martedì 30 aprile 2013

LE RAGIONI DI MARTINA


massimo gramellini

Le ragioni dell’odio sono state analizzate a sufficienza. Mi sposterei dall’altra parte del campo, dove abitano le ragioni di Martina.
Martina ha ventitré anni e soltanto tre mesi fa ha perso la madre. Si è licenziata per stare accanto al papà carabiniere, che nel tentativo di farle coraggio le diceva: «Siamo un piccolo esercito sgangherato, noi due, ma ce la faremo». Adesso l’esercito è diventato ancora più piccolo. L’esercito è lei, china sul padre intubato in ospedale che la guarda e muove le palpebre, cerca addirittura di parlarle, ma non può. Chissà se vivrà, chissà come vivrà. Le pallottole del pistolero di Palazzo Chigi gli hanno danneggiato il midollo spinale.

Martina potrebbe inveire o perdonare, per i guardoni del dolore sarebbe la stessa cosa. A loro non interessa la qualità della reazione, ma la sua intensità: superficiale e isterica. Invece la figlia del carabiniere sceglie la strada più dura e più vera: accettare. Tutto, anche l’inaccettabile. «Se riesci a contemplare le cose cui hai dedicato la vita, infrante, e piegarti a ricostruirle con i tuoi arnesi ormai logori». La poesia di Kipling al figlio rivive nella voce gonfia di questa giovane adulta: «Ho perso un’altra volta il lavoro per seguire mio padre. Tutti i miei progetti sono di nuovo saltati. Pazienza. Si ricomincia. Si rifà un altro piano, un’altra speranza, altri obiettivi». Senza saperlo Martina ha dettato il programma di governo delle nostre vite per gli anni a venire. Le do di tutto cuore la mia fiducia.
da Lastampa on line

DIVENTEREMO TUTTI BERLUSCONIANI?


 Il Cavaliere non fa parte del governo Letta ma la sua presenza è tangibile: incombe di nuovo sulla politica italiana. E il Pd sembra incapace di liberarsi di questa eredità, anche perché non è riuscito ad affermare una propria identità

di ILVO DIAMANTI


Diventeremo tutti berlusconiani? Difficile non chiederselo, mentre assistiamo all'avvio del nuovo governo, che oggi otterrà la fiducia. Berlusconi non ne fa parte. Ma la sua presenza è visibile. Attraverso i ministri della sua "parte". Per primo, il fedele Angelino Alfano. D'altronde, questo governo rispecchia la prospettiva che egli stesso aveva auspicato e perseguito, fin dai giorni successivi al voto.

Una maggioranza di "larghe intese", che istituzionalizzasse l'alleanza costruita da Napolitano intorno a Monti e ai tecnici, nel novembre 2011. Oggi quella maggioranza si ripropone, per iniziativa, ancora, del Presidente. Ma si tratta di un governo "politico", per quanto spinto (come nel 2011) dall'emergenza. Alla guida Enrico Letta, leader del Pd. Con il sostegno determinante del Pdl. Oggi, di nuovo il primo partito in Italia, secondo i sondaggi. Mentre il Pd è in caduta. Sceso al di sotto del 25% (secondo Ipsos). Se si votasse presto, il centrodestra "rischierebbe" di conquistare la maggioranza in entrambe le Camere, anche con questa orribile legge elettorale.

Berlusconi, dunque, incombe di nuovo, sulla politica italiana. Come avviene da vent'anni. Eppure sei mesi fa, appena, tutti davano la sua avventura politica praticamente conclusa. I suoi stessi leader (si fa per dire, perché nel centrodestra il leader è uno solo) l'avevano abbandonato. Invocavano le primarie del centrodestra. E si guardavano intorno, alla ricerca di una via di fuga. Io stesso consideravo il "berlusconismo", il modello politico e culturale imposto da Berlusconi, in declino. Non ho cambiato idea. Il berlusconismo interpreta il mito dell'imprenditore del Nord che si è fatto da sé. La promessa del successo possibile per tutti. Narrata attraverso i media e la "sua" televisione. È il "sogno italiano" negli anni della crescita e del benessere. Che egli ha rappresentato anche mentre declinava, negli anni Duemila. Quell'epoca è finita. Arcore e le sue ville in Sardegna non possono più disegnare l'ambiente della sua fiction. E l'immagine degli imprenditori, oggi, non è più associata al "miracolo" economico degli anni Ottanta e Novanta. Ma al dramma del suicidio per disperazione.
Anche il "partito personale", l'invenzione del Cavaliere: da Forza Italia al Pdl, dopo il 2008 ha iniziato a perdere consensi. Dieci anni, o quasi, di governo e di declino economico e sociale ne hanno ridimensionato il consenso. Così alle elezioni recenti il Pdl ha perduto circa 6.300.000 elettori. E si è ridotto a circa metà, rispetto al 2008.
Eppure Berlusconi non è finito. È sopravvissuto al berlusconismo. Meglio dei suoi stessi antagonisti. Oggi in profonda crisi, assai più di lui.

Com'è avvenuto? E perché?

Quanto al "come", direi che Berlusconi ha perso le elezioni ma ha vinto il dopo-elezioni. Perché il Pd, guidato da Bersani, il vincitore predestinato con largo anticipo, in effetti, non ha vinto. Ma ha cercato di agire da vincitore. Come se avesse vinto. Per quasi un mese, ha inseguito il progetto di un governo improbabile. Insieme al M5S di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. I quali non possono governare con i "nemici". I principali partiti della Seconda Repubblica. Dopo aver condotto una campagna elettorale contro di loro. Il Pdl e il Pd senza "l". Non possono. Perché un terzo dei loro elettori provengono da centrodestra e un terzo da centrosinistra. Qualunque scelta, per il M5S, sarebbe lacerante. Per cui ha condotto, sin qui, una guerra di logoramento. Avvicinandosi al Pd, per poi respingerlo. In diretta streaming. Visto che il suo governo ideale è proprio questo. Le "larghe intese" fra i "nemici". Contro cui mobilitarsi. Dentro e fuori il Parlamento. Almeno per ora. Fino a quando, cioè, una parte dei suoi elettori non comincerà a interrogarsi circa l'utilità del proprio voto. Com'è avvenuto in Friuli Venezia Giulia, alle recenti elezioni regionali.

Così Berlusconi, è divenuto, di giorno in giorno, più ineludibile. Impossibile cancellarlo dall'orizzonte politico, per il Pd. Il non-vincitore costretto ad agire "come se" lo fosse. "Come se" potesse decidere con chi governare. Mentre, di giorno in giorno, il ruolo di Berlusconi cresceva. Mentre Berlusconi poteva permettersi atteggiamenti da leader responsabile. Pronto a fare la propria parte. Fino al punto di concedere alla "sinistra" tutte le presidenze. Della Camera e del Senato. Perfino la presidenza della Repubblica (Napolitano non ha mica una storia di destra...). E, infine, la presidenza del Consiglio.

Per il Bene del Paese.

Così Berlusconi ha vinto il dopo-elezioni. E il centrosinistra l'ha perso. Anche se ha ottenuto tutte le cariche più importanti. Perché ha dovuto "arrendersi" al suo avversario storico. Il Pd: per la prima volta, ha formato una maggioranza "politica" con gli uomini del Pdl. Cioè, di Berlusconi. Certo, Enrico Letta ha scelto ministri giovani. Molte donne. Un po' di tecnici di valore. Un po' di politici di nuova generazione. Ma, insomma, lui, Silvio: incombe. E per il Pd conta quanto - e forse più - che per il Pdl. Perché Berlusconi è, ancora oggi, il leader verso cui gli elettori del Pd nutrono maggiore sfiducia: 94%.

La sfiducia verso Berlusconi, l'anti-berlusconismo: sono un marchio impresso nell'identità del centrosinistra fin dalle origini della Seconda Repubblica. Il centrosinistra. Condannato, da Berlusconi, a rimanere comunista. Dopo la caduta del muro e la fine del comunismo. Condannato a restare antiberlusconiano, anche dopo la fine del berlusconismo. Oggi sembra incapace di liberarsi da questa eredità.

Anche e soprattutto perché il Pd non è mai riuscito ad affermare una propria, specifica, identità. È un partito né-né. Né socialdemocratico né popolare. Semmai post. Dove coabitano, senza amore, postcomunisti e postdemocristiani (di sinistra). Un partito im-personale. Che utilizza le primarie per selezionare leader poco carismatici e lasciar fuori quelli più pop (olari). Un "partito ipotetico", ha scritto Eddy Berselli nel 2008. Rassegnato a perdere, anche quando vince - o quasi. Perché coltiva il mito della sconfitta - e dell'opposizione. In fondo, anche Berlusconi, per il Pd e la Sinistra, è un mito. Negativo, ma non importa. Perché i miti, si sa, non muoiono. Per non morire berlusconiani, dunque, non c'è alternativa. Occorre costruire un'alternativa: "senza" Berlusconi. "Oltre" Berlusconi. Solo a questa condizione è possibile sopravvivere a Berlusconi. Il Pd, per questo, deve cambiare in fretta. Individuare e comunicare una propria, specifica identità. Con poche parole e una leadership forte. Prima delle prossime elezioni. Non gli resta molto tempo.

(29 aprile 2013
DA Repubblica on line

IL NUOVO GOVERNO

ASSUNTINA MORRESI


Se il 23 febbraio scorso, alla vigilia delle elezioni, quando ero psicologicamente pronta e rassegnata alla sinistra al governo, mi avessero fatto vedere la squadra messa insieme oggi da Enrico Letta, non ci avrei creduto.

Onestamente pare un buon governo, considerate le premesse. O almeno ha tutte le carte in regola per esserlo. Diciamo che è quanto di più simile a un monocolore democristiano (con tutte le correnti rappresentate) con qualche innesto esterno.

Innanzitutto – questo è quello che più mi interessa – nel parlamento meno cattolico della storia repubblicana abbiamo il governo più cattolico che potessimo sperare (sempre considerando come eravamo partiti). Per come era cominciata la campagna elettorale, con il Pd che marciava vittorioso e il PdL abbastanza acciaccato, è un traguardo insperato.

Certo, la nuova ministra delle pari opportunità si è già pronunciata a favore del matrimonio omosessuale, che però nessuno si sogna di mettere sul piatto in un governo come questo, e d’altra parte già adesso “grazie” alla Fornero vediamo in TV una pubblicità contro l’omofobia che – per usare un eufemismo – lascia molto a desiderare. La Bonino sta nell’unico ministero in cui può fare pochi danni (immaginatela alla Salute o alle pari opportunità): per lo meno è filoamericana e pro-Israele. Il Pd è riuscito nel capolavoro di non dare praticamente nessun dicastero ai big di partito: tranne Franceschini, sono tutti al palo. Considerando che hanno dato via le Presidenze di Camera e Senato a due esterni al partito (la Boldrini era con SEL, e Grasso, pur in lista con il Pd, non è certo uno cresciuto dentro il partito ) nell’illusione di ammorbidire Grillo, il loro bilancio è disastroso.

Il PdL ha messo buone personalità: un bel ricambio generazionale. I maligni già dicono che non essendoci i “big” del partito, Berlusconi potrà attaccarli e andare presto alle elezioni, affossando questi che hanno quasi tutti aderito a “Italia Popolare”, che volevano le primarie per Alfano e che sono stati spiazzati dal ritorno in campo di Berlusconi. Io credo invece che se il berlusconismo e il centrodestra avranno un futuro oltre Berlusconi, non sarà certo per la Brambilla, per Bondi, per Capezzone o la Santanchè, tanto per fare qualche nome, cioè non sarà per i cosiddetti “falchi” del PdL. E’ più facile che il futuro del centro destra sia intorno a gente come questa che adesso è andata al governo, e che potrà attirare quel che resta di Scelta Civica.
Insomma: pericolo scampato. Almeno per ora. .

25 APRILE LIBERARE LA MEMORIA DALLA GABBIA DELL'IDEOLOGIA


Mentre si festeggia il consueto e logoro 25 aprile Beppe Grillo dal suo blog tuona: “Se i partigiani tornassero tra noi si metterebbero a piangere”.

Forse è utile anche per Grillo ricordare un poco tutta la storia della Resistenza, dei partigiani comunisti e quindi del Partito Comunista Italiano. E' un lavoro che sta facendo bene il noto giornalista Giampaolo Pansa con i suoi libri sulla guerra civile, ormai diventati bestseller. Ho in mano “I vinti non dimenticano”, pubblicato da Rizzoli nell'ottobre del 2010 e proprio nella Nota al lettore, l'autore suggerisce “come celebrare il 25 aprile”.

Pansa anticipa subito che intende occuparsi proprio dei vinti, dei fascisti, perché ormai per oltre sessant'anni, si è parlato e si è scritto moltissimo, dei morti appartenenti alla cosiddetta Resistenza. E' un dato di fatto che la cultura dominante, quella dei vincitori, ha ordinato che dei vinti non si deve parlare, non si deve scrivere nulla, non si devono ricordare. Invece Pansa con i suoi libri, insiste a ricordarli. Anche in questo testo il giornalista di Casale Monferrato si avvale di Livia Bianchi, la bibliotecaria di Firenze che l'aveva accompagnato nel viaggio per scrivere “Il sangue dei vinti”.

Il testo prima di passare a narrare le varie storie, a cominciare delle “ricamatrici di Arcevia” di cui sono rimasti vittime uomini e donne che non appartengono al movimento partigiano, il testo segnala ai lettori che cosa è stato il vertice politico e militare del vincitore della guerra civile: il Partito comunista italiano.

Per anni le sue fortune dipendono dall'aiuto di Mosca. Ci sono dirigenti che si sono addestrati politicamente e militarmente nelle università riservate a loro a Mosca. Dirigenti che poi hanno avuto il loro “battesimo del fuoco” nella guerra civile di Spagna contro il nazionalismo fascista di Franco. Dopo la sconfitta in Spagna li ritroviamo in Italia e qui vogliono ad ogni costo la rivincita. Sono gli “spagnoli” a formare il primo nucleo delle Brigate Garibaldi, al comando di Longo e del commissario politico Pietro Secchia. Dopo l'8 settembre 1943, i comunisti sono gli unici in grado di muoversi subito. Gli altri gruppi del Cln saranno sempre dei comprimari, anche se emergono dei partigiani significativi come Aldo Castoldi, il leggendario Bisagno.

Il Pci, secondo Pansa, in pratica sa cosa fare, e lo racconta in due capitoli del libro: “decide che bisogna uccidere subito il maggior numero di fascisti, soprattutto quelli di terza e quarta fila, i più indifesi. Senza preoccuparsi delle rappresaglie, vale a dire delle fucilazioni decise dai comandi della Rsi. I capi comunisti, a cominciare da Longo e Secchia, sono rivoluzionari che conoscono sino in fondo l'importanza del cinismo. E pensano: più brutale sarà la reazione dei fascisti di fronte agli omicidi compiuti dai Gap, più la guerra civile si estenderà. E' una previsione azzeccata, che farà scorrere fiumi di sangue”.

giovedì 25 aprile 2013

STORIA DI UN ORTOLANO

VACLAV HAVEL IL POTERE DEI SENZA POTERE

Il direttore di un negozio di frutta e verdura mette in vetrina, fra le cipolle e le carote, un’insegna con lo slogan “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”. Perché lo fa? Cosa cerca di comunicare al mondo? È veramente eccitato dall’idea di un’unione tra i lavoratori di tutto il mondo? Il suo entusiasmo è così grande che sente l’insopprimibile impulso di comunicare pubblicamente i suoi ideali? Si è davvero fermato un momento a pensare come una tale unificazione potrebbe verificarsi e che cosa significherebbe?»

«Penso che si possa tranquillamente presumere che la stragrande maggioranza dei commercianti non pensi mai agli slogan appesi nella loro vetrina, né che li utilizzino per esprimere le loro reali opinioni. Le insegne vengono consegnate al nostro ortolano dall’azienda, insieme alle cipolle e alle carote. Le ha messe tutte in vetrina semplicemente perché è stato fatto in questo modo per anni, perché lo fanno tutti, e perché questo è il modo in cui si deve fare. Se rifiutasse, potrebbe avere dei problemi. Potrebbe essere rimproverato per non aver ottemperato alla decorazione della sua vetrina; qualcuno potrebbe addirittura accusarlo di slealtà. Lo fa perché queste cose devono essere fatte se uno non vuole avere problemi nella vita. Si tratta di una delle migliaia di minuzie che gli garantiscono una vita relativamente tranquilla, “in armonia con la società”, come si suol dire».

«L’ortolano ovviamente non mette lo slogan in vetrina perché senta il desiderio di far conoscere al pubblico l’ideale che esprime. Questo, però, non significa che la sua azione non abbia alcun motivo o significato, o che lo slogan non comunichi nulla a nessuno. Lo slogan è veramente un segno e, come tale, esso contiene un messaggio subliminale, ma molto preciso. Verbalmente, potrebbe essere espresso così: “Io, l’ortolano XY, vivo qui e so che cosa devo fare. Mi comporto nella maniera che ci si aspetta da me. Sono affidabile e del tutto irreprensibile. Obbedisco e quindi ho il diritto di essere lasciato in pace”. Questo messaggio, ovviamente, ha un destinatario: esso è diretto in primo luogo ai superiori dell’ortolano, e allo stesso tempo è uno scudo che protegge l’ortolano da parte dei potenziali informatori. Il vero significato dello slogan, quindi, è fermamente radicato nell’esistenza dell’ortolano. Riflette i suoi interessi vitali. Ma quali sono questi interessi vitali?»

«Prendiamo nota: se l’ortolano fosse stato incaricato di esporre lo slogan “Ho paura e pertanto obbedisco senza fare domande”, non sarebbe quasi indifferente alla sua semantica, nonostante una tale dichiarazione rifletta la pura verità. L’ortolano sarebbe in imbarazzo e si vergognerebbe a mettere una tale dichiarazione inequivocabile del suo degrado in vetrina, e ovviamente è così perché egli è un essere umano e, quindi, ha un senso della propria dignità. Per superare questa complicazione, la sua espressione di lealtà deve assumere la forma di un segno che, almeno sulla sua superficie testuale, indica un livello di convinzione disinteressato. L’ortolano deve poter dire: “Che cosa c’è di sbagliato con i proletari del mondo che si uniscono?” Così il segno aiuta l’ortolano a nascondere a se stesso i bassi fondamenti della sua obbedienza, e nello stesso tempo il basso fondamento del potere al quale obbedisce. Si nasconde dietro la facciata di qualcosa di elevato. E questo qualcosa è l’ideologia».

«L’ideologia è un modo falso di rapportarsi al mondo. Offre agli esseri umani l’illusione di una identità, una dignità e una moralità, rendendo più facile al contempo separarsene. In quanto imitazione di qualcosa di sovrapersonale e disinteressato, essa permette alle persone di ingannare la propria coscienza e di nascondere la loro vera posizione, e il loro inglorioso modus vivendi, sia al mondo che a loro stessi. Si tratta di un velo dietro il quale gli esseri umani possono nascondere le loro esistenza fallita, la loro banalità, e il loro adattamento allo status quo. Si tratta di un alibi che tutti possono usare, dall’ortolano, che nasconde la paura di perdere il suo posto di lavoro dietro un presunto interesse per l’unificazione dei lavoratori del mondo, al più alto funzionario, il cui interesse per restare al potere può essere avvolto in frasi circa il servizio alla classe operaia. La funzione primaria dell’ideologia, quindi, è quello di fornire alle persone, sia come vittime che come pilastri del sistema, l’illusione che il sistema è in armonia con l’uomo e con l’ordine dell’universo».

«Il sistema tocca le persone ad ogni passo, ma lo fa con i guanti dell’ideologia. Questo è il motivo per cui la vita nel sistema è talmente permeata a fondo con ipocrisia e bugie: la burocrazia di governo è chiamato governo popolare; la classe operaia è schiava in nome della classe operaia; la completa degradazione dei singoli è presentata come la sua definitiva liberazione; celare le informazioni è chiamato divulgazione; la manipolazione autoritaria è chiamata controllo pubblico del potere, l’arbitrarietà e l’abuso di potere sono chiamate stretta osservazione del codice giuridico; la repressione della cultura è chiamata il suo sviluppo; l’espansione dell’influenza imperialistica è presentata come supporto per gli oppressi, la mancanza di libertà di espressione diventa la più alta forma di libertà; le elezioni-farsa diventano la più alta forma di democrazia; il divieto di pensiero indipendente diventa la più scientifica delle visioni del mondo; l’occupazione militare diventa fraterna assistenza. Poiché il regime è vincolato alle proprie menzogne, si deve falsificare tutto. Si falsifica il passato, il presente, e il futuro. Si falsificano le statistiche. Si finge di non possedere un onnipotente apparato di polizia capace di tutto. Si finge di rispettare i diritti umani. Si finge di non perseguitare nessuno. Si finge di non temere niente. Si finge di non fingere».

«Perché il nostro ortolano ha dovuto addirittura mettere in vetrina la sua professione di fedeltà? Non lo aveva già fatto sufficientemente in vari modi? Alle riunioni sindacali, dopo tutto, ha sempre votato come dovrebbe. Ha sempre votato alle elezioni come ogni buon cittadino. Perché, dopo tutto questo, deve ancora dichiarare pubblicamente la sua fedeltà? In fondo le persone che oltrepassano a piedi la sua vetrina di certo non si soffermano a leggere che, nel parere dell’ortolano, i lavoratori del mondo dovrebbero unirsi. Il fatto è che non leggono affatto lo slogan, e si può persino assumere non lo vedono neanche. Se si chiedesse a una donna che si è fermata davanti al suo negozio ciò che ha visto in vetrina, potrebbe certamente dire se c’erano o non c’erano pomodori oggi, ma è altamente improbabile che abbia notato la presenza dello slogan, per non parlare di ciò che vi era scritto».

«Sembra un’assurdità richiedere all’ortolano di dichiarare pubblicamente la sua fedeltà. Ma ha senso comunque. Le persone ignorano il suo slogan, ma lo fanno perché tali slogan si trovano anche in altre vetrine, su lampioni, bacheche, in finestre d’appartamento e sugli edifici: in effetti sono ovunque. Naturalmente, mentre si ignorano i dettagli, le persone sono molto consapevoli di questo panorama nel suo complesso. E che cos’altro è lo slogan dell’ortolano se non un piccolo componente di questo enorme sfondo alla vita quotidiana?»

«L’ortolano ha dovuto mettere lo slogan nella sua vetrina, quindi, non nella speranza che qualcuno possa leggerlo ed esserne persuaso, ma per contribuire, insieme con migliaia di altri slogan, al panorama che tutti conoscono bene. Questo panorama, naturalmente, ha un significato subliminale ulteriore: quello di ricordare alle persone dove vivono e che cosa ci si aspetta da loro. Dice loro ciò che tutti gli altri stanno facendo, e indica ciò che devono fare, se non vogliono essere esclusi, isolati, allontanati dalla società, rompere le regole del gioco col rischio della perdita della pace, tranquillità e sicurezza».

«Ora immaginiamo che un giorno qualcosa nel nostro ortolano scatti e che la smetta di esporre il suo slogan solo perché gli fa comodo. La smette di votare a delle elezioni che riconosce come una farsa. Comincia a dire ciò che pensa veramente alle riunioni politiche. E trova anche la forza dentro di sé per esprimere solidarietà a coloro che la sua coscienza gli comanda di sostenere. In questa rivolta l’ortolano smette di vivere all’interno della menzogna. Egli respinge il rituale e spezza le regole del gioco. Egli scopre nuovamente la sua identità e dignità soppresse. Dà alla sua libertà un concreto significato. La sua rivolta è un tentativo di vivere nella verità».

«La resa dei conti non tarderà ad arrivare. Sarà esonerato dal suo posto come direttore del negozio e trasferito al deposito. La sua retribuzione sarà ridotta. Le sue speranze per una vacanza in Bulgaria evaporeranno. L’accesso all’istruzione superiore per i suoi figli sarà minacciato. I suoi superiori lo molesteranno in continuazione e i suoi compagni di lavoro si faranno domande sul suo conto. La maggior parte di coloro che applicano tali sanzioni, tuttavia, non lo farà spinto da qualche interiore convinzione, ma semplicemente sotto la pressione di certe condizioni: le stesse condizioni che una volta spingevano l’ortolano ad esporre gli slogan ufficiali. Essi perseguiteranno l’ortolano perché è quello che ci aspetta da loro, per dimostrare la loro lealtà, o semplicemente come parte del panorama generale, al quale appartiene la consapevolezza che questo è il modo in cui situazioni di questo tipo sono trattate, che questo, di fatto, è come le cose sono sempre state fatte, soprattutto se non vogliono diventare sospetti a loro volta».

«Così la struttura del potere, attraverso il comportamento di coloro che effettuano le sanzioni, quelle anonime componenti del sistema, espelle da sé l’ortolano. Sarà lo stesso sistema a punirlo per la sua ribellione, attraverso la sua presenza alienante nelle altre persone. Ed è obbligato a farlo, in modo automatico, per auto-difesa. L’ortolano non ha commesso una semplice, individuale infrazione, isolata nella sua unicità, ma qualcosa di incomparabilmente più grave. Ha infranto le regole del gioco, ha interrotto il gioco in quanto tale. Lo ha esposto come un semplice gioco. Egli ha frantumato il mondo delle apparenze, il pilastro fondamentale del sistema. Egli ha sconvolto la struttura di potere lacerando ciò che lo tiene insieme. Egli ha detto che il re è nudo. E poiché il re in effetti è nudo, qualcosa di estremamente pericoloso è accaduto: con la sua azione, l’ortolano ha affrontato il mondo. Egli ha permesso a tutti di scrutare dietro le quinte. Egli ha dimostrato a tutti che è possibile vivere nella verità. Infatti vivere all’interno della menzogna può fungere da pilastro del sistema solo se la menzogna è universale. Il principio deve permeare e abbracciare tutto».

 da Cseo Outprint 1, pag.12 e segg.

mercoledì 24 aprile 2013

LE MARIAGE GAY


La democratica, la illuminista, la progressista, la razionalista Francia, dopo aver dato asilo a terroristi e assassini di ogni genere, sbatte in galera chi manifesta per difendere il matrimonio naturale.

E’ davvero “una vittoria dell’uguaglianza”, per usare le parole più abusate in queste ore, il “mariage pour tous” tra persone dello stesso sesso, approvato ieri dal Parlamento francese con 331 voti contro 225? In un paese attraversato da una mobilitazione contraria – che non ha alcuna intenzione di smobilitare, e che nessuno si sarebbe aspettato così convinta, larga e trasversale – le nozze gay alla francese hanno clamorosamente mancato l’obiettivo di far dimenticare le altre promesse elettorali che il presidente Hollande è al momento impossibilitato a onorare. Il risultato è una legge che nega la realtà mentre spacca il paese, nel momento in cui accorda la qualità di matrimonio, e quindi la possibilità di adozione, all’unione tra due persone dello stesso sesso. La Francia, tra i primi paesi al mondo, si è dotata di una legge sui patti civili di convivenza aperti a chiunque.

Restava però da soddisfare la possibilità di adottare, cioè di far passare per plausibile la finzione per la quale due uomini e due donne possono “avere” un figlio insieme. Aver voluto insistere su questa strada, senza accettare di consultare davvero i francesi, se ha portato all’ovvio risultato dell’approvazione (resa possibile per via della preponderanza socialista in Parlamento), non ha impedito che tra i francesi diventasse maggioritaria l’ostilità alla legge per quanto riguarda gli aspetti legati alla filiazione. E l’aver voluto ignorare proteste che trovano pochi precedenti nella storia recente della Francia, fa crescere la sensazione che il prezzo politico di quella sedicente “vittoria dell’uguaglianza” potrebbero prima o poi ritrovarselo a carico i “vincitori” di oggi.

IL SOSPETTO UNIVERSALE


SE OGNI ACCORDO È UN INCIUCIO

«L'inciucio!». Molti italiani si stanno ormai abituando a giudicare la politica nell'ottica di quest'unica categoria demonizzante, e quindi a vedere le cose e gli uomini della scena pubblica del loro Paese in una sola luce: quella del sospetto universale.

La prima caratteristica della categoria dell' inciucio , quella che la rende così facilmente utilizzabile, è la sua indeterminatezza. L' inciucio, infatti, come insegnano i suoi denunciatori di professione, si annida dovunque. Potenzialmente esso riguarda tutto e tutti. Può consistere nella sentenza di un tribunale, in un articolo di giornale, nella decisione di qualunque autorità, in una trasmissione televisiva, in tutto. Ma soprattutto è inciucio la trattativa, l'accordo, il compromesso espliciti, così come pure - anzi in special modo! - l'intesa tacita che su una determinata questione si stabilisce per così dire spontaneamente tra gli attori politici di parti diverse. Tanto più che perché di inciucio si possa accusare qualcuno non c'è bisogno di alcuna prova. Per definizione, infatti, l' inciucio si svolge nell'ombra, al riparo da occhi indiscreti. E dunque, paradossalmente, proprio la circostanza che di esso non si abbiano tracce visibili diviene la massima prova della sua esistenza. In questo senso la categoria d' inciucio , nella sua indeterminatezza e nella sua indimostrabilità, costituisce una sorta di versione in tono minore di un'altra ben nota categoria, da decenni ai vertici dei gusti del grande pubblico: la categoria dei «misteri d'Italia» con la connessa tematica del «grande complotto». Ogni vero inciucio , infatti, contiene inevitabilmente un elemento di «mistero», e d'altra parte ogni «mistero» non implica forse chissà quanti inciuci ?

Un ulteriore vantaggio che offre poi l' inciucio in termini polemico-propagandistici è che esso, di nuovo, può sottintendere tutto, il fare ma anche il non fare. Agli occhi dei suoi teorici esso è anzi soprattutto questo: è il non fare, il disertare, l'abbandono della posizione di fronte al nemico. Un aspetto, questo, che indica assai bene quale sia l'idea della democrazia che hanno i denunciatori di professione dell' anti inciucio . È un'idea per così dire bellica della democrazia, radicalmente fondata sul concetto di ostilità. Per non essere l'anticamera dell' inciucio (sempre in agguato!), la democrazia deve essere scontro permanente, continua denuncia dell'avversario e dei suoi disegni, illustrazione delle sue indegnità morali, smascheramento; ogni discorso deve sbugiardare, denudare, indicare al pubblico ludibrio.

La massima virtù civica non è la probità, è l'indignazione. Chi non si adegua, chi invece guarda alla democrazia come a quel sistema che si fonda, sì, sulle «parti» e sulla loro contrapposizione, ma anche, specialmente nei tempi difficili, sulla ricerca dell'accordo, sulla tessitura di compromessi, sulla moderazione di toni, sul riconoscimento dell'opinabilità di tutti i punti di vista (compreso il proprio, naturalmente) e della buona fede altrui, ebbene costui è già un potenziale «inciucista», un «traditore», un «venduto», degno di essere consegnato ai dileggi parasquadristici di cui per esempio sono stati vittime gli onorevoli Franceschini e Fassina nei giorni scorsi. Poiché in una tale ottica la mediazione non è il momento inevitabile di ogni prassi democratica; al contrario: ne diviene la più indegna negazione. Naturalmente ordita con i più torbidi scopi.

Inutile dire quanto abbia aiutato a radicare l'idea e la categoria d' inciucio la scoperta della spartizione, concordata per anni dietro le quinte, a opera dell'intera classe politica, di privilegi e benefici di ogni tipo e misura. Cioè la scoperta della «casta». Una realtà verissima e certo scandalosa: se si può muovere un rimprovero all'uso pubblico della quale, però, è di non avere sottolineato abbastanza che l'intera società borghese italiana è in verità una società di caste. Che la radice del male, dunque, non sta tanto nella politica quanto nella cultura, nella mentalità profonda delle classi dirigenti (e non solo) del Paese. Per cui in Italia tendono a essere una «casta» i giornalisti, i giudici, gli avvocati, gli alti burocrati, i professori, i manager, i funzionari dei gabinetti ministeriali, e così via: in vario modo tutti impegnati accanitamente a sistemare i propri figli possibilmente nello stesso mestiere, a impedire l'accesso ai nuovi venuti, ad accumulare privilegi, retribuzioni, eccezioni di varia natura, auto blu, simboli di status, diarie, cumuli pensionistici, trattamenti speciali, ope legis , e chi più ne ha più ne metta.

Viceversa, declinata unilateralmente la categoria di «casta» porta a conseguenze strabilianti. Per esempio a quella di proclamare «un uomo al di fuori della politica» (Beppe Grillo) una persona certo degnissima come Stefano Rodotà, ma che comunque nei suoi ottant'anni è stato deputato dal 1976 al 1994, deputato europeo per un altro periodo, presidente del gruppo parlamentare della Sinistra indipendente, vicepresidente della Camera, ministro nel governo ombra Occhetto, presidente del Pds, e infine presidente di un'Authority, carica notoriamente di strettissima nomina politica. Qual è insomma, viene da chiedersi, il criterio d'inclusione nella «casta»? Forse non essere nelle grazie degli «anticasta»?

Ma il punto decisivo - lo sappiamo benissimo, senza che ce lo ricordino i professionisti dell' anti inciucio - è che nella politica italiana c'è Berlusconi. Vale a dire il bersaglio di un'indignazione obbligatoria - del quale, a dire di costoro, bisogna a ogni occasione chiedere l'ineleggibilità, la revoca dell'immunità, l'incriminazione, e quant'altro - mentre il solo evitare di farlo, non parliamo dell'avere un qualsivoglia rapporto con lui o con la sua parte, significherebbe, sempre e comunque, l' inciucio più vergognoso. Quando si discute di Berlusconi o con Berlusconi, infatti, se non si vuole passare per collusi il sistema è semplice: ogni sede pubblica deve divenire l'anticamera di una Corte d'assise. Il fatto che da vent'anni egli abbia un seguito di parecchi milioni di elettori (spesso la maggioranza) appare ai custodi della democrazia eticista un dettaglio irrilevante. Non già l'espressione di un problema della storia italiana, di suoi nodi antichi che solo l'iniziativa, le risorse e le capacità della politica, se ci sono, possono sciogliere. No: solo un problema di codice penale o poco più. E in ogni caso, male che vada, un'occasione d'oro per lucrare un po' di consenso mettendo sotto accusa chi si trovasse a pensare che le cose, come spesso capita, sono invece un po' più complicate.

 


Corriere on line 24 aprile 2013

 

SEMPLICEMENTE MERAVIGLIATI


Hadjadj: Non chiamateci fascisti, integralisti, omofobi. Noi siamo, semplicemente, dei “meravigliati”

Non siamo degli indignati. Ciò che ci anima è un sentimento più primitivo, più positivo, più accogliente: si tratta di quella passione che Cartesio considera la prima e la più fondamentale di tutte: l’ammirazione
Non siamo degli indignati. Ciò che ci anima è un sentimento più primitivo, più positivo, più accogliente: si tratta di quella passione che Cartesio considera la prima e la più fondamentale di tutte: l’ammirazione. Essa è prima perché la si sperimenta di fronte alle cose che ci precedono, che ci sorprendono, che non abbiamo pianificato noi: i gigli dei campi, gli uccelli del cielo, i volti, tutte le primavere… Prima di soddisfarci dell’opera delle nostre mani e della vittoria dei nostri princìpi, ammiriamo questo dato naturale. Questa è la colorazione affettiva che tentiamo di fare entrare nelle nostre azioni. Esse non sono motivate da uno stato d’animo triste o di rivendicazione. Non sono imbevute di amarezza. Non vorrebbero essere altro che rendimenti di grazie. Perché, a partire da questa ammirazione primigenia, esse devono fiorire in gratitudine verso la vita ricevuta, verso la nostra origine terrestre e carnale: il fatto che non ci siamo fatti da soli, ma che siamo nati, da un uomo e da una donna, secondo un ordine che sfuggiva a essi stessi.
Lungi dall’essere degli spiritualisti o dei moralizzatori, riconosciamo quella che Nietzsche chiamava «la grande ragione del corpo» e anche «lo spirito che opera dalla vita in giù». Sì, noi siamo meravigliati dall’ordinazione reciproca dei sessi, dal genio della genitalità. Certo, questa organizzazione stupefacente è come il naso in mezzo al nostro volto: tendiamo a non vederlo. Ci inorgogliamo di avere costruito una torcia, e dimentichiamo lo splendore del sole; idolatriamo la magia delle nostre macchine, e disprezziamo la meraviglia della nostra carne. Questa meraviglia la nascondiamo sotto le parole «biologico», «determinismo», «animalità», e assumiamo un’aria di superiorità, vantando le libere prodezze della nostra fabbrica. E tuttavia, che cosa c’è di più stupefacente di questa unione degli esseri più differenti, l’uomo e la donna? E cosa c’è di più sorprendente del loro abbraccio, chiuso sul suo proprio godimento, e che tuttavia si strappa, secondo natura, per permettere l’avvento di un altro, di un’altra differenza ancora: la futura piccola peste, il già disturbante, colui che chiamiamo «il bambino»? Jules Supervielle esprime con una precisione più che scientifica che la riduzione biologistica ci nasconde: «Ed era necessario che un lusso d’innocenza/ concludesse il furore dei nostri sensi?».

martedì 23 aprile 2013

NON ESULTIAMO


Esultare per la "rielezione" di Napolitano può confortare qualcuno che in genere ha poco da esultare o godere, ma è da babbei. Può essere il male minore, certo, ma di fatto è una foglia di fico per un sistema che stava implodendo grazie soprattutto alla ignavia e allo sbandamento culturale (e duqnue politico) dell'ex grande partito della sinistra -di cui Napolitano è stato influente leader- che ha scelto di suicidarsi in nome del potere.
Dunque risparmiateci gli entusiasmi. Anche perché se tra i premier in pectore gira il nome di Amato, il succhia-soldi dai cc privati, non c'è da stare allegri per vari motivi. Comunque nasca sto governo sarà un governo debole che dunque dovrà farsi "forte" perché saprà fare alcune cose forti. Riforma elettorale, e interventi fiscali e sociali per ridare fiato a una economia soffocata da una crisi - è bene ricordarlo - che è stata voluta dalla finanza internazionale, non è piombata dal cielo come il morbillo.

Ma una cosa è chiara: se vi sarà resistenza e rinascenza non sarà dalla politica, da quell'agone difficile e un po' sterile in cui si alternano primattori e comprimari - come la triste figura di Grillo, capitato lì solo per succhiare soldi e consensi alla sua "ideologia" della rete. Ma dal duro resistere delle famiglie, delle persone che si vogliono bene e si aiutano, dalla carità di tanti e dalla cura che in molti mettono in un mestiere non perché guadagnano molto o li vede il capo, ma perché si fanno ammirare dagli angeli. In un paese in cui non c'è più religione, è evidente che non c'è nemmeno più politica, né società civile, ma solo duro vano scontro di forze.

da Robot-clandestino

domenica 21 aprile 2013

CADE UN "ADULTO"


Quel cattolicesimo elitario e tecnocratico che né la
chiesa né i comunisti hanno mai digerito

Non serve essere cattolico per il Quirinale. Matteo Renzi avrebbe forse fatto meglio a specificare quale tipo di cattolico. Affossato con malagrazia l’epigono un po’ tardo del laburismo e del popolarismo (demo)cristiano, Franco Marini, la rovinosa caduta di ieri di Romano Prodi sulla strada della presidenza della Repubblica suona come la bocciatura di un altro modello cattolico, che ha la stessa età della Costituzione. E’ il trionfo mancato, ancora una volta, di una particolare piccola ecclesia, di un sodalizio, se non una lobby: insomma la vena aurea di un cattolicesimo minoritario, eppure egemonico, nella storia politica e nei centri di potere dell’Italia e del cattolicesimo italiano. Ruggero Orfei, giornalista e intellettuale d’area, li definì i “dossettiani non democristiani”.
Sono i cattolici elitari, progressisti ma non cattocomunisti, forgiati dal magistero di Giuseppe Dossetti, sempre in bilico tra politica e spirito. Quelli che dopo decenni di conflittuale rapporto col dogma del collateralismo brindarono alla fine della Dc come all’inizio “di una nuova fase” (Pietro Scoppola), in cui poter finalmente realizzare la “democrazia dei cristiani”, più tardi “cattolici adulti”. Sotto il totem della Costituzione che, parola di Prodi, per Dossetti valeva in quanto “ethos intessuto di valori universali e transtemporali”. Un manipolo plasmato soprattutto, a cavallo tra Prima e Seconda Repubblica, da Nino Andreatta, la personalità di maggior statura tra gli eredi di Dossetti, l’unico in grado di elaborarne il progetto e adattarlo alla storia. Il “vero padre dell’Ulivo”, come lo salutarono quando morì, aveva in realtà generato per tempo altri due figli. Prodi è appunto figlio della precoce intuizione andreattiana di superare il partito cattolico (e anche quello comunista, a Dio piacendo), nell’embrione ideologico di quello che sarà l’Ulivo a metà degli anni 90. Suo gemello in provetta fu Nanni Bazoli, il “Professor Nessuno” che Andreatta trasformò nel dominus bancario capace di ridisegnare, il potere della finanza bianca tracollata tra lo Ior e l’Ambrosiano, blindandolo nelle mani della sinistra dossettiana. Con un decennio d’anticipo sulla fine del potere dc.

Stando al pallottoliere di Montecitorio di venerdì, tutto questo non basta a giungere al Quirinale. Il sogno di Dossetti, poi sviluppato dagli Andreatta dai Prodi in un continuo scambio con parti del mondo ecclesiale (la Scuola di Bologna) e in un continuo scontro con altre sue anime, è in fondo sempre rimasto identico: laicizzare al massimo la presenza politica dei cattolici, nel segno di una loro modernizzazione, sottraendola così all’ingerenza della gerarchia. E’ ciò che nell’ultimo ventennio si è chiamato ideologia ulivista: qualcosa di difficilmente diluibile persino nel grande pentolone delle “due culture” che è il Partito democratico. Non è un caso che la componente ex popolare e i cosiddetti “prodiani” non si siano mai amalgamati granché (vale anche con gli ex Pci). Penultimo a farne le spese era stato proprio Franco Marini. E ieri, con tutta evidenza, Prodi ha subìto il contrappasso.

C’è che il mondo elitario dei dossettiani ha sempre vantato, o millantato, un’altra genetica rispetto a quelle, pur a volte meticce, delle altre correnti della chiesa italiana: quelle del laburismo popolare, quelli del cattolicesimo senza targhe ma vagamente papalino che ha sempre alimentato il corpaccione della Balena bianca, specie nel suo grande e grasso centro andreottiano, fino alle forze di punta degli anni ruiniani. Di fronte a tutto questo, la cifra intima del prodismo è sempre rimasta quella di un odio antropologico che ne fa quasi una versione clericale dell’azionismo. Vagamente giansenista in religione e tecno-modernista in politica (economica).

E’ questa antropologia politica quella che, al culmine della stagione dell’Ulivo, nel 2007, andò a sbattere contro il “non possumus” dei vescovi italiani guidati da Camillo Ruini sul disegno di legge sui Dico. Non fu solo lo scazzo momentaneo tra una legittima rivendicazione di autonomia politica e una gerarchia particolarmente interventista. Fu lo scontro tra visioni diverse della presenza della chiesa nel corpo della Seconda Repubblica. Per i prodiani, il vero punto di scontro simbolico era la condanna di una chiesa che ancora una volta si schierava, e ancora una volta dalla parte della conservazione etica, e per di più sostenuta dalla “parte del male” (Berlusconi). Attorno alla candidatura di Prodi al Quirinale si gioca anche questa versione aggiornata della questione cattolica, anche se molto è cambiato rispetto al passato. Dall’altra parte del Tevere c’è un Papa cui, alle viste, interessa poco la politica italiana. In Laterano non regna più Ruini, ma non è escluso che ieri sera, don Camillo abbia sorriso.


http://www.ilfoglio.it/soloqui/17874

venerdì 19 aprile 2013

IL TIFONE DELL'ANTIBERLUSCONISMO


Della Caporetto bersaniana consumatasi ieri, con contorno di tessere bruciate, non vale la pena parlare a lungo: chi semina il vento dell’antiberlusconismo ne viene inesorabilmente travolto.

Per due mesi Bersani ha spiegato al popolo che con Berlusconi non avrebbe mai preso un caffè e che era invece a portata di mano il “governo di cambiamento” con Grillo: poi, improvvisamente, ha stretto col Caimano un accordo per il Quirinale. Un atto di saggezza, in un paese normale. Alto tradimento, nell’Italia dei barbari.

Che cosa sta succedendo nel Pd?

1.      Si tratta soltanto del tentativo disperato di capovolgere il risultato delle elezioni, occupando ad ogni costo il governo che gli italiani gli hanno sonoramente negato, oppure siamo in presenza di una vera regressione antropologica, culturale, genetica? La stessa elezione dei presidenti della Camere – al di là del giudizio sulle persone – è il segno di un disordine mentale, di una vera e propria pulsione suicida: mai in nessun Parlamento del mondo sono stati scelti due presidenti senza alcuna esperienza parlamentare, che non hanno mai fatto politica attiva, che non hanno mai frequentato un partito, che non hanno mai neppure partecipato ad un consiglio di quartiere. Questo non è rinnovamento: questo è un insulto al Parlamento

2.      Pensare di salvarsi dalla rivoluzione grillista autodecapitandosi è un caso non nuovo di sindrome di Stoccolma, ma non per questo meno grave. Era già successo nel ’22, quando un bel pezzo di classe dirigente liberale pensò di ingraziarsi il fascismo, prima di esserne travolta. Sia chiaro: Grillo non è Mussolini. È però un’alternativa radicale alla politica così come l’abbiamo finora conosciuta: che si tratti di una salutare novità o di un salto nel buio, in ogni caso il Pd non ne ha e non ne avrà parte alcuna – se non quella della vittima, insieme agli altri partiti.

3.      Nel tentativo di salvarsi la pelle dalla rivoluzione grillista, la prima legge promessa dallo sconfitto di Bettola è sul conflitto d’interesse: operai disoccupati, imprenditori suicidi, pensionati alla fame e giovani senza lavoro ne saranno felici. In compenso Migliavacca, braccio destro del segretario, promette la galera a Berlusconi, a prescindere, sebbene nessuno l’abbia chiesta (salvo Grillo).

4.      Gli stessi otto punti del “programma”, nel frattempo divenuti una cinquantina, grondano di grillismo dell’ultima ora, di demagogia, di insulsaggine populista.

5.       L’alternativa grillista si batte con la (buona) politica, con il senso della realtà, con il rispetto della propria dignità e tradizione: non prostituendo il cervello per comprarsi qualche senatore.

6.      Il “vantaggio” dell’affondamento di Franco Marini – che, sia detto senza esitazione, sarebbe stato un buon presidente – consiste nell’accelerazione delle dinamiche interne al Pd: dopo l’ennesima, violenta sconfitta, è evidente che la permanenza alla segreteria di Bersani e del suo Tortello magico non potrà durare ancora a lungo.

Di tutte le conclusioni possibili al lungo disfacimento del Pci, questa è davvero la più inaspettata: seppelliti da una risata, mentre si sforzano di ridere più forte.
(da the frontpage)

giovedì 18 aprile 2013

FESTEGGIAMO IL 18 APRILE


Ricorrono SESSANTACINQUE anni  dal 18 aprile 1948, data storica per la democrazia italiana. La rievochiamo riproponendo questo articolo di Antonio Socci di alcuni anni fa.


«Il mondo è fermo, l'Italia sceglie», titolava un grande giornale inglese. Quel 18 aprile 1948 non c'erano vie di mezzo:
aut, aut. Una scommessa secca. Da una parte la civiltà, la libertà. Dall'altra la barbarie, il terrore, la miseria.

Scriveva il Corriere della Sera: «Preferisci la libertà o la paura di tutti i giorni? Preferisci la certezza del pane o la fame umiliante? Preferisci la serenità o il terrore?».

Il mondo libero è col fiato sospeso, la Penisola è sul crinale. L'Italia non ha solo le truppe di Stalin a Trieste. Si è trovata in casa il più grosso e agguerrito Partito comunista dell'Occidente: 2 milioni di iscritti, 50mila cellule, 50-100mila armati (le Volanti rosse ed i Gap avevano imperversato eliminando impunemente un centinaio di preti e altri avversari politici).

Alle prime elezioni, quelle della Costituente, il 2 giugno del '46 il blocco socialcomunista prende il 40% dei voti, la Dc il 35,18%.

Da allora è un'escalation. Stalin, intanto, in barba ai trattati internazionali, stende la sua cappa di piombo e di terrore fino al cuore dell'Europa. Berlino, Varsavia, Budapest, Sofia (perfino in Grecia le armi crepitano). Dovunque si ripete la tragedia: un colpo di mano dei comunisti e poi gli arresti, la censura, l'epurazione, il regime. All'inizio del '48 sembra venuta la volta della Finlandia. Il 25 febbraio, colpo di Stato comunista a Praga (due settimane dopo il ministro Masaryk viene «suicidato» e con lui la democrazia cecoslovacca).

In Italia si scopre la foiba di Basovizza e tutte le altre dove i comunisti jugoslavi, con l'appoggio di quelli italiani, hanno macellato migliaia di italiani innocenti (la Jugoslavia ancora stalinista si appropria di Zara, la Dalmazia, Fiume, l'Istria, fino a Trieste e Gorizia).

Il 27 settembre del '47, a Bialystok, Stalin aveva riunito tutti i Partiti comunisti dell'Est, il Pci (Partito Comunista Italiano, ndr) ed il Pcf (Partito Comunista Francese, ndr) dando vita al Cominform (un'edizione aggiornata del famigerato Comintern): tutti i «partiti fratelli» sono agli ordini del tiranno del Cremlino.

In Italia i comunisti (che non sono solo il partito più organizzato, ma anche l'unico ad avere una consistenza «militare») sono padroni della piazza. Due mesi prima del 18 aprile, alle elezioni comunali di Pescara, il Fronte (l’alleanza tra comunisti di Togliatti e socialisti di Nenni, che si presentava unitariamente col nome di Fronte Democratico Popolare, ndr) raddoppia i voti delle precedenti consultazioni prendendo il 48,4%, mentre la Dc non arriva al 28%. Il segnale è chiaro: c'è da sudar freddo.

Ma intanto l'Italia ha il pane razionato ed è un cumulo di macerie. Può continuare solo con gli aiuti americani (le navi del Piano Marshall). Così De Gasperi, nella primavera del '47, aveva addirittura dovuto estromettere i socialcomunisti dal governo. Fu drammaticamente solo (a parte il fidatissimo Andreotti) e, nel partito, il gruppo dossettiano arrivò ad attaccarlo pesantemente, per questa scelta. Si avvicinava così il confronto decisivo. Il 18 aprile era il redde rationem. Togliatti, che chiamava sprezzantemente De Gasperi cancelliere von Gasper, gli aveva promesso che - all'indomani della vittoria - lo avrebbe cacciato dal Viminale a pedate. Soprattutto nelle regioni rosse «i capetti (del Fronte)» racconta Andreotti «avevano minacciato sfacciatamente vendetta e forche». In questo clima di paura, di violenza e di intimidazione gli Italiani dovevano scegliere il futuro del loro Paese. «Un avvenimento di importanza storica» disse Churchill. «Tutta la campagna elettorale» ha scritto De Felice «sembrò volta ad una scelta drammatica di regime».

Il risultato sarà stupefacente, sorprendente, unico nella storia d'Italia (dove per la prima volta votano tutti, donne comprese): la Dc di De Gasperi conquista la maggioranza assoluta (dei seggi; la percentuale dei votanti fu del 48,51%, ndr), ed il Fronte popolare di Togliatti (con Nenni come succube reggicoda) appena il 30%. E' un trionfo. L'incubo è finito, comincia la libertà.

Il commento più umoristico è quello dell'Unità: «Potente affermazione del Fronte» (titolo a nove colonne). Il più stupido quello del giornale satirico laicista Don Basilio, che titola: «L'Italia ha quel che si merita. Hanno vinto le vecchie e i deficienti». E' Benedetto Croce, maître-à-penser del pensiero laico, a ribattere: «Beneditele quelle beghine, perché senza il loro voto oggi noi non saremmo liberi».

Luigi Gedda, il fondatore dei Comitati civici, commenta: «Il 18 aprile è stata una bella pagina scritta dall'Italia cattolica, un'Italia che per quasi un secolo era rimasta in stato di clandestinità. La vittoria fu della Dc, ma questa fu la veste di circostanza della protagonista, l'Italia cattolica, che si era andata preparando da almeno tre generazioni a questo momento».

In effetti i Comitati civici (insieme agli aiuti americani del Piano Marshall) furono la marcia in più della Dc. «La grande ora della coscienza cristiana è suonata», così in Piazza San Pietro, Pio XII aveva chiamato a raccolta i cattolici.

18mila Comitati civici coprono il Paese, con 300mila attivisti, legati alle 22mila parrocchie. Emanazione diretta dell'Azione cattolica (ma avversati dalla componente «maritainiana» del presidente Veronese, di Lazzati e di Dossetti) corrispondono ad una formidabile intuizione di Pio XII: che fosse il popolo il vero depositario della libertà, a tener fronte allo Stato-tiranno, esprimendosi anche in forme autonome dai partiti.

Alcide De Gasperi riconosceva questa particolare natura strumentale alla Dc. All'assemblea organizzativa del gennaio '49, opponendosi al «partito giacobino» proposto dai dossettiani (cioè un partito programmatico, laico, autonomo, totalizzante) disse: «La Dc non sarebbe stata quella che è attualmente se davanti ad essa non vi fosse un secolo di esperienze del movimento sociale cristiano. Prima che come partito è nata come movimento... Dobbiamo affermare che riconosciamo questa paternità e questa origine».

Protagonista doveva essere dunque la Chiesa - il popolo cattolico - non il partito (che era «una veste di circostanza»); questa la convinzione di Pio XII: «Per lui il "partito unito dei cattolici" esisteva già prima della Dc, ed era la Chiesa». Per questo i più stretti collaboratori del Papa, Domenico Tardini della Segreteria di Stato, il cardinale Ottaviani del Sant'Uffizio e Luigi Gedda, avevano in mente non la sola Dc ma una pluralità di partiti che i cattolici potessero «controllare».

La Civiltà Cattolica (la rivista dei Gesuiti, le cui bozze vengono riviste dalla Segreteria di stato della Santa Sede, ndr), già nel '44 prevedeva che potessero «sorgere più partiti politici lecitamente discordanti sul terreno politico, ai quali essi (i cattolici) possono aderire».

Da parte sua De Gasperi proponeva invece l'immagine di un partito aperto: «La civiltà cristiana non si pone in essere solo con affermazioni generiche di principio, ma con lo sforzo concreto di trovare soluzione ai problemi che interessano la popolazione».
 
Erano parole pronunciate qualche mese prima del 18 aprile. Gianni Baget Bozzo le commentò così: «Era il suo modo di lottare contro un modello di partito autarchico, chiuso in se stesso».

Naturalmente il 18 aprile, di fronte alla minaccia della sovietizzazione, era necessario salvare il Paese: e si fece quadrato attorno alla Dc.

Ma l'orizzonte della Chiesa viva era la sua stessa missione, non un partito (che era solo una delle espressioni storiche). (...)