Giù le mani dal papa. Bisogna
ripeterlo oggi che Francesco si trova strattonato a destra e a sinistra.
Bersagliato da contestatori
cattolici superficiali e imprudenti che lo rappresentano come modernista
eterodosso e stravolto da sostenitori laicisti che lo applaudono attribuendogli
idee egualmente eterodosse e quasi atee.
Un circo mediatico assurdo.
Come se non bastasse a questi due
schieramenti se ne aggiunge un terzo, quelli dei neobergogliani
fondamentalisti, che si sentono “superapostoli” di questo papa e “giudicano”
chi, fra i credenti, ha la fede e la grazia, e chi no.
Ma di
questi dirò in conclusione.
SENZA DIO?
Comincio dal caso più eclatante: quello
di “Repubblica”. Martedì scorso, un editoriale di prima pagina di Ian Buruma,
che sembra ignaro di secoli di dottrina cattolica relativa alla “retta
coscienza”, attribuiva al papa l’idea che “non è poi necessario che Dio o la
Chiesa ci dicano come dobbiamo comportarci. Basta la nostra coscienza”.
L’editorialista traeva la
conclusione che papa Francesco starebbe così abbattendo il credo cattolico:
“nemmeno i protestanti più devoti si spingerebbero tanto lontano. I protestanti
si sono limitati ad eliminare i preti in quanto tramite tra l’individuo e il
suo creatore. Le parole di papa Francesco lasciano pensare invece che quella di
eliminare lo stesso Dio potrebbe rappresentare un’opzione legittima”.
Abbiamo letto bene? Dunque, secondo
quanto sta scritto sulla prima pagina di “Repubblica”, papa Francesco vorrebbe
insegnare a “eliminare Dio”?
In realtà lo stesso Buruma poi
giudica “un po’ sconcertante” tale idea. Per la precisione è una colossale
sciocchezza. Che neanche meriterebbe una confutazione.
Siccome però qualche lettore laico
di “Repubblica” o qualche cattolico intransigente potrebbe crederci (e magari
partire all’attacco del Papa), faccio sommessamente notare che il vero
magistero di Francesco insegna esattamente il contrario di quella nozione di coscienza
che il giornale scalfariano gli attribuisce.
FRANCESCO CONTRO IL RELATIVISMO
Proprio l’11 ottobre, quattro giorni
prima dell’editoriale di Buruma, ricevendo una delegazione della comunità
ebraica di Roma, Francesco ha fatto un discorso importante e solenne in cui ha
insistito a chiedere una collaborazione col mondo ebraico sui principi morali,
indicandone la base nella “testimonianza alla verità delle dieci parole, il
Decalogo”.
I Dieci Comandamenti, ha detto il
Papa, sono “solido fondamento e sorgente di vita anche per la nostra società”,
indicandone dunque la validità anche per la vita sociale e politica.
Poi ha sottolineato che del
Decalogo, legge consegnata da Dio a Mosè sul Sinai, c’è estremo bisogno perché
la società del nostro tempo è “così disorientata da un pluralismo estremo delle
scelte e degli orientamenti, e segnata da un relativismo che porta a non avere
più punti di riferimento solidi e sicuri”.
Francesco ha dunque richiamato il
magistero di Benedetto XVI per affermare che nel Decalogo la coscienza trova il
suo ancoraggio sicuro, contro il dilagante relativismo.
Con tanti saluti a “Repubblica”, a
Scalfari e a Buruma. Questo è il magistero di papa Francesco. Ed è stato questo
fin dall’inizio. Identico peraltro a ciò che insegnava come cardinale
arcivescovo di Buenos Aires: un recente articolo di Alessandro Martinetti lo ha
dimostrato mettendo a confronto, su alcuni temi scottanti, i suoi testi (del
tutto in linea con Ratzinger) con quelli, molto diversi, del cardinal Martini.
IL POTERE DEL PAPA
Del resto Papa Francesco si è
proclamato ripetutamente “figlio della Chiesa” e la Chiesa sempre e dovunque ha
insegnato la stessa dottrina, fino a Benedetto XVI, passando per il Concilio
Vaticano II che nella “Gaudium et spes” afferma: “Nell’intimo della coscienza
l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve
obbedire”.
Se così non fosse, se non esistesse
la Verità oggettiva e se l’uomo potesse decidere soggettivamente cosa è Bene e
cosa è Male, tutto diventerebbe arbitrariamente autogiustificabile (anche per
soggetti come Priebke, Stalin e Hitler).
S’illude chi spera che papa
Francesco possa ribaltare ciò che la Chiesa ha sempre insegnato e professato.
Non ha neanche il potere di farlo.
Molti, a “Repubblica”, ma anche fra
i cattolici, ignorano perfino qual è lo “statuto” del papato: al papa è
consegnato il “depositum fidei”, la verità rivelata e sempre professata,
affinché la custodisca e la difenda. Ma non può assolutamente sovvertirla.
Nessun papa ha tale potere perché nel momento stesso in cui insegnasse una
verità diversa decadrebbe e non sarebbe più papa.
Ha scritto Joseph Ratzinger: “Il
Papa non è un monarca assoluto la cui volontà abbia valore di legge. Egli è la
voce della tradizione e solo a partire da essa si fonda la sua autorità”.
Quindi sono totalmente fuori strada
sia certi fans laicisti, sia i cattolici intransigenti che lo contestano per lo
stesso (assurdo) motivo.
I laicisti con Francesco faranno la
fine di quei loro predecessori che acclamavano Pio IX per usarlo politicamente
contro l’Austria e indurlo a fare la guerra: appena si accorsero che il Papa
non si faceva “usare”, lo trasformarono nel loro peggior nemico.
Per questo il grande e saggio don
Bosco insegnava ai suoi ragazzi a gridare non “Viva Pio IX”, come facevano
certi laici, ma “Viva il papa”.
E ancora meglio Francesco, in più di
una occasione, a chi acclamava il suo nome (“Francesco, Francesco”), ha chiesto
piuttosto di acclamare “Gesù! Gesù!”. Perché il Salvatore è Lui, non il papa.
Proprio considerando questo
desiderio di papa Francesco di mettere al centro Cristo e non se stesso (come
ha fatto con grande umiltà Ratzinger), bisogna segnalare che c’è una terza
categoria di persone che fraintendono.
I TROPPO ZELANTI
Penso, tanto per fare un nome, alla
neoeditorialista di Avvenire Stefania Falasca. Conosco Stefania da più di 20
anni, perché era redattrice di “30 Giorni” mentre io ne ero direttore.
Quando ho letto il suo editoriale
sull’“Avvenire” di giovedì ho pensato: sia pure involontariamente queste
invettive rischiano di danneggiare il papa più dei suoi critici.
Anzitutto perché – su questo ha
ragione Giuliano Ferrara – sotto la “scomunica” falaschiana contro i “rigidi
eticisti” cade tutta la linea ruiniana-wojtyliana-ratzingeriana dello stesso
“Avvenire” fino ad oggi (e magari, se la si capovolge, si dovrebbe dare qualche
spiegazione).
Ma soprattutto quei fulmini – contro
gli “specialisti del Logos” – rischiano di finire in pieno su pontefici del
rango di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e sul loro magistero.
Un “lusso” che nessuno può
permettersi. Specialmente se non si ha nemmeno l’attrezzatura culturale per
discutere. Non si fa un favore a papa Francesco a lanciare questi anatemi sotto
la sua insegna.
Del resto è alquanto paradossale che
in nome del cristianesimo della “tenerezza” si scaglino fulmini su dei
credenti, pretendendo di giudicare loro, la loro coscienza e la loro fede.
Non che nella Chiesa non esistano
effettivamente dei “rigidi eticisti”. Ce ne sono, ha ragione su questo la
Falasca: hanno pure contestato il cardinal Ruini, la Cei e implicitamente
Ratzinger e Wojtyla perché non hanno “scomunicato” la legge 40 sulla
procreazione assistita.
Ma sono pochissimi e non mettono
certo a rischio la Chiesa come i tanti (anche teologi) che vengono a patti con
le ideologie del mondo (e contro cui nulla si dice).
Inoltre anche i cosiddetti “rigidi
eticisti” (che di solito sono bravi cattolici, persone di grande fede e in
certi casi eroici nelle prove della vita) meritano di essere trattati con la
“tenerezza di Cristo” e con la paternità che il papa riserva a tutti.
Francesco è proteso a raggiungere
tutti, a riportare tutti a Cristo. E non vuole perdere nessuno. Sarebbe incredibile
una Chiesa dove ci fosse posto per tutti fuorché per i cattolici e per chi ama
la Chiesa stessa.
Di sicuro non è questo che il Papa
vuole. E non è di questo che la Chiesa ha bisogno.
Antonio Socci
Da “Libero”, 20 ottobre 2013
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