Un importante articolo che spiega come legittimare l'ideologia gay, come esempio di tecnica per la creazione del pensiero unico.
tratto da Cristianità n.327 (2005)
“Dopo ogni rivoluzione – insegna Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) – il rivoluzionario ci avvisa che la vera rivoluzione sarà la rivoluzione di domani”
ROBERTO MARCHESINI
I. La Rivoluzione sessuale ha contribuito, con altre concause, alla
crisi dell’istituzione familiare, e questa crisi non è a sua volta
estranea all’emergere di problemi connessi con l’omosessualità, definita
come una preferenza sessuale predominante e persistente per persone dello
stesso sesso.
Una componente tanto chiassosa quanto minoritaria del mondo
omosessuale è costituita dagli attivisti gay, che si prefiggono
l’accettazione, da parte della società, dell’omosessualità come variante “naturale”
dell’orientamento sessuale umano.
È importante distinguere fra omosessuali e gay: il termine
“omosessualità” indica una tendenza o inclinazione sessuale, mentre il
termine gay indica un’identità socio-politica. Non tutte le
persone con inclinazione omosessuale s’identificano nello stile di vita gay,
anzi: la maggioranza di loro non è orgogliosa di tale inclinazione, non
considera “normale” la propria omosessualità e non teorizza il riconoscimento
dello stile di vita gay come positivo per sé e per la società
(1).
II. Gli attivisti gay si prefiggono una vera e propria Rivoluzione omosessualista della società? Essi lo negano, bollando questa ipotesi come espressione di complottismo paranoico. Un interessante saggio, scritto ormai poco più di quindici anni fa ma ancora attuale, sembra però confermare questa ipotesi. L’opera, intitolata After the ball. How America will conquer its fear & hatred of Gays in the 90’s, “Dopo il ballo. Come l’America sconfiggerà la sua paura e il suo odio verso i gay negli anni 1990″ (2), è stata pubblicata nel 1989 da Marshall Kirk, “ricercatore in neuropsichiatria, logico-matematico e poeta” (p. I), e da Hunter Madsen, “esperto di tattiche di persuasione pubblica e social marketing” (ibidem). Il “ballo” a cui gli autori fanno riferimento è il baccanale provocatorio e oppositivo innescato dalla Rivoluzione gay degli anni 1970 e 1980.
Si tratta di una lettura decisamente sorprendente: nel caso non si voglia
credere al complotto o a un’efficacia magica della strategia di “persuasione
pubblica” e di “social marketing” esposta nell’opera,
bisogna riconoscere agli autori un’incredibile capacità previsionale; vi si
trova infatti un’accurata descrizione degli obiettivi e dei metodi dell’attuale
movimento gay.
“The gay revolution has failed”, “La rivoluzione gay è
fallita” (p. XV). Secondo gli autori il movimento gay degli
anni 1970 e 1980, ispirandosi al modello marxista (3), ha collezionato una
serie di fallimenti che hanno reso la comunità gay ancor più
isolata e malvista dal resto della popolazione.
Gli anni 1990 presentano tuttavia una nuova possibilità per rilanciare la
Rivoluzione gay. Cosa rende questi anni particolarmente favorevoli
a essa? Gli autori lo spiegano senza pudore: “Per quanto cinico possa
sembrare, l’AIDS ci dà una possibilità, benché piccola, di affermarci come una
minoranza vittimizzata che merita legittimamente l’attenzione e la protezione
dell’America” (p. XXVII).
Kirk e Madsen intendono analizzare il fallimento e proporre strumenti
concreti per sfruttare la nuova possibilità offerta dall’AIDS al
movimento gay: “Pensiamo a una strategia accurata e potente
quanto quella che i gay sono accusati dai
loro nemici di perseguire – o, se preferite, a un piano altrettanto
manipolatorio quanto quello sviluppato dai nostri stessi nemici. […] I gay devono
lanciare una campagna sul larga scala – che noi abbiamo chiamato Waging
Peace campaign – per raggiungere gli eterosessuali attraverso i media commerciali.
Stiamo parlando di propaganda” (p. 160). La denominazione della campagna
è costruita sulla base di un gioco di parole, dal momento che waging
war significa “muovere guerra”, e il nemico individuato è il “bigottismo
antigay“ (p. 134).
III. Nella prima parte dell’opera gli autori analizzano i “bottoni
sbagliati” (p. 134) premuti dal movimento gay nei due
decenni precedenti.
1. “La discussione, o l’aumento della consapevolezza” (p.
136). Questa tattica non ha funzionato, secondo Kirk e Madsen, perché fondata
sul presupposto erroneo che il pregiudizio – tale sarebbe il “bigottismo
antigay“ – non è una credenza che si possa confutare
argomentando, ma un sentimento da affrontare come tale.
2. “Il combattimento, o l’assalto alle barricate” (p.
140). Questa tattica ha avuto, secondo gli autori, l’effetto di suscitare
irritazione e fastidio negli eterosessuali; pertanto è da ritenersi dannosa.
3. “Lo shock, o l’inversione di genere” (p.
144). Il riferimento in questo caso è alle marce dell’orgoglio gay,
che in genere hanno lo scopo di affermare in modo provocatorio e bizzarro la cultura gay come
“diversa”. Poiché l’obiettivo è quello di cambiare la mentalità della società,
tali manifestazioni di affermazione della “diversità” sono controproducenti.
Invece, si deve “[…] per prima cosa mettere un piede nella
porta, rendendosi il più simile possibile a loro; dopo, e
solamente dopo – quando l’unica tua piccola differenza è stata accettata – puoi
iniziare a imporre altre tue caratteristiche, una alla volta” (p. 146).
A queste tre tattiche gli autori ne contrappongono altre tre, tre “bottoni
giusti” (p. 147) da premere per “fermare, far deragliare o far
marciare all’indietro il motore del pregiudizio” (ibidem).
1. “La desensibilizzazione”. Come tutti i meccanismi di difesa
psico-fisiologici, spiegano gli autori, anche il pregiudizio antigay può
diminuire con l’esposizione prolungata all’oggetto percepito come minaccioso
(4). Bisogna quindi “inondare” (p. 149) la società di messaggi
omosessuali per “desensibilizzare” (ibidem) la società
stessa nei confronti della minaccia omosessuale.
2. “Il grippaggio” (p. 150). Questa tattica consiste nel
presentare messaggi che creino una dissonanza cognitiva (5) nei bigotti antigay,
per esempio mostrando a soggetti che rifiutano l’omosessualità per motivi
religiosi come l’odio e la discriminazione non siano “cristiani”; oppure
mostrando le terribili sofferenze provocate agli omosessuali dalla crudeltà
omofobica (6).
3. “La conversione” (p. 153). Con questa tecnica s’intende
suscitare sentimenti uguali e contrari rispetto a quelli del bigottismo antigay,
ossia infondere nella popolazione sentimenti positivi nei confronti degli
omosessuali e negativi nei confronti dei bigotti antigay.
Gli autori indicano poi “otto princìpi pratici” (p. 172)
per la persuasione della popolazione tramite i mass media.
1. “Non esprimere semplicemente te stesso: comunica!” (p.
173). L’espressione di sé può avere un effetto liberante, ma è scarsamente
efficace. Molto meglio comunicare: “[…] gli eterosessuali
devono essere aiutati a credere che tu e loro parlate lo stesso linguaggio” (p.
174).
2. “Non curarti dei salvati e dei dannati: rivolgiti agli scettici” (p.
175). Gli autori individuano tre gruppi di persone divisi in base al loro
atteggiamento nei confronti del movimento gay: gli “intransigenti” (ibidem),
stimati in circa il 30/35% della popolazione, gli “amici” (ibidem),
circa il 25/30%, e gli “scettici ambivalenti” (ibidem),
circa il 35/45%; questi ultimi rappresentano il target designato:
a loro bisogna dedicare gli sforzi maggiori applicando le tecniche di
desensibilizzazione con quelli meno favorevoli e di blocco e conversione con i
più favorevoli. Le altre due categorie, i “dannati” e i “salvati”,
vanno rispettivamente “silenziati” (p. 176) e “mobilitati” (p.
177).
3. “Parla continuamente” (ibidem). Il metodo
migliore per desensibilizzare gli “scettici ambivalenti” sta
nel “[…] parlare dell’omosessualità finché l’argomento non
sia diventato assolutamente noioso” (p. 178) (7). Inoltre, è bene dare
spazio ai teologi del dissenso perché forniscano argomenti religiosi alla campagna
contro il bigottismo antigay (8).
4. “Mantieni centrato il messaggio: sei un omosessuale, non una
balena” (p. 180). Gli attivisti sono tenuti a parlare esclusivamente
dell’omosessualità; associare questo messaggio ad altri può essere
controproducente per vari motivi: le organizzazioni che si battono per cause
umanitarie o ambientalistiche sono generalmente impopolari, più piccole dei
gruppi gay e solitamente si occupano di argomenti remoti ed
effimeri, come – per esempio – il destino delle balene; inoltre si rischia di
confondere le idee rispetto al target. Molto meglio rimanere
centrati esclusivamente sull’omosessualità.
5. “Ritrai i gay come vittime, non come
provocatori aggressivi” (p. 180). Per stimolare la compassione i gay devono
essere presentati come vittime a. delle circostanze – perciò,
dicono gli autori, “[…] sebbene l’orientamento sessuale
sembri il prodotto di complesse interazioni fra predisposizioni innate e
fattori ambientali nel corso dell’infanzia e della prima adolescenza” (p.
184) (9), l’omosessualità dev’essere presentata come innata – e b.
del pregiudizio, che dev’essere indicato come la causa di ogni loro sofferenza.
6. “Da’ ai potenziali protettori una giusta causa” (p.
187). Ossia: non bisogna chiedere appoggio per l’omosessualità, ma contro la
discriminazione.
7. “Fa’ che i gay sembrino buoni” (ibidem).
I gay devono essere presentati non solo come membri a tutti
gli effetti della società, ma addirittura come “pilastri” (p.
188) di essa. Un ottimo modo per farlo sta nel presentare una serie di
personaggi storici famosi, noti per il loro contributo all’umanità, come gay:
chi mai potrebbe discriminare Leonardo da Vinci (1452-1519)?
8. “Fa’ che gli aggressori sembrino cattivi” (p. 189). Un
ottimo metodo consiste nell’accostare gli “intransigenti”, per
esempio, ai nazionalsocialisti.
Poiché intendono proporre agli attivisti gay un metodo
pratico, gli autori non trascurano d’inserire nella loro opera un portfolio di
manifesti pro-gay, valutati in base alla loro aderenza agli “otto
princìpi pratici” (pp. 215-245).
Non mancano neppure un’attenta analisi dei mass media per
la scelta dei più efficaci (pp. 200-204) e un piccolo manuale di fund
raising per il finanziamento delle campagne sui mezzi di comunicazione
sociale (pp. 262-270).
La messa in opera della “strategia” deve però affrontare
un notevole ostacolo: gli stessi gay, meglio: lo stile di
vita gay. Questo stile di vita, descritto da Kirk e Madsen come
amorale (p. 289), “narcisistico” (p. 297) e patologico (pp.
296-297), rischia di rendere gli attivisti testimonial poco
credibili per il messaggio normalizzante e rassicurante che si vuole
trasmettere.
A questo scopo è accluso un “Codice di autocontrollo sociale” (p.
360), che comprende “regole” (ibidem) per le relazioni
con gli eterosessuali, con altri gay e con sé stessi. Se
ancora fosse possibile stupirsi a questo punto della lettura, sarebbe il caso
di farlo di fronte a questo “codice”: proibendo una serie di condotte, esso
costituisce l’ammissione degli stessi comportamenti che si vogliono negare; per
esempio, nell’elenco si trova “Non farò sesso in pubblico” (ibidem), “Se
sono un pedofilo o un masochista lo terrò nascosto e starò lontano dalle parate
del Gay Pride” (ibidem), “Non tradirò il mio compagno” (ibidem), “Smetterò
di tentare di essere perennemente un diciottenne e mi comporterò secondo la mia
età; non mi punirò perché non sono ciò che vorrei” (ibidem), “Non
berrò più di due drink alcolici al giorno; non farò assolutamente uso di
droghe” (ibidem), e così via.
IV. Che dire di questa “strategia”? Ha trovato applicazione? Siamo
forse nel pieno dell’offensiva predisposta da Kirk e da Madsen? Si può
osservare qualche coincidenza.
Nel 1993 l’ILGA, l’International Lesbian & Gay Association, la più
importante lobby gay mondiale, che unisce più di 400
organizzazioni di 90 paesi in tutto il mondo fra le quali l’Arcigay – la
principale organizzazione gay italiana, fondata a Bologna nel
1985 – espelle la NAMBLA, la North American Man/Boy Love Association,
associazione che ha fra i suoi scopi la diffusione della pedofilia, dopo oltre
dieci anni di stretta collaborazione e nonostante il fatto che i rappresentanti
della NAMBLA avessero collaborato alla costituzione dell’ILGA (10).
La NAMBLA protesta pubblicamente ma la posizione dell’ILGA viene
“rafforzata” nel 1994 da un emendamento del Senato degli Stati Uniti d’America,
che subordina la prosecuzione dei finanziamenti statunitensi all’ONU,
l’Organizzazione delle Nazioni Unite, alla garanzia che “nessuna
agenzia affiliata alle Nazioni Unite garantisca alcuno status, accreditamento o
riconoscimento ufficiale a qualsiasi organizzazione che promuova, tolleri o
cerchi la legalizzazione della pedofilia, o che includa come consociate o
membri una qualunque di tali organizzazioni” (11).
Quindi, per continuare a usufruire dei finanziamenti statunitensi, l’ONU
minaccia l’ILGA di espellerla dall’ECOSOC, l’Economic and Social Council, se
avesse mantenuto i rapporti con la NAMBLA.
E Kirk e Madsen, affrontando l’argomento delle affiliazioni controproducenti,
citano proprio il caso della NAMBLA: “[…] permettere ai
difensori della legalizzazione dell’amore fra uomini e ragazzi di partecipare
alle marce del Gay Pride è, dal punto di vista delle pubbliche relazioni, un
puro disastro” (p. 146; cfr. pure pp. 146-147, 184 e 306).
Qualcosa di simile avviene anche in Italia. Il 13 luglio 1993 undici
persone vengono arrestate a Milano con l’accusa di abusi sessuali su minori;
fra esse Francesco Vallini, redattore di Babilonia. Mensile gay e
lesbico – la rivista gay fondata a Milano nel 1982 –
e animatore del Gruppo P, un’associazione di pedofili. Il presidente
dell’Arcigay, on. Franco Grillini, invece di prendere le difese del redattore
della maggiore testata gay italiana, dichiara: “[…] bisogna
essere masochisti, o non capire che chi rivendica politicamente la pedofilia
danneggia i movimenti di liberazione sessuale, alimentando il pregiudizio
popolare contro i gay” (12).
La redazione di Babilonia. Mensile gay e lesbico risponde
denunciando come puramente strategico l’atteggiamento dell’Arcigay: “[…] siccome
la pedofilia è repellente, non bisogna difendere i gay pedofili ingiustamente
accusati. Anzi, bisogna prendere le distanze, perché esprimere solidarietà può
“sporcare” l’immagine del movimento. Questa benedetta immagine che è diventata
tutto per l’Arcigay, a scapito della sostanza. L’importante è la facciata.
L’importante è apparire […]. Ecco, il botto è scoppiato per questa
ragione: perché qualcuno, noi, ha rifiutato di accontentarsi della sola
politica di “immagine” e si è ostinato a perseguire quella dei “fatti”. Il
Gruppo P è solo un pretesto: il conflitto è in realtà fra due modi di intendere
la politica dei diritti civili” (13).
Dal canto loro, Kirk e Madsen prevengono anche questa critica: “Sarà
sollevata l’obiezione – e sarà sollevata spesso – che noi vorremmo
“ziotommizzare” (14) la comunità gay; che stiamo
cambiando uno stereotipo falso con un altro ugualmente falso; che i nostri
messaggi sono bugie; che questo [l’icona della normalità] non è
il modo in cui tutti i gay attualmente
appaiono; i gay lo sanno e i bigotti lo sanno. Certo,
ovviamente, anche noi lo sappiamo. Ma non è importante se i nostri messaggi
sono bugie; non per noi, perché li stiamo usando per un effetto eticamente
buono, per opporci a stereotipi negativi che sono sempre un pochino falsi, e
molto di più malvagi; non per i bigotti, perché i messaggi avranno il loro
effetto su di loro sia che ci credano sia che non ci credano” (p.
154).
Che l’Arcigay persegua un piano strategico molto simile a quello proposto
da Madsen e da Kirk è confermato da Giovanni Rossi Barilli, giornalista,
scrittore e militante gay: “Nell’epoca della tivù e del
virtuale, con un crescente predominio dell’apparire sull’essere, costruirsi una
buona immagine pubblica era estremamente importante ed era un obiettivo che
l’Arcigay si mise a perseguire con determinazione. Grazie soprattutto al
metodico lavoro di Franco Grillini […] l’associazione aveva
ben presente che uno dei suoi scopi fondamentali era far parlare di sé, avere il
massimo dell’attenzione da parte dei mezzi di informazione. Per dirla con una
formula destinata a grande successo, “essere visibili”. […]
“L’Arcigay, nella rappresentazione dei mass media, è diventata la portavoce
quasi unica degli omosessuali italiani, la massima proiezione di quello che
altrove si chiama a buon diritto comunità gay” (15). A
proposito di quest’ultima considerazione di Rossi Barilli, si può osservare che
Kirk e Madsen pongono, per il perseguimento degli obiettivi prefissati, la
seguente condizione: “Vi dovrebbe essere soltanto una organizzazione gay,
riconosciuta come tale” (p. 249). È facile immaginare quali siano le
conseguenze di questa scelta, per esempio, per gli omosessuali che non
condividono lo stile di vita gay i quali, infatti, pur essendo
la maggioranza, sono praticamente invisibili.
Questa strategia è stata condotta attraverso campagne mirate, scelte
accuratamente. Propongo un esempio di bruciante attualità: “Si apre un
pubblico dibattito sulle unioni civili, che sempre più diventano la questione
prioritaria nell’agenda dell’Arcigay. E questo non accade perché migliaia di
coppie omo scalmanate diano l’assedio al quartier generale per poter coronare
il loro sogno d’amore. Anzi, il numero delle coppie disposte a impegnarsi per avere
il riconoscimento legale è addirittura trascurabile […].
“Ma il punto vero è che le unioni civili sono un obiettivo simbolico
formidabile. Rappresentano infatti la legittimazione dell’identità gay e
lesbica attraverso una battaglia di libertà come quelle sul divorzio o
sull’aborto, che dispone di argomenti semplici e convincenti: primo fra tutti
la proclamazione di un modello normativo di omosessualità risolto e
rassicurante. Con la torta nel forno e le tendine alle finestre, come l’ha
definito una voce maligna. Il messaggio è più o meno il seguente: i gay non
sono individui soli, meschini e nevrotici, ma persone splendide, affidabili ed
equilibrate, tanto responsabili da desiderare di mettere su famiglia. Con
questo look “affettivo” non esente da rischi di perbenismo si fa appello ai
sentimenti più profondi della nazione e si vede a portata di mano il traguardo
della normalità. […] A questa porta si bussa con discrezione, assicurando che
non si vuole assolutamente il matrimonio omosessuale: questa prospettiva fa
inorridire gli stessi gay. E nemmeno si rivendica la possibilità di adottare
figli per le coppie omo, perché i tempi non sono maturi. Ci si accontenterebbe
di regolare la questione dell’eredità, della pensione, dell’affitto, della
reciproca assistenza fra i partner” (16).
Kirk e Madsen, che consigliano l’utilizzo strategico dell’argomento delle
unioni gay, sottolineano il modo più efficace per presentare il
messaggio: “Noi non stiamo combattendo per sradicare
la Famiglia: stiamo combattendo per il diritto a essere Famiglia” (p.
380).
V. Che dire? È davvero folkloristico il parlare di una lobby gay? È frutto di complottismo paranoico pensare a una strategia messa in atto dal movimento gay? Oppure After the ball. How America will conquer its fear & hatred of Gays in the 90’s può aiutare a “distinguere i segni dei tempi” (Mt. 16, 3)?
“Dopo ogni rivoluzione – insegna Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) – il rivoluzionario ci avvisa che la vera rivoluzione sarà la rivoluzione di domani” (17).
E Kirk e Madsen confermano: “For, you see, the ball is over. […] Tomorrow, the real gay revolution begins”, “Come vedi, il ballo è finito. […] Domani inizia la vera rivoluzione gay” (ibidem).
* * *
(1) Cfr. Joseph Nicolosi, Omosessualità maschile: un nuovo approccio,
trad. it., con Presentazione di Chiara Atzori e Postfazione di
Livio Fanzaga S.P., Sugarco, Milano 2002, pp. 15-17 (recensione di Bruto Maria
Bruti, in Cristianità, anno XXXII, n. 321, gennaio-febbraio 2004,
pp. 18-22).
(2) Cfr. Marshall Kirk e Hunter Madsen, After the ball. How
America will conquer its fear & hatred of Gays in the 90’s, Plume, New
York 1990. Tutte le citazioni senza rimando in nota sono tratte da quest’opera e la
loro paginazione è posta nel testo fra parentesi.
(3) Cfr. il riferimento al marxismo del movimento gay italiano,
in Gianni Rossi Barilli, Il movimento gay in Italia, Feltrinelli,
Milano 1999; e in Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale, a
cura di G. Rossi Barilli e Paola Mieli, Feltrinelli, Milano 2002.
(4) Cfr. la teoria della “desensibilizzazione sistematica”, in Joseph
Wolpe (1915-1997), Psychotherapy by reciprocal inhibition, Stanford
University Press, Stanford (California) 1958; cfr. pure Pio Scilligo, La
psicoterapia: Storia, modelli, orientamenti e tendenze moderne, in Psicologia
Psicoterapia e Salute, vol. 2, n. 1, Roma 1996, pp. 1-34.
(5) Cfr. Leon Festinger, Teoria della dissonanza cognitiva,
trad. it., con Prefazione di Gustavo Iacono, Franco Angeli,
Milano 2001.
(6) Cfr. il mio Il feticcio (omosessuale) dell’omofobia, in Studi
Cattolici. Mensile di studi e attualità, anno XLIX, n. 528, Milano febbraio
2005, pp. 112-116.
(7) Cfr. Omosessualismo: nuova ondata di propaganda nei
mass-media, in Corrispondenza Romana, n. 880, Roma 27-11-2004,
p. 1.
(8) Cfr., per esempio, Jeannine Gramick S.S. N.D. e Robert Nugentm
S.D.S., Anime gay. Gli omosessuali e la Chiesa cattolica, trad. it.
a cura di Andrea Ambrogetti, Editori Riuniti, Roma 2003; sui due autori, cfr.
sui due autori, cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Notificazione
riguardante Suor Jeannine Gramick, SSND, e Padre Robert Nugent, SDS., Roma
31 maggio 1999, in L’Osservatore Romano, Città del Vaticano
14-7-1999; cfr. pure Domenico Pezzini, Le mani del vasaio. Un figlio
omosessuale: che fare?, prefazione di Giannino Piana, Ancora, Milano 2004,
su cui cfr. il mio Omosessualità, un libro equivoco per un problema
serio, ne il Timone. Mensile di informazione e formazione
apologetica, anno VI, n. 38, Fagnano Olona (Varese) dicembre 2004, p. 10.
(9) Cfr. J. Nicolosi, Omosessualità maschile: un nuovo approccio,
cit.; Idem e Linda Ames Nicolosi, Omosessualità. Una guida per i
genitori, trad. it., con Presentazione di C. Atzori,
Milano, Sugarco 2003; Gerard van den Aardweg, Omosessualità e speranza.
Terapia & guarigione nell’esperienza di uno psicologo, trad. it.,
con Introduzione di Paul C. Vitz, Ares, Milano 1995;
Idem, Una strada per il domani, guida all'(auto)terapia
dell’omosessualità, trad. it., Città Nuova, Roma 2004; B. M. Bruti, Omosessualità:
vizio o programmazione biologica?, in Cristianità, anno XXIII,
n. 243-244, luglio-agosto 1995, pp. 5-12; e Idem, Domande e risposte
sul problema dell’omosessualità, ibid., anno XXX, n. 314,
novembre-dicembre 2002, pp. 7-24.
(10) Cfr. <http://groups.google.it/groups?q=ilga+nambla&hl=it&lr=&selm=2icgo2%24t6%40panix2.panix.com&rnum=2>, visitato il 28
febbraio 2005.
(11) Cfr. 103d Congress, 2d Session, 26 january 1994, Sec. 102.
International Organizations, Programs and Conferences, (g) Withholding of
funds, in <http://frwebgate.access.gpo.govcgibin/useftp.cgi?IPaddress=162.140.64.89&filename=h2333enr.pdf&directory=/disk3/wais/data/103_cong_bills>, visitato il 28 febbraio 2005.
(12) Franco Grillini, Intervista a Il Giorno, cit. in G. Rossi
Barilli, op. cit., p. 217.
(13)Via la maschera, in Babilonia. Mensile gay e lesbico, n. 115, Milano ottobre
1993, cit. in G. Rossi Barilli, op. cit., p. 217.
(14) Il riferimento è al protagonista del romanzo La capanna dello
zio Tom, del 1852, opera della scrittrice statunitense Harriet Beecher
Stowe (1811-1896), in cui lo zio Tom viene descritto come uno schiavo sottomesso
ai padroni, dei quali cerca d’imitare i comportamenti al fine di soddisfarne i
desideri: Harriet Beecher Stowe, La capanna dello zio Tom, trad.
it., con Introduzione di Vito Amoroso, Rizzoli, Milano 2001.
(15) G. Rossi Barilli, op. cit., pp. 161-162.
(16) Ibid., p. 212; cfr. pure TFP Commitee on American
Issues, Defending A Higher Law. Why We Must Resist Same-Sex “Marriage”
and the Homosexual Movement, The American Society for the Defense of
Tradition, Family and Property, Spring Grove (Pennsylvania) 2004, pp. 43-45.
(17) Nicolás Gómez Dávila, In margine a un testo implicito,
trad. it., a cura e con una postfazione, Un angelo prigioniero nel
tempo, di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2001, p. 18
Cristianità n.327 (2005)
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