Non sarà forse
che siamo tornati ad un normale ritmo di vita? Che non è il virus
l’alterazione della norma, ma proprio l’opposto — che quel mondo febbrile di
prima del virus era anormale?
di Olga
Tokarczuk, premio Nobel per la letteratura 2019
Gelso bianco |
Dalla mia finestra vedo un gelso bianco, è un albero
che mi affascina ed è stato uno dei motivi per cui mi sono trasferita qui. Il
gelso è una pianta generosa — per tutta la primavera e per tutta l’estate nutre
decine di famiglie di uccelli con i suoi frutti dolci e sani. Adesso invece il
gelso non ha foglie, intravedo quindi un tratto della strada silenziosa dove di
rado passa qualcuno, camminando verso il parco. A Wroclaw è praticamente
estate, splende un sole accecante, il cielo è azzurro e l’aria pulita. Oggi,
durante la passeggiata con il cane ho visto due gazze che scacciavano un gufo
dal loro nido. Ci siamo guardati negli occhi, io e il gufo, a distanza di meno
di un metro.
Ho l’impressione che anche gli animali aspettino
cosa succederà. Per me da molto tempo ormai il mondo era troppo. Troppo, troppo veloce,
troppo rumoroso. Non ho quindi il «trauma dell’isolamento» e non soffro di non
poter incontrare nessuno. Non mi dispiace che abbiano chiuso i cinema, mi è
indifferente che i centri commerciali siano fuori servizio. Forse soltanto se
penso a tutti quelli che con questo hanno perso il lavoro. Quando ho saputo
della quarantena di prevenzione ho sentito qualcosa di simile a un sollievo e
so che molti lo sentono, benché se ne vergognino. La mia introversione,
costretta e maltrattata dai dettami degli estroversi iperattivi, si è data una
spolverata ed è uscita dall’armadio.
Vedo dalla finestra il vicino di casa, un avvocato
sempre molto indaffarato che solo poco fa vedevo uscire presto, di mattina, per
andare in tribunale con la toga appoggiata al braccio. Adesso indossa una tuta
sformata e combatte con un ramo in giardino, forse si è messo a fare le
pulizie. Vedo una coppia di giovani ragazzi che portano a spasso un vecchio
cane che da quest’inverno quasi non cammina. Il cane si trascina sulle gambe,
ma loro, pazienti, gli fanno compagnia rallentando più che possono il passo. Il
camion della spazzatura con grande rumore raccoglie i sacchi.
La vita scorre, eccome, ma a un ritmo completamente
diverso. Ho fatto ordine nell’armadio e ho portato i giornali già letti nel
contenitore della carta. Ho trapiantato i fiori. Ho ritirato la bicicletta dal
ciclista. Cucinare mi rende felice. Insistentemente mi tornano in testa i
ricordi d’infanzia, quando c’era molto più tempo ed era possibile «sprecarlo»,
guardando dalla finestra per ore, osservando le formiche, rimanendo sotto il
tavolino immaginandosi che fosse un’arca. Oppure leggendo un’enciclopedia.
O non sarà
forse che siamo tonati ad un normale ritmo di vita? Che non è il virus
l’alterazione della norma, ma proprio l’opposto — che quel mondo febbrile di
prima del virus era anormale? Il virus del resto ci ha ricordato qualcosa che
abbiamo negato con passione — che siamo esseri fragili, costruiti della materia
più delicata. Che moriamo, che siamo mortali. Che non siamo separati dal mondo
con la nostra «umanità» ed eccezionalità, ma il mondo è parte di una grande
rete alla quale apparteniamo, collegati agli altri esseri tramite un invisibile
filo di responsabilità e influenza. Che siamo dipendenti da noi stessi e, al di
là di quanto lontano sia il Paese da cui veniamo, la lingua che parliamo o il
colore della nostra pelle, comunque ci ammaliamo, comunque abbiamo paura e
comunque moriamo.
Ci ha fatto capire che indipendentemente da quanto ci sentiamo deboli e indifesi di fronte ai
pericoli, ci sono intorno a noi persone ancora più deboli, che hanno bisogno di
aiuto. Ci ha ricordato di quanto siano delicati i nostri genitori anziani e i
nonni e di quanto abbiano diritto alla nostra cura. Ci ha mostrato che la
nostra frenetica mobilità mette in pericolo il mondo. E ha evocato quella domanda che di rado abbiamo avuto il coraggio di
porci: che cosa cerchiamo davvero?
La paura di fronte alla malattia, quindi, ci ha fatto tornare indietro da
quella strada ingarbugliata e ci ha costretti a ricordare l’esistenza del nido
da cui veniamo e dove ci sentiamo al sicuro. E persino se fossimo chissà quali
straordinari viaggiatori, in una situazione come questa, cercheremmo riparo in
una casa. Con questo ci si sono rivelate
delle tristi verità — che in tempo di pericolo il pensiero torna alle
categorie chiuse ed esclusive delle nazioni e dei confini. In questo momento
difficile è venuto fuori quanto sia debole, in pratica, l’idea di comunione
europea. L’Unione, di fatto, ha rinunciato alla partita a tavolino e ha
lasciato le decisioni in tempo di crisi agli Stati nazionali. Ritengo la
chiusura dei confini una delle più grandi sconfitte di questi nostri tempi
magri — sono tornati i vecchi egoismi e le categorie di «noi» e «loro», ossia
ciò contro cui abbiamo lottato negli ultimi anni con la speranza che non
avrebbe mai più formato il nostro pensiero.
La paura davanti al virus ha richiamato
automaticamente le condizioni ataviche
più banali, che i colpevoli sono altri e che loro, sempre da un altrove,
portano il pericolo. In Europa il virus viene «da», non è nostro, è
straniero. In Polonia, tutti quelli che sono rientrati dall’estero sono
diventati sospetti L’ondata violenta della chiusura dei confini, le mostruose
file ai valichi di frontiera per molti giovani sono state di sicuro uno choc.
Il virus ce lo
ricorda: i confini esistono e stanno bene.
Sappiamo inoltre che il virus ci ricorderà in fretta un’altra vecchia verità, quanto davvero non
siamo uguali. Alcuni di noi volano con aerei privati a casa su un’isola
oppure stanno isolati nel bosco, altri rimangono in città per lavorare in una
centrale elettrica o a un acquedotto. Altri ancora rischieranno la salute
lavorando nei negozi e negli ospedali. Alcuni guadagneranno con l’epidemia,
altri perderanno i risparmi di una vita intera. La crisi, quando arriva,
compromette quelle regole che ci sembravano stabili, molti Paesi non riusciranno
a gestirla e di fronte alla loro decomposizione si risveglieranno ordini nuovi,
come spesso accade dopo le crisi.
Rimaniamo in casa, leggiamo i libri e guardiamo le
serie in televisione, ma in realtà ci
stiamo preparando alla grande battaglia per una nuova realtà che non siamo
neanche in grado di immaginare, comprendendo lentamente, che niente ormai
sarà più come era prima. La situazione della quarantena obbligatoria e
dell’acquartieramento della famiglia in casa forse può farci capire qualcosa
che proprio non vorremmo ammettere, e cioè che la famiglia ci stanca, che i
legami matrimoniali si sono allentati da tempo. I nostri figli usciranno dalla
quarantena dipendenti da Internet e molti di noi comprenderanno l’inutilità e
la sterilità della situazione nella quale meccanicamente e per moto d’inerzia
rimangono bloccati. E cosa dire se aumenterà il numero degli omicidi, dei
suicidi e delle malattie mentali?
Davanti ai nostri occhi si dissolve come nebbia al sole il paradigma della
civiltà che ci ha formato negli ultimi duecento anni: che siamo i signori del
Creato, possiamo tutto e il mondo appartiene a noi.
Stanno arrivando tempi nuovi.
Questo articolo è stato pubblicato sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung e tradotto sul Corriere
della Sera del 3 aprile
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