Dietro gli incontri ufficiali con i Papi e le strette
di mano, Fidel Castro è stato uno spietato tiranno anche con i cristiani
26 Novembre 2016
Roma. L’ultima volta che Fidel Castro ha incontrato il
Papa risale a poco più di un anno fa. Era settembre e Francesco, prima di
mettere piede negli Stati Uniti, aveva deciso di fare tappa a Cuba. Trenta
minuti di colloquio a casa del dittatore in pensione, al termine della messa
che era stata celebrata nella piazza della Rivoluzione dell’Avana. Il clima,
raccontò Padre Federico Lombardi, all’epoca direttore della Sala stampa
vaticana, era stato cordiale e informale. Francesco aveva donato a Fidel due
libri di Alessandro Pronzato sull’umorismo e la fede, alcuni cd del gesuita
Armando Llorente, morto nel 2010 e professore di Castro quando quest’ultimo
aveva studiato dai gesuiti, una copia dell’enciclica Laudato Si' e
una dell’esortazione Evangelii Gaudium. Da parte sua, l’anziano
Líder Maximo in tuta Adidas aveva contraccambiato con il volume “Fidel e
la religione”, di Frei Betto. Temi dell’incontro: difesa dell’ambiente e
attualità.
Il
Papa, nel suo primo discorso in terra cubana aveva espresso i suoi “sentimenti
di speciale considerazione e rispetto a Fidel”. Mossa diplomatica e di cortesia
e nulla di più, ma che aveva creato malumore tra le file dei dissidenti. Tre
anni prima, nel 2012, fu Benedetto XVI a incontrare Fidel:
nessuna visita a domicilio, ma un incontro in nunziatura. Castro chiese consiglio a Ratzinger su quali libri leggere per
passare il tempo e in seguito al viaggio del Pontefice sull’isola caraibica, fu
ripristinato il Venerdì Santo come festa civile.
Di certo,
però, l’incontro rimasto nella storia è quello del 1998, quando Castro ancora
tiranno incontrastato di Cuba accolse ai piedi della scaletta dell’aereo
l’anziano Giovanni Paolo II, che a tutti i costi aveva voluto visitare l’isola
della Revolución. La frase simbolo del viaggio fu quella pronunciata da Karol
Wojtyla appena atterrato: “Possa Cuba aprirsi con tutte le sue magnifiche
possibilità al mondo e possa il mondo aprirsi a Cuba”. Giovanni Paolo II aveva
chiesto – oltre alla fine del pluridecennale embargo statunitense – più libertà
per il popolo e per la chiesa. Fidel rispose ripristinando il Natale come festa
civile e concedendo qualche spazio di manovra e azione alla chiesa, pur sotto
il ferreo e mai messo in discussione controllo delle autorità statali. In tutte
e tre le tappe, fondamentale è stato il contributo di cucitura e pazienza del
cardinale Jaime Ortega y Alamino, arcivescovo dell’Avana e da pochi mesi a
riposo per raggiunti limiti d’età. La sua strategia si è basata per oltre
trent'anni nel dialogo con il governo, anche a costo di ricevere critiche dalla
comunità cristiana in patria e all'estero. Il successo maggiore è stato
l'accordo con gli Stati Uniti, propiziato anche dal ruolo silenzioso del
cardinale Pietro Parolin, segretario di stato vaticano.
Ma
dietro gli incontri ufficiali, i doni, gli abbracci e i calorosi saluti, la
storia racconta di un dittatore spietato con le opposizioni e con i cristiani.
Un anno fa, pochi giorni dopo il viaggio di Francesco sull’isola, AsiaNews,
portale del Pontificio istituto missioni estere, pubblicò la lettera di un esule che
aveva come unico fine quello di “parlare di una realtà diversa da quella che il
mondo ha visto in questi giorni. Da essere umano libero, ho voglia di scrivere
e dire quello che penso del regime comunista all’Avana e come cattolico, voglio
dire quello che mi piacerebbe vedere nella chiesa cubana, come frutti che io
spero da questa visita”.
“Perché non
chiamare le cose con il loro nome, chiamando ‘dittatura’ il governo dell’Avana
e chiedendo pubblicamente che esso garantisca ai cubani libertà e una vita
senza persecuzioni e senza paura? Fa male vedere che lo stesso regime che si
beffava (e si beffa) di Dio , la chiesa, i religiosi e le religiose, il Papa,
abbia ricevuto Francesco fingendo di dare l’immagine di un governo rispettoso
degli esseri umani e dei loro diritti. E quello che mi fa più male è sapere che
esso non ha alcuna intenzione di cambiare”.
E a
corroborare la tesi, si elencavano le schedature dei semplici fedeli che volevano
partecipare agli incontri con il Pontefice (messa compresa), molti dei quali
messi in stato di fermo (donne comprese) solo perché sospettati di essere
contro il regime. Il timore era che si replicasse quanto avvenuto nel 1998,
quando Giovanni Paolo II durante l’omelia pronunciata durante la messa
all’Avana pronunciò tredici volte la parola “libertà”, con i fedeli che
iniziarono a scandire – in forma ritmata – “Libertad! Libertad”.