sabato 30 maggio 2020

FALCONE VA RICORDATO CON I SUOI PERSECUTORI



Quest'anno, ricordo in ritardo l'assassinio di Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani: tragica conclusione della lotta al magistrato, l'unico che, con Borsellino, seppe comporre un puzzle lungo 460 nomi criminali, tutti condannati sino in Cassazione, mettendo indirettamente a nudo il mare di complicità e di inefficienze, precedente, contemporaneo e successivo alla loro morte.

Non è un caso che, dopo il «maxiprocesso» non si sia mai stato imbastito un processo simile per dimensioni ed effetti. Segno che il «Metodo Falcone», fondato sulla ricerca ossessiva di indizi e prove, e solo su di esse, e su un lavoro maniacale di incroci e di riscontri (negli anni 80 la tecnologia informatica era ai primordi) è rimasto nei limiti dei racconti epici di quel periodo cruciale. Niente teoremi: solo assunzioni riscontrabili.
Per questo, rammento che poco prima dell'assassinio, Repubblica scrisse di non riuscire a guardare con rispetto Falcone, consigliandogli di dimettersi dalla magistratura, data la sua eruzione di vanità tipica dei guitti televisivi. Sulla medesima strada, Leoluca Orlando accusò Falcone di tenersi le carte nei cassetti e presentò, in proposito, un esposto al Csm. Lo stesso organismo (il Csm) che gli aveva anteposto Antonino Meli, il magistrato che sciolse il pool antimafia. Armando Spataro, già procuratore della Repubblica a Torino, riferendosi al suo progetto di procura nazionale antimafia lo accusò di volersi mettere al volante della ferraglia che aveva costruito e, non contento, lo indicò alla riprovazione generale per essersi fatto vedere in pubblico insieme a Claudio Martelli, ministro della giustizia. Falcone era direttore generale di quel ministero. Per il ruolo di Csm e Parlamento suggerisco di ricorrere a Google.
Voglio aggiungere che i nemici di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino non si annidavano solo negli antri mafiosi, ma anche nelle sale non luminose di alcuni uffici giudiziari palermitani e non.
Insomma, ricordare Falcone per non dimenticare i suoi persecutori: essi mostrarono alla mafia che lo Stato non lo sosteneva sino in fondo.
Domenico Cacopardo
Italiaoggi

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