Quando sono incapaci o perfidi, ciò che accade non di rado, purtroppo non rispondono né dell’incapacità né della perfidia. E quelli bravi, tanti, ne soffrono.
Sorprende la sorpresa del sostituto procuratore Nino Di Matteo che, di fronte all’assoluzione di Giovanni Mercadante, rimasto 12 mesi in carcere e altri 43 agli arresti domiciliari, si chiede come sia potuto accadere: come sia stato possibile cioè che l’ex deputato regionale siciliano di Forza Italia sia stato assolto in Appello, dopo la condanna a 10 anni e 8 mesi rimediata in tribunale. La domanda da porsi, semmai, sarebbe quella opposta: come sia possibile rimanere in “custodia cautelare” per 4 anni e 7 mesi, con un’imputazione pesante come l’associazione mafiosa, per poi ritrovarsi scagionati perché il fatto non sussiste. Ma ognuno si pone gli interrogativi che crede. Anche di fronte a un Mercadante che è un uomo finito, ad appena 63 anni, distrutto da una vicenda in cui uno dei capisaldi dell’accusa, sbandierato – tanto per cambiare – dall’immancabile Massimo Ciancimino, era una storia di corna.
Sorprende la sorpresa nella vicenda Mercadante come in quella che ha riguardato Totò Cuffaro, l’ex presidente della regione condannato per favoreggiamento aggravato di Cosa nostra e in carcere da un mese esatto, per scontare sette anni. La procura, sempre col pm Di Matteo, aveva ottenuto, dopo la prima condanna, un secondo processo per concorso esterno. Ma il Gup ha detto che le accuse e i fatti erano uguali a quelli dell’altro giudizio e lo ha immediatamente prosciolto. Anche in questo caso la sorpresa dell’accusa si tradurrà in un più che probabile ricorso in appello. Perché i processi, nel rito palermitano, non conta vincerli: importa piuttosto che siano interminabili, con indagini che si aprono e si chiudono e si riaprono, per poi richiudersi talvolta alla chetichella e con la segreta speranza di avere un altro spunto per riprenderle al momento opportuno. Chissà.
Indagini spesso inconcludenti quanto infinite. Come quelle sulle stragi di mafia e sulla trattativa, in cui il protagonista principale, a Palermo, è ancora una volta l’ineffabile figlio di Vito Ciancimino. La procura di Caltanissetta, 19 anni dopo l’eccidio di via D’Amelio, sta faticosamente rimettendo in piedi una verità difficile, per anni inquinata da un falso pentito come Vincenzo Scarantino. Tutto questo per tirare fuori dalla galera un gruppo di possibili innocenti, condannati con sentenze definitive come esecutori materiali della strage. Che Scarantino fosse un pentito fasullo non è però una scoperta recente: lui stesso, tra l’altro, aveva provato più volte a ritrattare, dicendo di essersi inventato tutto. Aveva però trovato pubblici ministeri e giudici che avevano creduto solo alle accuse e non alle retromarce e che avevano distribuito, al di là di ogni ragionevole dubbio, ergastoli a pioggia.
Fra coloro che allora rappresentavano l’accusa a Caltanissetta c’era proprio il sostituto Di Matteo. Lo stesso magistrato che oggi, pm di Palermo, crede a Ciancimino e alle sue ricostruzioni, a volte un po’ ardite, per non dire pindariche. Il pool di cui fa parte Di Matteo, guidato da Antonio Ingroia, sta affrontando il fondamentale snodo della presunta trattativa fra mafia e stato, nel 1992-’93, leggendo la strage di via D’Amelio come frutto acido degli accordi tra pezzi di Cosa nostra, pezzi delle istituzioni e l’immancabile Silvio Berlusconi: in altre parole, Di Matteo, ora in compagnia di Ingroia, punta a dimostrare l’esatto contrario di quanto lo stesso Di Matteo aveva sostenuto anni fa a Caltanissetta. Il caso Mercadante fa parte di questo contesto. Di che si stupisce Di Matteo?
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