STEFANO ANDRINI
Povero don Matteo. Alla decima stagione delle sue popolarissime avventure il prete con la bicicletta, interpretato da Terence Hill, è stato costretto a passare sotto le forche caudine della critica televisiva militante. Quella formata dagli ultimi giapponesi che, a guerra finita (anche Marx probabilmente si è arreso), continuano a sparare contro la religione oppio dei popoli. Un articolo del critico televisivo del “Fatto quotidiano” non lascia spazio a dubbi. Già a partire dal titolo. “Terence Hill sbanca l’Auditel: l’ennesimo trionfo della mediocrità”.
Lo ammetto, da utente abbastanza fedele della fiction, ho fatto un salto sulla sedia. Soprattutto dopo aver letto il sottotitolo “Dio stramaledica il paese reale”. Toni guerreschi da “quando c’era lui” che ti aspetteresti, che ne so, dalla politica, dal dibattito sul reato di clandestinità e sull’utero in affitto, dalle discussioni da bar sport sul futuro degli allenatori. Ma che, applicate a una fiction, decisamente sorprendono. E così prima mi sono incuriosito e poi a fine lettura ho allargato sconsolato le braccia.
La tesi dell’autore è la seguente: “Don Matteo è l’Italia. L’Italia è Don Matteo. Le chiacchiere stanno a zero e forse sarebbe il caso di prendere atto di questo incontrovertibile e sconfortante dato di fatto. È la stessa Italia che ha fatto trionfare Il Volo all’ultimo Sanremo. È l’Italia che guarda la Ghigliottina dell’Eredità prima del Tg1. È l’Italia che legge i libri di Fabio Volo. È l’Italia che condivide gattini e banalissime frasi su Facebook. È l’Italia”.
E poi l’assalto finale
con la baionetta. “Ma anche se fossimo gli unici a pensarlo in questo modo, non
ci arrenderemmo mai di fronte al trionfo del prete in bicicletta, bonario e
pacato, che risolve casi di cronaca nera con la facilità con cui sgrana il
Rosario. Noi stiamo sulle barricate
contro Don Matteo e, più in generale, contro la tv benzodiazepina che trionfa
perché rilassa, stordisce, addormenta, non perché è di qualità”.
Acciderbolina mi sono detto a bassa voce per non scandalizzare nessuno. Non basta l’invidia per il successo, antica malattia italica, a giustificare un attacco di artiglieria così pesante. E allora cosa c’è dietro? Da una parte un certo vezzo intellettuale dei maestri del pensiero nostrani che in pubblico bestemmiano contro il festival di Sanremo salvo poi adorarlo in privato, che sognano l’impossibile ritorno degli Inti Illimani mentre quando sono in bagno o al volante canticchiano gli 883 o Lucio Battisti.
Ma c’è di più. Una critica così pesante non può che nascondere qualcos’altro.
La rabbia, e il conseguente tentativo di
censura, per una iconografia televisiva (non solo fiction in questo caso) che
mostra preti vicini alla gente, nelle periferie del mondo direbbe il Papa.
Preti, come don
Camillo, padre Brown e lo stesso don Matteo che non si vergognano di tenere in mano il rosario ma che, anche di
fronte al male, usano tre ingredienti che alla società contemporanea sembrano
dal “sen sfuggiti”: la ragione, il buon senso e la capacità di accogliere anche
chi è diverso.
Diavolo di una critica militante. Un
articolo così, che derubrica ragione, buon senso e accoglienza a sonnifero, è
perfetto per aiutare l’uomo a dannarsi, scriverebbe il diavolo Berlicche al
nipote Malacoda.
Per parte mia je suis don Matteo.
Forever.
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