Il
più grande spettacolo del mondo?
Le elezioni americane.
Beato è chi le ha seguite
passo dopo passo. Hanno fatto passare Frank Underwood per un pivello, altro che
House of Cards, la corsa alla Casa Bianca è stata la rappresentazione finale
del denaro come insostituibile carburante della politica, della scorrettezza
senza pensarci su troppo, del colpo basso, del potere che frusta il potere, una
battaglia all’ultimo sangue che domani avrà il suo epilogo. Ma no, dai, non è
finita. Il direttore dell’Fbi, James Comey, che in una settimana (ri)apre e
(ri)chiude l’inchiesta sull’email-gate è solo il penultimo colpo di scena.
Eccoli,
i protagonisti, sfiniti, sul palcoscenico fumante, in mezzo al fuoco, due
figure che si agitano, due figure che recitano ancora, ancora, ancora. Ve li
ricordate? All’inizio della corsa, erano così…
Avvocato,
First Lady, Segretario di Stato, senatore e candidato dalla presidenza degli
Stati Uniti. E’ nata a Chicago nel 1947, è moglie, mamma e nonna. Un
caterpillar che sorride mentre ti sta strozzando. E’ il candidato più
vincente-senza-dubbio-ma-anche-no della storia d’America. Wall Street la ama (e
finanzia). Ha sostenuto la guerra in Iraq e in Afghanistan, poi si è pentita.
Anche la guerra in Libia porta la sua firma, non si è pentita. E’ l’eroina
dell’America del progresso, all’inizio degli anni Novanta fu tra i primi cento
avvocati più influenti degli Stati Uniti e da allora non ha mai smesso di
influenzare. Passa tra gli scandali come se fossero porte girevoli, una
farfalla con le ali di titanio. Ha un problema con la gestione delle email e il
capo dell’Fbi. Supererà anche questa (fatto). E poi, ne ha viste di peggio: ha
sposato Bill Clinton nel 1975 e nel 1998 lo ha perdonato. Clinton su Clinton:
“Bill e io abbiamo iniziato un discorso nella primavera del 1971, e più di
trenta anni dopo non lo abbiamo ancora terminato”. Con Bill? Macché, Hillary ha
iniziato un discorso con l’America. Lo finirà o continuerà?
Immobiliarista,
show-man catodico, candidato alla presidenza degli Stati Uniti con il partito
repubblicano. E’ il candidato più scapigliato della storia moderna delle elezioni
americane. The Donald è nato a New York nel 1946, figlio d’arte, Manhattan è il
suo regno e anche il suo mattone. Cotonato e phonato come nessuno al mondo, gli
piace il wrestling, la campagna elettorale per lui è stata un corpo a corpo. In
tv licenziava, nella vita reale pure. Dicono abbia un debole per la Russia. Di
certo alla fiera dell’Est ha trovato mogli. Crede nel matrimonio, si è sposato
tre volte, con Ivanka, Marla e Melania, ma ciò che conta per lui è il
patrimonio. Trump su Trump: “L’unica differenza tra me e gli altri candidati è
che io sono più onesto e mia moglie più attraente”. E’ apparso in molti film,
tra cui Mamma ho riperso
l’aereo e Sex and
the City. L’aereo se lo è comprato, di sex parla a ruota libera. Ha
costruito un impero, è fallito quattro volte. Non è mai caduto. Domani? Un
altro giorno.
Che
corsa, riavvolgiamo il nastro. La storia era un copione già scritto ma…
I
candidati dovevano essere Hillary Clinton e Jeb Bush, famiglie d’America. Dinasty.
E invece, solo per
un soffio non abbiamo avuto la coppia Sanders-Trump.
The Donald è rimasto in
piedi, Bernie è stato fatto secco dal clan dei clintonistas (documentato,
vedere alla voce mail del partito democratico).
E allora via così, in un
crescendo dove l’altra campagna, quella di Trump, non va in testacoda ma, tra
lo scandalo degli incipriati, corre come un treno. The Donald vince le
primarie, partono le ipotesi più strampalate per rispedirlo nel suo grattacielo
di Manhattan, esce una pubblicità del candidato moderato alternativo, quello
baciato dai giornali, Ted Cruz, che cucina il bacon con il fucile
mitragliatore.
Vabbè, ma Trump non paga le tasse, Trump non rispetta le donne,
Trump è responsabile del cambiamento climatico e poi basta con questo Trump! Trump! Trump! Il muro
in Messico. E Obama ha fondato l’Isis. Crooked
Hillary. Maddài, che fa? Ancora in campagna? Ma se ha già
perso! Cravatta rossa. Cravatta blu. Make
America Great Again continua.
Ecco, che sorpresa, Hillary si
innervosisce, tossisce, non conta fino a tre e dal palco azzanna gli elettori
di The Donald, quei trogloditi sdentati, fumatori e consumatori di reality show
sono the basket of deplorables.
Sì, miserabili. Mamma mia. Trump la prende sul serio ed è subito Broadway, I Miserabili come antipasto
musicale dei suoi appuntamenti su e giù per la pancia dell’America.
Eccolo,
Victor Hugo, passeggiare pensoso tra i coccodrilli della Florida. Il popolo.
L’establishment. L’identità e lo smarrimento di tribù che non si parlano più.
Tutti con il tomahawk in mano, augh.
Hillary barcolla a New York, il direttore Fbi Comey riapre l’inchiesta, Trump
ha messo la freccia, è in corsia di sorpasso, dicono, si vedono le luci rosse
accese in stati dove il colore era sempre blu. Vola in Michigan, Virginia,
Iowa, North Carolina, Nevada, New Hampshire. Tutto jet e Big Mac. Aspetta, c’è
Comey che (ri)chiude, no dai, The Donald è sempre là e Thank you Minnesota! Comey
chiude l’inchiesta, Hillary balla con Jay Z e Beyoncè, paintsuit up! Vestiamoci,
prepariamoci, è l’ultimo miglio.
C’è ancora
una giornata di campagna elettorale, domani si vota e vedremo ancora le
maschere di questo palcoscenico danzare al ritmo della strana democrazia
americana. Che spettacolo. Sì, Frank Underwood è un pivello.
Da Il foglio newsletter
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