Quel cattolicesimo
elitario e tecnocratico che né la
Non serve essere cattolico per il Quirinale. Matteo Renzi avrebbe
forse fatto meglio a specificare quale tipo di cattolico. Affossato con
malagrazia l’epigono un po’ tardo del laburismo e del popolarismo
(demo)cristiano, Franco Marini, la rovinosa caduta di ieri di Romano Prodi
sulla strada della presidenza della Repubblica suona come la bocciatura di un
altro modello cattolico, che ha la stessa età della Costituzione. E’ il trionfo
mancato, ancora una volta, di una particolare piccola ecclesia, di un sodalizio,
se non una lobby: insomma la vena aurea di un cattolicesimo minoritario, eppure
egemonico, nella storia politica e nei centri di potere dell’Italia e del
cattolicesimo italiano. Ruggero Orfei, giornalista e intellettuale d’area, li
definì i “dossettiani non democristiani”.
Sono i cattolici elitari, progressisti ma non cattocomunisti, forgiati
dal magistero di Giuseppe Dossetti, sempre in bilico tra politica e spirito.
Quelli che dopo decenni di conflittuale rapporto col dogma del collateralismo
brindarono alla fine della Dc come all’inizio “di una nuova fase” (Pietro
Scoppola), in cui poter finalmente realizzare la “democrazia dei cristiani”,
più tardi “cattolici adulti”. Sotto il totem della Costituzione che, parola di
Prodi, per Dossetti valeva in quanto “ethos intessuto di valori universali e
transtemporali”. Un manipolo plasmato soprattutto, a cavallo tra Prima e
Seconda Repubblica, da Nino Andreatta, la personalità di maggior statura tra
gli eredi di Dossetti, l’unico in grado di elaborarne il progetto e adattarlo
alla storia. Il “vero padre dell’Ulivo”, come lo salutarono quando morì, aveva
in realtà generato per tempo altri due figli. Prodi è appunto figlio della
precoce intuizione andreattiana di superare il partito cattolico (e anche
quello comunista, a Dio piacendo), nell’embrione ideologico di quello che sarà
l’Ulivo a metà degli anni 90. Suo gemello in provetta fu Nanni Bazoli, il
“Professor Nessuno” che Andreatta trasformò nel dominus bancario capace di
ridisegnare, il potere della finanza bianca tracollata tra lo Ior e
l’Ambrosiano, blindandolo nelle mani della sinistra dossettiana. Con un
decennio d’anticipo sulla fine del potere dc.
Stando al pallottoliere di Montecitorio di venerdì,
tutto questo non basta a giungere al Quirinale. Il sogno di Dossetti,
poi sviluppato dagli Andreatta dai Prodi in un continuo scambio con parti del
mondo ecclesiale (la Scuola di Bologna) e in un continuo scontro con altre sue
anime, è in fondo sempre rimasto identico: laicizzare
al massimo la presenza politica dei cattolici, nel segno di una loro
modernizzazione, sottraendola così all’ingerenza della gerarchia. E’ ciò
che nell’ultimo ventennio si è chiamato ideologia
ulivista: qualcosa di difficilmente diluibile persino nel grande pentolone
delle “due culture” che è il Partito democratico. Non è un caso che la
componente ex popolare e i cosiddetti “prodiani” non si siano mai amalgamati
granché (vale anche con gli ex Pci). Penultimo a farne le spese era stato
proprio Franco Marini. E ieri, con tutta evidenza, Prodi ha subìto il
contrappasso.
C’è che il mondo elitario dei dossettiani ha sempre vantato, o millantato, un’altra genetica rispetto a quelle, pur a volte meticce, delle altre correnti della chiesa italiana: quelle del laburismo popolare, quelli del cattolicesimo senza targhe ma vagamente papalino che ha sempre alimentato il corpaccione della Balena bianca, specie nel suo grande e grasso centro andreottiano, fino alle forze di punta degli anni ruiniani. Di fronte a tutto questo, la cifra intima del prodismo è sempre rimasta quella di un odio antropologico che ne fa quasi una versione clericale dell’azionismo. Vagamente giansenista in religione e tecno-modernista in politica (economica).
E’ questa antropologia politica quella
che, al culmine della stagione dell’Ulivo, nel 2007, andò a sbattere contro il
“non possumus” dei vescovi italiani guidati da Camillo Ruini sul disegno di
legge sui Dico. Non fu solo lo scazzo momentaneo tra una legittima rivendicazione di
autonomia politica e una gerarchia particolarmente interventista. Fu lo scontro
tra visioni diverse della presenza della chiesa nel corpo della Seconda
Repubblica. Per i prodiani, il vero punto di scontro simbolico era la condanna
di una chiesa che ancora una volta si schierava, e ancora una volta dalla parte
della conservazione etica, e per di più sostenuta dalla “parte del male”
(Berlusconi). Attorno alla candidatura di Prodi al Quirinale si gioca anche
questa versione aggiornata della questione cattolica, anche se molto è cambiato
rispetto al passato. Dall’altra parte del Tevere c’è un Papa cui, alle viste,
interessa poco la politica italiana. In Laterano non regna più Ruini, ma non è
escluso che ieri sera, don Camillo abbia sorriso.
http://www.ilfoglio.it/soloqui/17874
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