti a farlo cadere. Da quando è stata inaugurata nel 1991, la Reagan Library è meta di pellegrinaggi continui, che non si sono interrotti negli anni di Clinton e Bush e proseguono in quelli di Obama. Autobus di anziani nostalgici in gita, insieme a scolaresche alla scoperta del quarantesimo presidente degli Stati Uniti: l’uomo che da Berlino invitò «Mr.Gorbachev» a buttare giù il Muro e ora riposa a pochi metri da una reliquia della Germania Est che sembra una lapide dedicata all’impero sovietico sconfitto.
La popolarità inossidabile di Reagan negli Usa va di pari passo con un acceso dibattito sul suo ruolo storico, portato avanti nei «think tank» e nelle università e destinato a crescere nell’anno del centenario. Una riflessione tutt’altro che accademica e attualissima: il confronto con Reagan è ineludibile per ciascun candidato repubblicano che tenterà di sfidare Barack Obama nel 2012 e anche l’inquilino della Casa Bianca non nasconde di ispirarsi spesso al predecessore degli anni Ottanta. I primi verdetti degli storici, a sette anni dalla morte di Reagan e a 100 dalla nascita, sono spesso sorprendenti per chi – specie in Europa – è rimasto fermo alla caricatura dell’«attore di serie B» prestato alla politica o lo considera un grande comunicatore senza sostanza. Sean Wilentz, uno storico di Princeton con solide credenziali liberal (è considerato l’erede di Arthur Schlesinger), ha pubblicato un libro che cerca di dare una chiave di lettura della fase attraversata dall’America dalla fine degli anni Settanta all’elezione di Obama e già il titolo dice tutto: «L’Età di Reagan». Il presidente repubblicano, per Wilentz, ha segnato l’ultimo scorcio del XX secolo e il suo influsso in politica estera, economia e costume è rimasto decisivo anche in questo esordio di millennio.
Nel bene e nel male, ma per Wilentz più nel bene di quanto non sostengano per esempio i critici della Reaganomics. I 25 anni di continua crescita economica seguiti all’arrivo di Reagan alla Casa Bianca sono stati, secondo questa tesi, un effetto delle scelte economiche reaganiane di cui ha poi beneficiato anche la presidenza di Bill Clinton. «Reagan è stato l’uomo che ha messo fine a un conservatorismo congelato ideologicamente – ha osservato un altro storico, Douglas Brinkley – e lo ha trasformato in un geniale conservatorismo pragmatico», che lo rendeva capace di lavorare bene anche con i rivali politici. Una dote che oggi lo rende più vicino a Obama (o a David Cameron), che non alla generazione di conservatori aggressivi alla Sarah Palin. Se sulla Reaganomics e le scelte di politica interna i giudizi restano contrastanti, in fatto di politica estera c’è più consenso nel considerare positiva l’eredità di Reagan e ancora attuale la sua linea. La pubblicazione dei diari del presidente scomparso e lo studio dei suoi archivi hanno rafforzato l’immagine di un uomo che aveva orrore del potenziale nucleare di Usa e Urss e ottenne risultati enormi sul disarmo. Il presidente «guerrafondaio» che sfidò Mosca in una corsa all’armamento dello spazio – ma solo per sfiancare l’Urss in crisi – alla fine spedì i militari solo a invadere la piccola Grenada, li ritirò dal Libano e sganciò qualche bomba sulla testa dell’allora minaccioso Gheddafi. Quasi un pacifista in confronto alle guerre dei successori George Bush (prima guerra del Golfo), Bill Clinton (Somalia e Kosovo) e George W.Bush (Afghanistan e Iraq). Nei vertici con Gorbachev, invece, Reagan pose le basi per il processo di smantellamento dell’arsenale nucleare che ancora va avanti. Ma ad aver lasciato una traccia indelebile nella storia è stato soprattutto l’approccio inedito che ebbe sul concetto stesso di confronto Est-Ovest. «Reagan – ci spiega da Yale John Lewis Gaddis, uno dei massimi storici della Guerra Fredda – agì con altri “attori” insoliti sullo scenario internazionale come Margaret Thatcher, Giovanni Paolo II, Lech Walesa e Vaclav Havel che avevano in comune il fatto di non condividere l’idea dominante che l’impero sovietico fosse una realtà permanente con la quale occorreva convivere».
Reagan, è la tesi di Gaddis, introdusse un copione nuovo che fece saltare gli schemi precedenti: la «détente» di Nixon-Kissinger, la «Ostpolitik» di Willy Brandt e del cardinale Agostino Casaroli, l’idea insomma di rassegnarsi allo status quo e trarne il meglio. Da convinto sostenitore della superiorità della democrazia rispetto ai regimi comunisti, Reagan cambiò linea lasciando inorriditi i diplomatici, con continue forzature come il celebre discorso in cui bollò l’Urss come «l’Impero del Male». La sua forza, ha ricordato su UsaToday l’ex segretario di Stato reaganiano George Shultz, «fu quella di essere un politico capace di avere una visione d’insieme e un sogno».
http://marcobardazzi.com/blog8/2011/02/06/luomo-che-cambio-la-storia/
leggi anche il bellissimo (ma lunghissimo) articolo di Marco Respinti
sempre sul foglio
http://www.ilfoglio.it/soloqui/7646
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