L'Italia che manifesta contro il sultano è la stessa,
ma negli anni Settanta, almeno, qualche antidoto
alla sciocchezza pomposa l’avevano
Per le scuse a Maria Schneider è decisamente tardi, possiamo solo sperare che la defunta provveda a qualche dispettuccio (tirare le coperte nel mezzo della notte, far cigolare porte, smuovere tendaggi suggerendo la presenza di un fantasma incazzato). A proposito, com’è che in Italia non si trova un solo giornalista che, davanti al Maestro dell’Erotismo Funereo (in senso stretto, nella stanza accanto giace una moglie morta troppo truccata, e in senso lato, vista la desolante tristezza lubrificata dal burro), osi chiedere: “Bertolucci, ma sono passati quarant’anni, Maria Schneider ha riempito le cronache con la sua scontentezza di attrice inchiodata a un brutto ruolo, possibile che solo quando l’hanno già sepolta al Père-Lachaise arrivino i ripensamenti e il rammarico per l’abbraccio mai dato?”.
Per le scuse a noi spettatori siamo ancora in tempo. Davvero non sembra possibile che un film tanto noioso, ideologico, fintamente cerebrale, inzuppato di intellettualismo che nobilita il sesso pecoreccio, sia stato preso per un capolavoro dell’arte cinematografica. Rivisto oggi – anzi, già rivisto quando finalmente lo diedero in televisione e l’Italia si fermò, come neanche davanti alle prediche di “Vieni via con me” – “Ultimo tango a Parigi” non si regge senza sbadigli e un filo di irritazione. A cominciare dall’ordine, reiterato: “Vai a prendere il burro in cucina”. “Alza le chiappe e vacci tu”, avrebbe risposto a Marlon Brando qualsiasi femmina di buon senso, risparmiandosi oltre al resto una litania sulla famiglia che uccide la sincerità dei piccini insegnando loro a mentire.
Avete capito bene: l’Italia antropologicamente superiore qualche decennio fa applaudiva estasiata la scena del burro, sfuggita alle maglie della censura e al rogo oscurantista (e chissenefrega se la Schneider disse: “Non era nella sceneggiatura, fu violenza, le lacrime che si vedono sono vere”). La stessa Italia antropologicamente superiore il 13 febbraio scenderà in piazza in difesa del corpo femminile e della sua dignità, insidiata dall’orribile sultano. Con uno slogan – “Se non ora, quando?” – rubato a Primo Levi (che speriamo non perdonerà) e un ufficio stampa che da giorni ci tempesta di mail, neanche dovessimo combattere contro Mubarak in Egitto.
Se avessimo tempo, verrebbe da scriverci un libro. Giusto per capire il momento esatto in cui il sessantenne un po’ sfatto che di pomeriggio nella sala da tango riceve sollazzo dalla ventenne (con tanto di fazzolettino che pulisce la manina santa) è passato da icona della trasgressione a squallido ritratto del maschio bavoso. In allegato, la scena originale del film e la geniale parodia che ne fece Franco Franchi in “Ultimo tango a Zagarolo”, stesso cappotto di cammello, stesso maglione rosso, e stesso panetto avvolto nella stagnola. Gli anni Settanta, almeno, qualche antidoto alla sciocchezza pomposa l’avevano. Gli anni Dieci ne sembrano del tutto sprovvisti.
Per le scuse a noi spettatori siamo ancora in tempo. Davvero non sembra possibile che un film tanto noioso, ideologico, fintamente cerebrale, inzuppato di intellettualismo che nobilita il sesso pecoreccio, sia stato preso per un capolavoro dell’arte cinematografica. Rivisto oggi – anzi, già rivisto quando finalmente lo diedero in televisione e l’Italia si fermò, come neanche davanti alle prediche di “Vieni via con me” – “Ultimo tango a Parigi” non si regge senza sbadigli e un filo di irritazione. A cominciare dall’ordine, reiterato: “Vai a prendere il burro in cucina”. “Alza le chiappe e vacci tu”, avrebbe risposto a Marlon Brando qualsiasi femmina di buon senso, risparmiandosi oltre al resto una litania sulla famiglia che uccide la sincerità dei piccini insegnando loro a mentire.
Avete capito bene: l’Italia antropologicamente superiore qualche decennio fa applaudiva estasiata la scena del burro, sfuggita alle maglie della censura e al rogo oscurantista (e chissenefrega se la Schneider disse: “Non era nella sceneggiatura, fu violenza, le lacrime che si vedono sono vere”). La stessa Italia antropologicamente superiore il 13 febbraio scenderà in piazza in difesa del corpo femminile e della sua dignità, insidiata dall’orribile sultano. Con uno slogan – “Se non ora, quando?” – rubato a Primo Levi (che speriamo non perdonerà) e un ufficio stampa che da giorni ci tempesta di mail, neanche dovessimo combattere contro Mubarak in Egitto.
Se avessimo tempo, verrebbe da scriverci un libro. Giusto per capire il momento esatto in cui il sessantenne un po’ sfatto che di pomeriggio nella sala da tango riceve sollazzo dalla ventenne (con tanto di fazzolettino che pulisce la manina santa) è passato da icona della trasgressione a squallido ritratto del maschio bavoso. In allegato, la scena originale del film e la geniale parodia che ne fece Franco Franchi in “Ultimo tango a Zagarolo”, stesso cappotto di cammello, stesso maglione rosso, e stesso panetto avvolto nella stagnola. Gli anni Settanta, almeno, qualche antidoto alla sciocchezza pomposa l’avevano. Gli anni Dieci ne sembrano del tutto sprovvisti.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
http://www.ilfoglio.it/soloqui/7637
leggi anche, se hai un pò di tempo, anche Annalena Benini
http://www.ilfoglio.it/soloqui/7638
leggi anche, se hai un pò di tempo, anche Annalena Benini
http://www.ilfoglio.it/soloqui/7638
Nessun commento:
Posta un commento