L’omaggio a Claudio Chieffo, morto nel 2007. "Ho un rapporto profondo con la fede, sognavo un album religioso"
di MASSIMO PANDOLFI
Il nome e
il cognome, Claudio Chieffo, diranno poco o nulla alla stragrande maggioranza
di voi. Ma se alla carta d’identità aggiungiamo altro, la musica – nel senso
letterale del termine – cambia.
Le canzoni di Chieffo (1945-2007) hanno fatto il giro d’Italia, del mondo. Lo chiamavano il poeta, il cantautore di Dio, il Giorgio Gaber cristiano. Milioni di italiani, centinaia di milioni di abitanti del pianeta, hanno almeno una volta sentito o canticchiato (in chiesa, al catechismo, a scuola, in piazza, sotto la doccia) uno dei 113 motivi che hanno accompagnato la vita di questo romagnolo verace che per anni saliva sul suo vecchio e sgangherato Ducato Fiat, macinava migliaia di chilometri per cantare (3mila concerti in carriera), perché nella vita bisogna avere «degli amici per cui cantare, una macchina per andare, una casa dove tornare».
Questo motto è diventato l’incipit del disco
tributo che uno dei suoi figli, Benedetto, ha voluto dedicargli. «Con le
canzoni di mio padre ho ricevuto un grande tesoro, un tesoro da condividere».
Ventidue artisti della musica, e non solo della musica, cantano gratuitamente
22 canzoni di Claudio Chieffo.
Il disco
esce la prossima settimana (acquisti dal 5 novembre su: http://chieffo.it/. Il
titolo del disco è "Chieffo Charity Tribute") è tutto a fin di bene.
Il ricavato andrà per aiutare i bambini del Kenia, attraverso Avsi. Ci sono
Luca Carboni, Gioele Dix, Omar Pedrini, Davide Van de Sfroos, Paolo Fresu,
Giacomo Lariccia, tanti altri. Paolo Cevoli canta ‘Avrei voluto essere una
banda’, «canzone che – spiega il comico – racconta la storia di un ‘pataca’,
proprio come me».
Al funerale di Claudio Chieffo, ucciso 14 anni fa da un tumore, c’era davvero la banda, insieme a 5mila persone che lo hanno accompagnato nella sua Forlì per l’ultimo viaggio, intonando questa canzone. Lui chiese ai familiari di organizzare una grande festa-concerto per il suo addio e a moglie e figli, negli ultimi mesi della malattia, raccomandava in continuazione: ‘In questi mesi difficili non arrabbiatevi troppo con Lui’. Per Lui, si riferiva a Dio.
Luca Carboni, ma lei ha conosciuto Claudio
Chieffo?
"No,
ma da ragazzino cantavo le sue canzoni, in parrocchia, fuori Porta Lame, nella
mia Bologna. Cominciai in una chiesa- prefabbricato: il cappellano, don Felice,
ci lasciava le chiavi e noi ragazzi potevamo suonare. Lì dentro c’era tutto, a
parte la batteria che dovevamo portare noi. Con don Felice c’era un patto: non
dovevamo fare troppo casino, per il resto eravamo liberi".
E lei cantava Chieffo...
"Ricordo
quella canzone, ‘Io non sono degno’, che ora interpreto in questo disco
tributo. Parole forti, importanti. E mi viene in mente tutto il mondo che c’era
dietro a quel mio periodo adolescenziale: mia madre catechista, la messa Beat
con le chitarre, mio fratello che suonava anche l’organo in chiesa, oltre alla
chitarra".
Lei canta ‘Io non sono degno’: come si fa
ad essere degni di qualcosa?
"Devo
confessarle una cosa: a volte, in tutti questi anni di musica, ho accarezzato
l’idea di scrivere un album diciamo così religioso. Meglio ancora: musicare e
scrivere una messa a modo mio".
E perché non lo ha mai fatto?
"Perché
è rimasto per ora solo un progetto mentale. Forse alla fine non mi sono mai
sentito pronto, degno".
Ora però?
"Chissà
che dopo questa opportunità che mi ha dato Benedetto, il figlio di Claudio
Chieffo, non si rimetta in moto qualcosa dentro di me".
Pensa alla fede?
"Quella
c’è. Il mio rapporto con Dio e intenso e profondo. Mia madre mi ha aperto una
finestra sul divino che non si chiuderà mai. Anch’io ho attraversato e
attraverso diverse fasi e in diversi modi. Ultimamente sono più sensibile a
sentire, ascoltare questa mia dimensione. Vado a messa, mi fa star bene, mi
aiuta molto".
Non è un cammino sempre automatico questo?
"In
’Io non sono degno’ a un certo punto si canta: ‘Io non ho nulla da donare a te
ma se tu lo vuoi prendi me’. Ecco, sentirsi nelle mani di qualcun altro. Ci vuole
una grande umiltà, riconoscersi nei proprio limiti. L’io che non diventa Dio. È
una canzone bella e struggente".
È vero che prima di salire sul palco e
cantare lei si fa il segno della croce?
"Sì,
e non è una superstizione. Prego lo Spirtito Santo di aiutarmi a trovare le
parole giuste. Me lo ha insegnato mia madre".
Lei più volte ha cantato Dio. In ‘ Dio in
cosa credi’ dice: ‘Sarà solo lassù, chissà se guarda giù’.
"Sì,
da questa mia canzone esplode anche il dubbio, la curiosità su tutto ciò che
non si sa".
Chieffo
una volta disse: "Il nostro compito più grande è cantare la bellezza di
Dio. E’ lui il capo, Su questo non ho dubbi e incertezze".
"Io
nel mio cammino di di incertezze ne ho avute tante. Sicuramente l’arte di
Claudio Chieffo, era invece fondata sulla certezza".
Ma non è che a forza di cantare Dio si
finisce per diventare un cantante discriminato, magari di serie B?
"Ma
no, non credo. Ciò che conta è la validità dell’opera, non il genere".
È vero che un cardinale ha fatto una
predica con una sua canzone?
"Sì,
a Firenze, tanti anni fa. Fu una sorpresa bellissima. L’allora cardinale
Piovanelli aprì il mio cd e citò pubblicamente nell’omelia il brano ‘La mia
ragazza’ dove racconto la nascita di mio figlio".
In ’Silvia lo sai’, ricorda nell’adolescenza
un "Dio cattivo e noioso, preso andando a dottrina"..
"Sì,
e il famoso don Felice, quello che ci apriva di nascosto la chiesa per suonare,
ci rimase male. Mi scrisse una lettera, ci chiarimmo. Io volevo solo dire che
non mi piaceva veder l’immagine del Dio che giudica. Non ho cambiato idea:
molto meglio il Dio che ama".
DA ILRESTODELCARLINO
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