MONS.LUIGI NEGRI
Immigrati, il problema è da
dove fuggono
Ascoltando le reazioni alla tragedia di Lampedusa non si può fare a meno di
rilevare una ipocrisia così diffusa che finisce per essere una connivenza, una
collusione con i responsabili di questa situazione che sembra incredibile in
una realtà sociale come quella in cui viviamo.
Come pochi vanno ripetendo da molto tempo, il problema degli sbarchi non è
la questione che spiega ciò che è accaduto. In questo senso hanno perfettamente
ragione coloro che dicono che queste tragedie si potranno ripresentare a
scadenze che sono anche largamente prevedibili sul piano temporale, se non si
affronta la questione in tutti i suoi fattori e identificando le responsabilità.
Anzitutto però è doveroso riconoscere che il popolo italiano, in questo
caso come in tutti i casi precedenti, ha mostrato una generosità e una capacità
di dedizione che fa onore alla nostra etnia; perché il nostro è un popolo
coraggioso, generoso, che si assume le responsabilità anche oltre il dovuto.
Vedere come questa gente anche in questo caso si è prodigata per ridurre
l’entità della strage, è una cosa che ci fa onore. Perciò ben venga un
amplissimo riconoscimento a questa popolazione, come quello del premio Nobel
per la pace, che così si riscatterebbe da altre e ben più infelici attribuzioni
date in un passato recente, vedi Obama.
Ma la vera questione è guardare da dove queste persone fuggono. Non si può
affrontare il problema prendendo in esame solo lo sbarco. Deve essere detto con
chiarezza che sono gravissime le responsabilità della comunità internazionale
perché queste persone fuggono da Stati dove non c’è libertà, non c’è pane, non
c’è giustizia, dove i diritti dell’uomo e della donna vengono sistematicamente
calpestati, dove – ci piaccia o no – un’ideologia di carattere religioso copre
e giustifica tutto questo, dove esistono satrapie locali intollerabili nel
terzo millennio, gente che vive concedendosi un lusso sfrenato depauperando le
risorse del popolo e della nazione. E questi regimi sono stati e sono sostenuti
non solo dai paesi occidentali, ma anche dalla Russia, dalla Cina. Sono
sostenuti per motivi economici o strategici, per accedere a fonti energetiche o
per il business della vendita delle armi.
E’ assurdo che la comunità internazionale non riesca a stroncare il
traffico di morte di questi scafisti, dietro i quali magari – visti gli
interessi economici pazzeschi – si celano organizzazioni insospettabili del
mondo occidentale, o dell’Estremo Oriente, o della Russia.
La prima cosa da cambiare è l’atteggiamento verso questi Stati e regimi,
che non devono essere più favoriti. Secondo: ci vuole un’azione forte e decisa
che stronchi questo indegno commercio di esseri umani che, come ha detto il
Papa, vengono spinti dalla fame e dalla mancanza di libertà, vengono da noi in
Occidente, nei paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo in cerca di vita,
di libertà e dignità, e muoiono come animali nei nostri mari.
Bisogna poi chiedersi che senso abbia tutto questo pullulare di
commissioni, sottocommissioni, di strutture dell’Onu, dell’Unione Europea che
appaiono come luoghi di enormi vaniloqui, di movimenti di opinione di carattere
ideologico che non si misurano mai in maniera positiva e costruttiva con il
problema. Centinaia e centinaia di funzionari dell’Onu che passano il tempo a
discutere di questi problemi in studi ovattati a migliaia di chilometri dal
teatro delle tragedie. E in Europa non si può scaricare il problema sulle
legislazioni nazionali: se ci sono 28 diverse legislazioni ciò non impedisce
che si arrivi a un minimo di uniformità e di intesa, che ci si assuma delle
responsabilità precise, operative ed energiche.
E ancora: il Medioevo cristiano di cui si parla così male perché lo si ignora,
ha comunque difeso le identità dell’Occidente; ha difeso la libertà, la cultura
e la civiltà dell’Occidente impegnandosi in confronti che hanno avuto qualche
volta la caratteristica di uno scontro duro. Non si può affrontare questi
problemi senza chiedersi fino a che punto una ideologia di tipo religioso che
certamente caratterizza il mondo islamico, o una parte di islam che è
certamente determinante sul piano pratico, sia responsabile del fanatismo in
parte dei luoghi di partenza, che provoca un esodo di tutti coloro che
rischiano di essere schiacciati.
Quando si discute questi problemi non si può semplicemente buttare la
responsabilità sulle istituzioni dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo,
o sull’adeguatezza o meno delle leggi che regolamentano questa materia: si deve
aprire il discorso a monte sulla situazione degli Stati da cui questa gente
fugge. E su questo punto bisogna che ci sia un atteggiamento non equivoco; non
che su una sostanziale connivenza poi si facciano dei distinguo di carattere
buonistico e reattivo.
Questo è certamente, come ha ricordato papa Francesco, il momento del
dolore; ma un dolore che deve dar luogo a una azione di conoscenza della
situazione e a una pressione sulle istituzioni internazionali perché il
problema venga affrontato secondo tutta la sua profondità di analisi e
soprattutto con la volontà di passare a una soluzione operativa.
Altrimenti gridando, indignandosi, con inutili silenzi o giornate di lutto nazionale, si può rischiare di creare un’ideologia della reazione e dell’indignazione che non dà luogo a nessuna operazione costruttiva.
Altrimenti gridando, indignandosi, con inutili silenzi o giornate di lutto nazionale, si può rischiare di creare un’ideologia della reazione e dell’indignazione che non dà luogo a nessuna operazione costruttiva.
Come dice l’enciclica di papa Francesco la fede vissuta come esperienza di
vita, come criterio di giudizio, come etica nuova e soprattutto come impeto
missionario nuovo pone nella società una scia di luce che illumina la vita e le
situazioni sociali.
Allora è giusto chiedere, non solo ai cattolici ma
anzitutto ai cattolici, che la loro sia una presenza intelligentemente motivata
e operativamente adeguata; e una assunzione di responsabilità senza cedere ad
alcun ricatto, che farebbe diventare conniventi con i responsabili di queste
immani tragedie.
Non è l’indignazione a impedire che tali tragedie avvengano. I problemi
possono cominciare ad essere avviati a una certa soluzione se tutti – singoli,
popoli, gruppi, nazioni e soprattutto istituzioni internazionali – si
prenderanno la loro responsabilità.
* Arvivescovo di Ferrara e Comacchio
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