FABRICE HADJADJ
Sabato scorso, a Milano, ho tenuto
una conferenza su un tema proposto dal “Laboratorio delle idee” del mio amico
Francesco Migliarese. C’era il sindaco della città che ha fatto un’introduzione
e se ne è andato prima che io cominciassi.
Luciano Violante, con cui dovevo dibattere,
non era presente a causa di una indisposizione. E dunque, mio malgrado, mi sono
ritrovato da solo per parlare di individualismo.
Ecco gli appunti del mio discorso.
Punto
primo. Il titolo su cui riflettere appare pleonastico, e dunque come qualcosa
di assolutamente non problematico. È
evidente che l’individualismo porta alla
disgregazione
della società. Se ciascuno si comporta egoisticamente come individuo separato
dagli altri, cercando solamente di sfruttare gli altri, la società si disgrega.
Bisognerebbe allora richiamare all’altruismo e ridurre il discorso a una serie esortazioni morali: “Siate generosi!
Imparate a condividere!”...
Ora,
appelli di questo genere sono ancora individualistici. Si fa
appello alla buona volontà, ma attraverso questo volontarismo l’individuo si
trova ancor più a essere il
fondamento della costruzione sociale.
Si può invocare la costruzione di
una società più giusta quanto si vuole: tale costruttivismo presuppone che la
società risulti da un contratto stipulato tra gli individui e non che
scaturisca innanzitutto da un dato naturale.
Queste osservazioni conducono
subito a delle conclusioni.
PUNTO
Primo, l’individualismo non deve essere confuso con l’egoismo,
perché esso può essere altruista. Meglio ancora: l’altruismo è ancor più individualista dell’egoismo,
potendo quest’ultimo apparire come
una reazione a una precedente invadenza della
società, mentre l’altruismo mi mette
innanzitutto nella posizione di individuo che poi si volge verso l’altro se lo
vuole.
Secondo, si può
dedurre che la critica dell’individualismo si fa quasi sempre a partire da una rappresentazione
individualistica, ignorando l’alterità e l’alterazione che ci
precedono e ci costituiscono.
PUNTO
Secondo. Probabilmente l’individualismo
non è la sorgente della disgregazione, ma, al contrario, il risultato di una costruzione
sociale, o piuttosto
di
una comunità concepita esclusivamente come una costruzione. Il
senso che diamo oggi alla parola “società” viene dal XVII secolo. Prima con questo
termine si intendeva solo un’associazione tra due o più individui sulla base di
un contratto. Sotto questo aspetto, la
famiglia non è innanzitutto una società, ma una comunità
naturale
il
cui fondamento si trova in una doppia relazione differenziale che non è
contrattuale ma fisica: quella dell’uomo
e della donna, e quella consecutiva e al tempo stesso precedente, dei genitori
e dei figli.
Quando il fondamento della città
non è più stato pensato a partire da una tale comunità naturale ma da un
contratto stipulato tra individui, come in una società a scopo di lucro, il
termine società, nella sua accezione attuale, ha potuto imporsi.
È
il progetto sociale di smantellare le comunità naturali arcaiche,
al tempo stesso troppo drammatiche e troppo immobiliste, e di elaborare un mondo a più alto
rendimento, più ideale, più aperto al progresso, che inventa l’individualismo
come un “a priori conseguente”, o come una “isterologia”, termine al cui senso retorico
di inversione dei termini logici si coniuga un’eco patologica (una specie
collettiva di isteria, quella
malattia che ha per causa, secondo Ippocrate, un certo rifiuto dell’utero,
della nascita e del differenza generazionale).
PUNTO
Terzo: qual è questa società nuova? Quella del “paradigma tecno-economico”.
Si fonda su alcuni postulati (ne declino
sei) che sono quelli di un consumatore di fronte agli scaffali di un
supermercato.
1)
Ciascuno è fin dall’inizio un soggetto
autonomo capace di scegliere. La libertà non è il frutto di un’educazione né di
una responsabilità.
2)
Questo soggetto opera le sue scelte per raggiungere
un bene concepito come benessere individuale.
3)
Tale
bene si raggiunge non per via di saggezza o di prudenza, ma attraverso
procedimenti tecnici.
4)
La triplice tecnica di base per pervenire
allo scopo è la messa in concorrenza degli individui, la mercificazione degli scambi
e l’innovazione; questi tre fattori sono intimamente legati, poiché la
concorrenza favorisce l’innovazione, l’innovazione stimola la concorrenza, ed
entrambe implicano un’economia dove gli oggetti si acquistano col denaro che
l’individuo guadagna vendendo se stesso.
5)
Si suppone
la rarità dei beni acquistabili: non ce ne saranno per tutti, e dunque la
necessità della concorrenza e della crescita.
6)
Questo suppone anche, come aveva capito Ivan Illich,
una visione unisex. Affinché la
concorrenza, l’innovazione e la mercificazione siano onnipotenti, bisogna ignorare
la differenza uomo/donna e la divisione complementare, tradizionale o naturale
dei compiti. Tutto deve diventare merce, compreso il fatto di avere figli,
subappaltato oramai alle imprese di biotecnologia.
PUNTO
Quarto. Tutti questi postulati sociali sono finzioni che disgregano lo stesso
individuo. All’origine, come mostra
Olivier Rey, l’individualità era
concepita come un termine, non come un punto di partenza.
Termine di un’operazione logica per
la quale si suddivide l’essere in generi, specie, fino a giungere all’individuo,
indivisibile e ineffabile (perché impossibile da definire in generale). Ma
termine soprattutto di un’avventura esistenziale: risultato di tutta una
genealogia, ogni figlio è chiamato
a un destino singolare alla fine del quale riceve il suo Nome. È quanto raccontano i romanzi di cavalleria
e l’Apocalisse di san Giovanni («Al vincitore darò la manna nascosta e una
pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo», 2,17).
Non
appena l’individualità viene presentata come un punto di partenza, l’individuo,
strappato alle sue appartenenze naturali e storiche, diventa troppo debole per resistere
alle sirene tecno economiche che gli propongono la riuscita e il benessere attraverso
il quantified-self, una vita dislocata in una serie di funzioni
separabili e migliorabili, in una somma di parametri ottimizzati dall’algoritmo
della felicità.
Günther Anders parlava, già nel
1956, di questa scomparsa dell’individuo a vantaggio del “dividuo”.
Come uscirne? Non proponendo un’altra
costruzione sociale, ma pensando la politica nella cornice di un’ecologia
integrale, ripartendo cioè del dato
delle comunità naturali: la famiglia (comunità umana), l’agricoltura (comunità
dell’uomo con la natura), il culto (comunità dell’uomo con gli dei, perché senza
una fiducia nel Creatore e Redentore come accogliere ciò che ci è donato con i
suoi drammi?).
Per quanto terribili siano i tempi,
è la Provvidenza che ci ha messo qui, ed è qui, nel dato della nostra epoca,
che abbiamo la nostra missione.
Avvenire 30 ottobre
2016
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