martedì 1 febbraio 2011

HEREAFTER


Il film di Clint Eastwood che affronta le domande sulla vita e la morte


Che cos’è la morte? Una domanda dura, come le storie che si intrecciano nell’ultima opera firmata dal grande Clint. Prossimo ai suoi 81 anni e già con un film in cantiere per il 2012, Eastwood non smette di porsi - e di porci - domande. Con una vitalità intelligente ed in continuo fermento, mai banale, Clint Eastwood tratta un tema tanto spinoso con brillante delicatezza. Ci aveva già fatto commuovere in The million dollar baby (2004), che valse al film 4 Oscar. Allora affrontò il tema ponendo un quesito assolutamente spinoso - quello dell’eutanasia. Qui lo fa in modo diverso, ma ugualmente emozionante, scandagliando l’universo dell’altrove, senza cadere nella retorica filosofico-esistenziale, ma con uno sguardo limpido quanto risoluto.

Trasparente nel suo modo di raccontare che tanto si avvicina allo stile che fu classico, con la macchina da presa quasi invisibile nei movimenti, fluida, pronta ad assecondare le storie dei personaggi senza esserne d’ingombro. Trasparente anche nell’affermare la tesi del regista, detta in maniera non arrogante, a tratti suggerita come un dato di fatto. Eastwood non impone il suo punto di vista, semplicemente lo propone - aprendo quesiti e spunti di riflessione - raccontando la storia di tre personaggi le cui vite si incrociano tardi nella trama, ma di fatto sono da sempre legate da un filo invisibile. 

Si tratta di Marie (Cècile De France), bella e famosa giornalista francese che, travolta da uno Tsunami, vive l’esperienza della morte per poi tornare in vita. Di Marcus, giovane e fragile londinese con una madre drogata e assente, che in un incidente perde il suo fratello gemello. Infine George (Matt Damon), operaio a San Francisco che lotta per negare il dono più grande che possiede, entrare in contatto con quella dimensione oltre la vita in cui si trovano le persone scomparse. Eastwood non chiama questo mondo “altro” in un alcun modo. Non è il Paradiso, non è l’Inferno. È semplicemente un non luogo in cui non ci sono riferimenti spazio temporali, dove c’è assenza di gravità e si sperimenta un senso di onniscienza. Questo a riprova del fatto che Clint non intende parlare del senso della morte, eludendo qualsiasi implicazione religiosa, bensì della morte stessa.
E lo fa in due modi. Opponendole fortemente, ma non banalmente, la vita, come nel binomio bianco-nero o in quello presenza-assenza. Infine declinandola nelle vite di Marie, Marcus e George. Marie è la forza, la voglia di “esistere” dopo aver sperimentato la morte come privazione dei sensi. È consapevole di aver conosciuto una condizione speciale, quella di transizione tra il qui e un altrove. Marcus si scontra con la morte come perdita, come vuoto incolmabile. Ci si commuove di fronte al disorientamento di questo bambino - bravissimo davanti alla macchina da presa -, alla naturale e umana necessità di ritrovare suo fratello. Quanti di noi, da piccoli, non si sono svegliati nel cuore della notte con il timore buio e assoluto di aver perso qualcuno di caro? Con questo personaggio Clint tocca le corde più intime, vere e sempre attuali dell’umanità. Parla al bambino che ciascuno di noi è ancora e ci chiede di guardare con la sua stessa ingenuità - e in quanto tale pura - alla morte.

Un richiamo ad Epicuro è d’obbligo, ma mentre il filosofo pretendeva di eludere il problema affermando che non si deve avere paura della morte perché quando ci siamo noi non c’è lei e viceversa, Eastwood pone la questione da un altro punto di vista, quello di chi resta e che ha bisogno di un ultimo saluto, di ascoltare parole che non si è fatto in tempo a dire. In tal senso George è l’anello di congiunzione tra le due dimensioni, morte come condivisione da parte sua delle vite passate di chi si siede davanti a lui e chiede risposte. Anche se non sempre, come dice lui, è bene conoscere tutto. Sapere può generare più dolore, soprattutto se non si è pronti a ricevere la verità.

È con estrema dolcezza che Eastwood ci parla del loro comune dolore - per la prima volta un film corale - e gli effetti speciali che irrompono nelle prime sequenze non frammentano lo stile, ma servono a potenziare la crudezza della realtà. Dolore, da una parte, e bisogno di condivisione dall’altra. Sono questi due sentimenti che uniscono le vite di Marie, Marcus e George prima ancora che si incontrino, regalando allo spettatore, grazie anche alle sincere e belle interpretazioni degli attori, un film da non perdere.

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