Quest'anno, ricordo in ritardo l'assassinio di Giovanni Falcone con la
moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio
Montinaro e Vito Schifani: tragica conclusione della lotta al magistrato,
l'unico che, con Borsellino, seppe comporre un puzzle lungo 460 nomi criminali,
tutti condannati sino in Cassazione, mettendo indirettamente a nudo il mare di
complicità e di inefficienze, precedente, contemporaneo e successivo alla loro
morte.
Non è un caso che, dopo il «maxiprocesso» non si sia mai stato imbastito un
processo simile per dimensioni ed effetti. Segno che il «Metodo Falcone»,
fondato sulla ricerca ossessiva di indizi e prove, e solo su di esse, e su un
lavoro maniacale di incroci e di riscontri (negli anni 80 la tecnologia
informatica era ai primordi) è rimasto nei limiti dei racconti epici di quel
periodo cruciale. Niente teoremi: solo assunzioni riscontrabili.
Per questo, rammento che poco prima dell'assassinio, Repubblica scrisse di non riuscire a guardare con rispetto Falcone, consigliandogli
di dimettersi dalla magistratura, data la sua eruzione di vanità tipica dei
guitti televisivi. Sulla medesima strada, Leoluca
Orlando accusò Falcone di tenersi le carte nei cassetti e presentò, in
proposito, un esposto al Csm. Lo stesso organismo (il Csm) che gli aveva
anteposto Antonino Meli, il magistrato che sciolse il pool antimafia. Armando Spataro, già procuratore della
Repubblica a Torino, riferendosi al suo progetto di procura nazionale
antimafia lo accusò di volersi
mettere al volante della ferraglia che aveva costruito e, non contento, lo indicò alla riprovazione generale per
essersi fatto vedere in pubblico insieme a Claudio Martelli, ministro della
giustizia. Falcone era direttore generale di quel ministero. Per il ruolo di Csm e Parlamento suggerisco
di ricorrere a Google.
Voglio
aggiungere che i nemici di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino non si
annidavano solo negli antri mafiosi, ma anche nelle sale non luminose di alcuni
uffici giudiziari palermitani e non.
Insomma, ricordare Falcone per non dimenticare i suoi persecutori: essi
mostrarono alla mafia che lo Stato non lo sosteneva sino in fondo.
Domenico Cacopardo
Italiaoggi
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