lunedì 30 gennaio 2017
I MURI DI TRUMP? NO, DI OBAMA
CHI HA SCELTO I SETTE PAESI?
In
preda alle convulsioni, i leoni e le pantere da tastiera ieri chiedevano con un
tono da caccia alle streghe: come mai Trump ha scelto quei sette paesi? Come
mai eh? Perché non c’è l’Arabia Saudita? E chi ha deciso quella lista?
Nel
frastuono degli intelligenti a prescindere, s’è levata una risposta: “Ask
Obama”. I sette paesi elencati nell’ordine esecutivo del presidente
Trump sono esattamente quelli usciti da una selezione fatta in due tempi
dall’amministrazione Obama durante l’attuazione del Terrorist Travel Prevention
Act nel 2015 e nel 2016. So, boys, ask Obama.
Ma
i fatti sono del tutto irrilevanti in questa storia, l’isteria liberal domina
la scena, i giornali fanno la ola, le televisioni ci inzuppano il biscotto e
via così in uno show dove i fatti sono del tutto secondari.
SIRIA
Fu lo stesso Obama
nel 2011 a fermare gli ingressi di rifugiati dall’Iraq in attesa di una
revisione delle misure di sicurezza. (TRUMP: “My policy is
similar to what President Obama did in 2011 when he banned visas for refugees
from Iraq for six months.”).
E
d’altronde il numero di rifugiati siriani accolto dall’amministrazione Obama
dice tutto sulla lungimiranza con cui fu affrontato il problema dalla Casa Bianca.
Ecco l’accoglienza riservata ai siriani da parte del governo guidato dal premio
nobel per la pace: Obama dal 2011 al 2015 ha accolto in totale 1.883 profughi
siriani, una stratosferica media di 305 all'anno.
Nel 2016, dopo
aver fallito la guerra in Siria, preso dai sensi di colpa, dopo 5 anni di
guerra, 400 mila morti, 4 milioni di rifugiati, Obama alza il tetto per i
siriani alla stellare cifra di 13 mila unità, il totale fa circa 15 mila. Di
fronte a un impegno umanitario di così grande portata, con quel retroterra, i
democratici oggi fanno piangere la statua della libertà per le decisioni
dell’amministrazione Trump. Il premio faccia di bronzo è vinto a tavolino.
I
numeri, i fatti, le cifre, la realtà sono un incidente di percorso che non interessa i liberal. E’ la solita
storia, quella della mostrificazione dell’avversario: durante la campagna
presidenziale, quando Trump disse di voler espellere 3 milioni di clandestini
dagli Stati Uniti, si sollevò la voce vibrante d’indignazione del Coro del
Progresso per dire che no, non si doveva fare, e The Donald era un pericolo per
l’umanità. Anche in quel caso nessuno si prese cura di dare un’occhiata alle
espulsioni dell’era Obama. Fonte è la Homeland Security:
Il muro a Tijuana costruito da Clinton e Obama |
Dal
2008 al 20014 Obama ha espulso quasi tre milioni (2.786.865 per l’esattezza) di
clandestini e manca ancora il conteggio del biennio 2015-2016 che farà
schizzare il dato ben oltre le dichiarazioni roboanti dell’allora candidato
repubblicano.
Il
programma sull’immigrazione di Trump era (è) inadeguato rispetto agli standard
democratici. Il suo sbarramento di ordini esecutivi è legale, coerente con il
suo programma elettorale, ma l’esecuzione mostra i limiti dettati dalla fretta
di plasmare da subito la sua amministrazione nei primi cento giorni di governo.
Rallentare
Giornali italiani
Il
coro replica l’esibizione sui quotidiani. Un mondo a una dimensione, o quasi.
Il primo caffè della giornata va giù con la lettura del Corriere della Sera:
“Rivolta contro il bando di Trump”. Repubblica sbriga la pratica così: “Trump
solo contro tutti”. La Stampa non ci casca, punta saggiamente l’apertura sulle
primarie dei socialisti in Francia (ha vinto la sinistra radicale, ragazzi), ma
il titolo è sempre quello: “Immigrazione, rivolta contro Trump”. Il caffè ar
vetro e Il Messaggero non portano nulla di nuovo: “Migranti, un muro
anti-Trump”. Il Giornale esce dal coro, ma sempre di mattoni si parla: “Muro
buonista contro Trump”. Il Mattino fa lo stesso titolo del Messaggero:
“Immigrati, rivolta anti-Trump”. Il Gazzettino imita il Mattino: “Stop ai
migranti, rivolta anti-Trump”. Il Secolo XIX fa un titolo da assemblea
sindacale: “Immigrati, mobilitazione contro Trump”. Carlino-Nazione-Giorno
entrano nella fase generale Custer a Little Big Horn: “Rifugiati, Trump assediato”.
Hanno impaginato e titolato il cuore grande dell’uomo europeo, quello che oggi
protesta contro Trump e ieri ha staccato un assegno da tre miliardi di euro in
favore di quel sincero democratico di Erdogan per fare il lavoro sporco alla
frontiera con la Siria. Dettagli.
(Salvatore Sechi)
Nota del blog: E' un problema quando le
idee o il giudizio parte da una conoscenza parziale o del tutto distorta dei
fatti se non addirittura non si tratta di un rifiuto aprioristico ed ideologico
.
Quando i giornali sembrano una massa di pappagalli che recitano il rosario dei potenti di turno e cercano subdolamente di creare una mentalità a senso unico, serve anche sapere che non è così
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venerdì 27 gennaio 2017
WASHINGTON, D.C., MARCH FOR LIFE 2017
Dopo otto anni di feroce
anticlericalismo, di scomparsa della fede dall’agone pubblico, di silenzio sui
cosiddetti “principi non negoziabili”, ci si era quasi rassegnati e sembrava
impossibile l'opposto.
Invece, nel giro di una settimana, dopo
la firma del decreto presidenziale per togliere i fondi internazionali alle Ong
che promuovono l’aborto (che per la prima volta include anche i fondi delle
agenzie Onu e tutti i programmi di salute), alla Camera è stata approvata
persino una legge che rende permanente il divieto di finanziamenti per il
“controllo delle nascite” anche all’interno del paese (239 voti contro 183).
Questa legge deve essere approvata dal
Senato. Trump ha confermato che se la legge passerà anche al Senato il divieto
sarà permanente e non più passibile di discussioni.
Nello stesso tempo il team di Trump ha
rilasciato interviste sulla difesa della vita e sulla centralità della fede
nell’agone pubblico e il presidente stesso ha dato un forte appoggio alla
Marcia per la vita che si terrà oggi a Washington.
Il Vice Presidente Mike Pence parlerà
alla marcia, e con ci lui sarà una massiccia presenza dell’amministrazione,
confermando che la campagna elettorale dei repubblicani è stata tutta pro-life
Di fatto però la marcia è stata
completamente ignorata dai maggiori media americani.
Per informazioni ulteriori alcuni link
da Lifenews.com
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mercoledì 25 gennaio 2017
PERCHE' SOLO NEL CASO DI UN DIVORZIATO RISPOSATO?
In calce ad un suo post sul film “SILENCE”, che contiene un commento da leggere,
Leonardo Lugaresi è tornato sul tema dell’Amoris Laetitia:
(…) I Vescovi di Malta l'altro
giorno si sono riuniti in conferenza episcopale (fanno presto, perché sono solo
in due) e hanno detto la loro come applicare le indicazioni della Amoris
Laetitia. Pare che il punto cruciale della dichiarazione sia
il seguente:
«If, as a result of
the process of discernment, undertaken with “humility, discretion and love
for the Church and her teaching, in a sincere search for God’s will and a
desire to make a more perfect response to it” (AL 300), a separated or divorced
person who is living in a new relationship manages, with an informed and
enlightened conscience, to acknowledge and believe that he or she are at peace
with God, he or she cannot be precluded from participating in the sacraments of Reconciliation and the Eucharist (see AL, notes 336 and 351)».
Suona bene, e io non ho certo le competenze né l'autorità
per criticare alcunché. Però c'è qualcosa che non capisco (e non per via
dell'inglese).
Dicono che se un divorziato risposato, avendo fatto tutto
quel bel percorso di presa di coscienza, «manages to acknoledge and believe
that he or she are at peace with God» (“arriva a riconoscere e credre di essere
in pace con Dio”), non gli può essere impedito di partecipare al sacramento
della riconciliazione: ma, a parte il fatto che nessuno mai ha pensato di
impedirglielo, perché mai quel tale o quella tale dovrebbe andare a
confessarsi? Se uno è sano, non ha bisogno del medico: chi sa o crede di essere
in pace con Dio, perché dovrebbe far perdere tempo a un prete?
E un'altra cosa non
mi è chiara: perché questo dovrebbe valere solo nel caso di un divorziato risposato?
Non potrebbe funzionare anche in tutti gli altri casi?
INTERNATIONAL PLANNED PARENTHOOD NON FARÀ PIÙ ABORTI NEL MONDO CON I SOLDI DEI CONTRIBUENTI AMERICANI
Dalla newsletter di “PRO-LIFE”
23 GENNAIO 2017 | WASHINGTON, DC
Il Presidente Donald
Trump ha firmato oggi un ordine esecutivo per togliere i finanziamenti federali
all’International Planned Parenthood, l’organizzazione
non governativa che lavora in campo internazionale per la pianificazione
familiare, utilizzando l’aborto come principale strumento.
Mentre la legislazione che riguarda la pianificazione
familiare americana (aborto compreso) è regolata da una legge, il Presidente ha
la capacità di mettere in atto un ordine esecutivo che revoca il finanziamento
per la sua affiliazione internazionale.
Quando l’ ex
presidente abortista Barack Obama si è insediato, nella sua prima
settimana di presidenza aveva ribaltato una politica che negli anni del
Presidente Bush aveva impedito il
finanziamento di gruppi che promuovono o eseguono aborti all'estero.
La cosiddetta “Mexico
city policy”, che Trump ha ripristinato, prende il nome dalla città sede nel 1984 della
Conferenza delle Nazioni Unite per la popolazione. Allora il Presidente Reagan
stabilì che le organizzazioni non governative potevano ricevere fondi federali
solo a condizione che non promuovessero l’aborto come metodo di pianificazione
familiare.
Dal 1984 questa norma è stata più volte modificata ad
ogni cambio di presidenza. Nel gennaio del 1993 il Presidente Clinton la
abrogò, e otto anni dopo la norma fu ristabilita dal Presidente Bush.
Oggi, il Presidente Trump ripristinato la “politica di
Città del Messico” con un ordine esecutivo.
La decisione esecutiva di ripristinare “la politica di
Città del Messico” impedisce che il finanziamento dei contribuenti sia
assegnato a gruppi che effettuano e promuovono aborti all'estero, ma non modifica
l'assistenza internazionale pro famiglia che rifugge dall’aborto.
Leggi di Più: Aborto, censura sullo scandalo Planned Parenthood | Tempi.it
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domenica 22 gennaio 2017
"ROMA ABBIAMO UN PROBLEMA"
DI LEONARDO LUGARESI
Penso che sarebbe un grave errore se il
papa rifiutasse di confrontarsi e di dialogare con la posizione espressa, con
tanta chiarezza e profondità, dal cardinale Caffarra nell'intervista rilasciata
al Foglio qualche giorno fa. (Chi non l'avesse letta, può trovarla nel blog)
Si può comprendere che il papa sia
infastidito dai dubia
che gli sono stati presentati dai quattro cardinali, la cui logica binaria gli
chiede di rispondere con un sì o con un no secchi a domande a cui
verosimilmente egli vorrebbe rispondere con un «dipende», ma il discorso di
Caffarra è un'espressione così bene argomentata e distesa di intelligenza
cristiana che continuare ad ignorarlo, limitandosi a far dire alle persone
dell'entourage
che “è già tutto chiaro” ed “è già tutto spiegato nell'Amoris laetitia”,
sarebbe un atteggiamento spiegabile solo in due modi: o il papa non capisce ciò
che Caffarra dice, oppure lo capisce ma lo rifiuta, cioè delegittima la sua
posizione giudicandola incompatibile con la fede cristiana autentica.
La prima
ipotesi sarebbe preoccupante, la seconda spaventosa.
Tertium non datur,
perché l'ipotesi che il papa semplicemente consideri irrilevanti le
questioni e gli argomenti posti da Caffarra significherebbe che non li capisce,
e quindi ricadrebbe nella prima fattispecie. In tutti i casi, se le cose
andassero così, nella chiesa cattolica “avremmo un problema”, e anche bello
grosso.
Nessuno, tranne Dio, può
permettersi di dare un termine di tempo al santo padre, e per questo motivo
credo che sia del tutto campata in aria l'idea, che è stata attribuita (non so
se a torto o a ragione) al cardinale Burke, di “metterlo in mora” con una sorta
di ultimatum.
Però dobbiamo sperare e pregare che prima della fine di questo
pontificato tale confronto e dialogo avvengano (e si collochino al giusto
livello, cioè sul piano in cui il cardinale pone e discute i problemi). Se così
non fosse, ne deriverebbe un gran male per la chiesa.
https://leonardolugaresi.wordpress.com/2017/01/18/roma-abbiamo-un-problema/
LA FINE DI "UN MONDO"
L’11 ottobre scorso Hillary Clinton – dal
sito del New York Times
– sentendosi sfuggire sempre più l’agognata poltrona presidenziale, usò questo
sobrio argomento dinamitardo: “io
sono l’ultima cosa fra voi e l’Apocalisse”.
La baggianata – che echeggia quella
più celebre risuonata alla corte francese: “dopo di noi il diluvio” –
sottintendeva che Trump doveva essere considerato con terrore, come la fine del
mondo.
Gli americani hanno risposto
con un colossale “vaffa”, mandando a casa
la Clinton, l’establishment politico di Washington e quello dei salotti
mainstream pieni di intellettuali, di chiacchieroni e di attrici.
Perché sapevano che in realtà Trump – come
dice Tremonti – non è la
fine del mondo, ma casomai la fine di “un” mondo, appunto quello guerrafondaio
e aggressivo dei Clinton e di Obama (e dei Bush), i re del caos globale, i
grandi registi dell’“ipocrisia progressista” e della strategia della tensione
planetaria.
Sotto di loro infatti sono state destabilizzate una serie
di aree (l’Irak, la Libia, la Siria, l’Africa centrale e l’Ucraina), con conseguenze disastrose dal punto di vista
umanitario e dal punto di vista politico.
In particolare l’idea di espandere
la Nato verso Est, fin sotto le mura di Mosca, con una serie di provocatorie
manovre militari al confine, ha fatto precipitare il mondo in un cupo clima da Guerra fredda
e ha rischiato di trascinare l’Europa nella terza Guerra mondiale.
Perfino il famoso “orologio dell’Apocalisse”
– quello del “Bulletin of the atomic scientists science and security board“,
nel cui Board of sponsors ci sono 17 premi Nobel – nel gennaio di un anno fa
collocava l’umanità alle 23.57, cioè a
tre minuti dalla mezzanotte nucleare, ovvero dalla “fine del mondo”.
Solo nel 2010 le lancette di questo
Orologio simbolico, inventato nel 1947 dagli scienziati dell’Università di
Chicago, segnavano le 23,54.
Questi “tre minuti” più vicini
alla mezzanotte (peraltro la valutazione viene
fatta in modo abbastanza “politically correct” e non certo da personalità filo
Trump) fanno capire quanto
ci hanno avvicinato all’apocalisse Obama e la Clinton e dove saremmo finiti in
caso di una vittoria di Hillary.
Gli osservatori sanno bene che
proprio quella della Clinton sarebbe stata una presidenza guerrafondaia e
pericolosissima.
FOLLE STRATEGIA
La strategia obamiana e clintoniana
è stata descritta così da Francesco
Alberoni:
“Durante la presidenza Obama gli Usa
hanno scatenato una vera guerra fredda contro la Russia sul piano propagandistico,
mettendo sanzioni e accumulando armamenti in Polonia, Ucraina e Paesi baltici.
Nello stesso tempo hanno appoggiato i Paesi islamici sunniti, Arabia Saudita, i
Paesi del Golfo, il Pakistan e la Turchia che finanziavano e armavano gli
integralisti islamici: dai talebani ad Al Qaida, all’Isis e il Califfato. Sotto
sanzioni in Europa, minacciata dagli americani attraverso la Nato e attaccata
dagli integralisti islamici in Asia, la Russia è stata spinta a cercarsi un
alleato nella Cina. Ma la Cina è l’unica superpotenza che nei prossimi anni
sfiderà il potere Usa. Una scelta dal punto di vista americano a dir poco
catastrofica.
Sembra impossibile, ma la politica di
Obama si proponeva di espellere la Russia dall’Europa, di farla alleare con la Cina, lasciando il Medio Oriente
e l’ Africa del nord nelle mani all’anarchia islamista”.
Questa assurda strategia, che
ha avuto il sostegno quasi unanime e strategicamente importante del sistema
mediatico, con Trump si avvia ad essere rovesciata.
Anzitutto finisce la demonizzazione
della Russia. Poi il terrorismo dell’Isis e di Al Qaeda sarà chiamato col suo
nome, “terrorismo islamico” e combattuto come tale (Trump ha iniziato già in
campagna elettorale questa rivoluzione linguistica e culturale).
“Dobbiamo cominciare a fidarci di
Vladimir Putin”, ha dichiarato Trump. Contemporaneamente la Russia ha
annunciato l’intenzione di coinvolgere Washington nel negoziato per la
soluzione della terribile crisi siriana.
PACE
Piccoli, grandi segnali che erano
inimmaginabili con Obama e la Clinton e che potranno portare Usa e Russia a cooperare
anche per risolvere la situazione libica.
Siria e Libia, due dei focolai di
crisi che – fra l’altro – finora hanno provocato o aiutato l’enorme e dirompente flusso migratorio
verso l’Italia e l’Europa.
Basta questo per capire quanto sia importante, anche per l’Italia,
questo nuovo clima di collaborazione e dialogo fra le due superpotenze.(...)
ORFANI DI OBAMA
I media se ne accorgeranno per
ultimi o comunque cercheranno di non dirlo, essendo gli stessi media che acclamavano il “Nobel per la pace”
Obama (quello sotto la cui amministrazione gli Usa hanno inondato il mondo –
soprattutto il mondo arabo – di armamenti).
I media, nella stragrande
maggioranza, oggi sono parte del problema. Perché – più o meno consapevolmente
– sono stati partecipi, dal punto di vista ideologico e propagandistico, delle
strategie dell’establishment che ha dissestato il mondo.
Purtroppo ha aderito in gran parte all’agenda Obama
anche il capo della Chiesa cattolica, arrivando addirittura ad entrare a gamba
tesa contro Trump, durante le presidenziali americane. (...)
GRANDE SPERANZA
Finalmente potrebbe realizzarsi la
grande speranza di Giovanni
Paolo II: un’Europa che respira a due polmoni, quello ocidentale
e quello orientale. Un’Europa
dall’Atlantico agli Urali.
Un’Europa più grande economicamente
e più ricca spiritualmente dell’arida tecnocrazia dell’euro.
L’Italia ha tutto da guadagnarci,
anche nella prospettiva di liberarsi
dalla gabbia dell’egemonia tedesca che – attraverso quella
tecnocrazia dell’euro – ha messo in ginocchio la nostra economia e pure la
nostra dignità nazionale.
Sarà anche l’occasione per liberarsi dell’altro aspetto deleterio
dell’imperialismo obamiano: la devastante dittatura “politically correct”
imposta al mondo intero insieme alla nefasta “religione mercatista”
che ha messo in ginocchio (dal punto di vista economico e della sovranità) i
popoli e gli stati.
.
Antonio Socci
Da “Libero”, 21 gennaio 2017
venerdì 20 gennaio 2017
L’ALBA DEI MISERABILI
E' SUCCESSO DAVVERO!
E alla fine arrivò il giorno.
Quel giorno. Trump alla Casa
Bianca.
E’ il momento in cui tutto quello che è stato detto, letto, consumato
nel take away del rancore svanisce.
The
Donald nello Studio Ovale.
Ieri abbiamo avuto un prequel serale del nuovo
presidente americano: Make America Great Again al Lincoln
Memorial, un bellissimo spettacolo, celebrity-free,
il concerto che alterna la musica della patria, suonata dalle bande musicali
militari, il country di Toby Keith e le videostar di YouTube, senza aspirazioni
pedagogiche di massa e retorica in progress.
Fuochi d’artificio
finali stupendi e domani (oggi) è un altro giorno, Washington volta pagina.
THE DONALD (TWO)
L'addio alla retorica made in USA e al dannoso
politically correct di Obama
Fortunatamente il tempo
passa, spazzando tutto e tutti, facendo capire che nulla è eterno su questa
terra. Vale per le cose e, soprattutto, le persone, ed è arrivato il giorno in
cui anche l'osannato Presidente Usa Barack Hussein Obama termina il secondo e
ultimo mandato politico.
Un doppio mandato politico che è stato
caratterizzato da una dote non rara nella storia dei Presidenti Usa,
l'incapacità politica.
Partito con il vento in
poppa slogheggiando il vacuo "Yes, we can!" e cavalcando l'onda
dell'ineluttabilità che ci fosse finalmente un Presidente che i politicamente
corretti definirebbero in neo-lingua "di colore", vince largamente il
primo mandato elettorale dimostrando già tutta la sua pochezza sia come politico (il vuoto totale di idee in politica
estera), sia come uomo (definì la candidata repubblicana alla
vicepresidenza "un maiale").
Ma tant'è, l'uomo che
incarnava la retorica made in Usa
aveva finalmente la sua agognata poltrona di Presidente, sulla quale neppure il
tempo di sedersi che già doveva alzarsi per correre al cospetto dei reali di
Svezia a ritirare il prestigioso premio Nobel per la Pace, nella totale
interdizione del diretto interessato sulle motivazioni per aver ricevuto
cotanto premio. A Obama tutto è dovuto, tutto riconosciuto, nella società
dell'immagine lui è il personaggio giusto nel posto sbagliato, è alto,
slanciato, sorriso ammiccante, tono di voce fermo e deciso, solo quello, ma
tanto basta per conquistare consenso e voto politico. Mancavano solamente
testimonianze circa il dono dell'ubiquità, la capacità di viaggiare nel tempo e
nello spazio, le stigmate e le doti miracolistiche. E poi, vuoi mettere, con quella brava donna di Michelle, tutta
ginnastica e verdura del proprio orto, così salutista, una vera sacra famiglia
americana.
Terminati i fuochi
d'artificio a gloria del nuovo vincitore, viene il momento anche per costui di
misurarsi con la politica che conta, interna ed estera, e sono dolori, anzi
umiliazioni!
In politica interna avrebbe dovuto mettere il bavaglio agli
stipendi dei super-manager della finanza di Wall Street, colpevoli della crisi
economica che ha imperversato per anni nel mondo a partire dal 2008, ma nulla è
stato ottenuto; così come avrebbe dovuto estendere l'assicurazione sanitaria
pubblica e gratuita a sempre più larghe fette di popolazione americana, ma ha
partorito una blanda riforma denominata "Obama Care"; mentre la
ripresa economica americana risente pesantemente della solita massiccia
iniezione di liquidità della Fed, prologo di future ulteriori crisi economiche.
E sul fronte sociale, non è certo bastata la sua sola presenza di primo
Presidente "di colore" per disinnescare e normalizzare le
innumerevoli tensioni sociali e razziali presenti nella società americana.
In politica estera, alla luce del suo premio Nobel per la
Pace, ci si sarebbe aspettato un forte disimpegno americano nei teatri di
guerra, invece nulla. Anzi, la base di Guantanamo, che promise di far chiudere
nel corso del suo primo mandato presidenziale, è tuttora in essere; la presenza
dei militari Usa in Afghanistan e Iraq rimane cospicua; l'azione militare
diretta in Egitto e indiretta in Siria ha creato un'instabilità che sta pagando
a caro prezzo l'Europa, sia in termini di pericoli attentati che di pressioni
migratorie. Senza dimenticare lo scontro diplomatico e le sanzioni comminate
alla Russia di Putin, al limite della guerra, con gravi danni economici e
imbarazzi diplomatici per l'Europa.
Dopo tanta pochezza non stupisce che vi
siano così tante critiche nei confronti del neo-Presidente Trump, perché lui le
idee chiare sembra averle e questo risulta scioccante alla
"intellighenzia" mediatico-politica americana ed europea.
Trump è forse il primo
Presidente della storia Usa veramente fuori dai giochi politici delle grandi
oligarchie che spingono sui candidati dei due maggiori partiti, Democratici e
Repubblicani, in quanto anche se eletto sotto l'egida del Partito Repubblicano,
ne è stato a lungo osteggiato nella sua corsa alla candidatura repubblicana
prima e per la presidenza poi; è il vero "parvenu" della politica
Usa.
Odiato dall'establishment dei grandi media
americani, dagli opinion-maker (attori hollywoodiani su tutti) e dai cosiddetti
"intellettuali", ha scalato il consenso sociale giorno dopo giorno, sconfiggendo meritatamente, per la fortuna del popolo americano,
l'ambiziosa e perigliosa fu-cornuta coniuge Clinton. Già prima di aver
messo le proprie natiche sullo scranno del potere, Trump è stato accusato di
portare alla Terza guerra mondiale, altro che il buon Obama, che raccolse un
premio Nobel per la Pace a sua insaputa!
La politica interna ed
estera di Trump la vedremo da qui ai prossimi quattro anni, ma voglio
arrischiarmi e vedere un incipit
positivo nei suoi primi interventi, sia pure sotto forma di tweet. Trump
punta forte sul recupero dei buoni rapporti con la Russia di Putin, e questo
non può che essere un fattore distensivo e di logica e onesta politica estera,
laddove buoni rapporti diplomatici disinnescano tensioni e minacce che non ha
senso mantenere alla luce del ben più concreto pericolo dovuto agli attentati
jihadisti.
Inoltre, risulta
positiva l'attenzione posta da Trump alla questione della crescita economica e
produttiva, facendo pressione su note potenti case automobilistiche affinché
tengano e incrementino gli investimenti produttivi negli Usa, evitando con ciò
di trasformare gli Stati Uniti da Paese di produzione a Paese di puro consumo
di beni, con evidenti benefici occupazionali per le classi basse, medie e
medio-basse della popolazione. Altro che magnate interessato solo a far fare
soldi ai super-ricchi!
Potrà sembrare un
paradosso, ma se fosse proprio Trump, dopo molti decenni, a riportare in auge la linea politica dettata dai Padri
fondatori Usa l'indomani dell'indipendenza americana, imperniata sul motto
"scambi commerciali con chiunque, alleanze stabili con nessuno"?
Un disimpegno politico che faccia retrocedere gli Usa dal ruolo di poliziotti
del mondo, a favore di un nuovo-vecchio ruolo, di partner commerciale che non
tiranneggia a livello politico.
Io ci voglio credere, ne
gioverebbe il mondo intero, forza Presidente Trump, "Yes, we can"!
Roberto Locatelli
venerdì 20 gennaio
2017
giovedì 19 gennaio 2017
HOMO DAVOS
Adam
Smith a Pechino
Il
presidente cinese alfiere del capitalismo e della globalizzazione che diventa
il nuovo idolo dell’Homo Davos ci
mancava tra le esperienze psichedeliche del presente. Fatto.
L’applauso, il conforto, l’ammirazione,
l’empatia per la chiara appartenenza del sincero democratico Xi al club
dell’élite in progress riunito sulle alture innevate della Svizzera è qualcosa
di straordinario. Mentre Shakira dispensava lezioni civiche alle masse e Matt
Demon informava il popolo sul destino della storia, l’Homo Davos costruiva un
nuovo totem di derivazione pechinese.
Il pubblico non è stato sfiorato neanche per un nanosecondo
dal pensiero di quella cosa chiamata “libertà”. Si sa, l’Homo Davos non si
perde nei dettagli, bada al sodo.
Egli
non può fare lo slalom in pista, consumare cocktail al Tonic Bar e
contemporaneamente ricordare che nella classifica sulla libertà economica
compilata ogni anno dalla Heritage Foundation, la Cina nel 2016 si è piazzata al 144° posto.
Gli
Stati Uniti del protezionista Trump, quello che oh, signora mia e
della signora Melania che no, gli stilisti del jet set, assolutamente non
vestiranno mai, ecco gli Stati Uniti sono all’11° posto e questa
lieve differenza dovrebbe indurre a qualche riflessione.
L’Homo Davos non sente
questi problemi, separa denaro e libertà, profitto e dittatura, dove
naturalmente il denaro, il profitto (e la libertà) sono solo suoi e la
dittatura è degli altri e in fondo dà una certa sicurezza per concludere ottimi
affari.
L’establishment
si riunisce nella località svizzera con il solito contorno di jet personali (e
grande preoccupazione per l’ambiente), champagne in villa (e un pensiero ai
diseredati del mondo), un salto al Tonic Bar (e una riflessione profonda, mi
raccomando, sulla disoccupazione). Che bravi.
Ah, en passant, non
ci sarà nessuno della nuova amministrazione americana.
A Davos passano con
eleganza da Adam Smith a Mao. Segno dei tempi, basta leggere le cronache dei
giornaloni per capire che aria tira per l’élite. Basta con gli autocrati che
urlano Make America Great Again. Meglio applaudire il democratico presidente
cinese Xi Jinping,
Così
il campione della libertà, il presidente
Xi a cui il partito comunista cinese vuole concedere il culto della
personalità che fu di Mao, diventa un faro per il business, mentre Trump è il
nemico, l’estraneo al clan dei benpensanti.
Questo smarrimento
ideale, questo sonnambulismo acuto dell’Homo Davos – la
sigla ha il copyright di un genio della scienza politica, Samuel Huntington – è la punta dell’iceberg, la boa luminosa
della crisi della contemporaneità, la sua manifestazione comica à la
Davos, l’aggiornamento del software del Dittatore. Sono tempi duri e non
abbiamo neppure la consolazione di Chaplin.
Dunque per Xi Jinping la
globalizzazione non è il problema.
Al
vicepresidente degli Stati Uniti Jo Biden, il signor Made in China ha detto che
bisogna costruire relazioni durature con l’America (Biden non sarà più alla
Casa Bianca) e al presidente dell’Ucraina Poroshenko ha detto che la Cina avrà
un ruolo costruttivo per la pace.
Dunque,
riepiloghiamo: Xi è contro Trump (globalizzazione vs protezionismo) e anche
contro Putin (Russia vs Ucraina). Eccolo, il risiko che comincia il 20 gennaio
con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca: Stati Uniti-Russia-Cina.
Washington
che cerca di frenare il dominio demografico, economico e (più tardi) militare
di Pechino cercando una sponda con la Russia. E’ tutto molto semplice, ma
terribilmente difficile da affrontare senza far bruciare la polvere da sparo.
Buona giornata.
Salvatore Sechi
da ilfoglio-list
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TRUMP
THE DONALD (ONE)
Che cosa penseranno di The
Donald i nuovi alleati strategici italiani degli Stati Uniti (Fabio Fazio, Laura
Boldrini, Crozza, Scalfari, …)?
Non sono riusciti a «esportare Mani pulite
nel mondo», come voleva Tonino Di Pietro buonanima quando pensava alla sua
guerra senza quartiere contro corrotti e corruttori come a una sorta di
McDonald's giudiziario in franchising. Ma
gli strateghi immaginifici della nostra sinistra giustiziera sono riusciti in
compenso a influenzare la lotta politica in America con l'esempio del loro
inesausto agit-prop antiberlusconiano e delle loro perenni «campagne di fango» (così le chiamano i figli della
luce, che ne sono i massimi specialisti e virtuosi, quando i figli delle
tenebre, antropologicamente inferiori, osano rendere loro pan per focaccia).
Incalzato da un partito democratico che
ricorda da vicino la nostra Ditta, mascariato da un web dedito a bufale, fakes
e post verità («la rete, la rete») e da una stampa che sembra fondata da
Eugenio Scalfari e diretta da Ezio Mauro, braccato infine da tutti i cacciatori
di taglie dei talk show politically correct, il neopresidente degli Stati Uniti
è finito sotto la stessa nuvola di sputi che per oltre vent'anni ha costretto
il nostro leader di plastica a non uscire mai di casa senza un ombrello (negli
ultimi tre anni anche Matteo Renzi si è portato sempre dietro un paracqua).
Stessi sputi e stesse accuse: affari
loschi con Putin e tovarisch, noglobalismo de destra, sfrenatezze sessuali da
Dvd porno che per la loro esuberanza farebbero arrossire uno psicanalista
reichiano, troppi soldi, conflitto d'interessi, evasione fiscale continuata e
molesta, nessun rispetto per le icone
della sinistra caviar a cominciare dal presidente uscente (di cui «The
Donald» s'appresta a revocare le decisioni, antiche e recenti, dall'«Obamacare»
in materia sanitaria alla dichiarazione di guerra fredda a Russia e Israele).
Come Berlusconi, inoltre, anche Trump è
un Caimano: vuole un muro per tenere fuori i messicani dalla terra dei
liberi, da quel razzista che non è altro, mentre Obama, con un provvedimento
dell'ultimo minuto, ha giustamente e caritatevolmente provveduto ad abolire
l'accoglienza automatica dei profughi cubani (un po' come Peppone in un vecchio
racconto di Giovannino Guareschi, quando due russi si rifugiano nella canonica
di Don Camillo chiedendo asilo politico e lui, Peppone, piomba in chiesa
strepitando che i due profughi devono essere immediatamente restituiti ai «loro
padroni»).
Trump è un nemico del liberismo, urlano
scandalizzati i nemici del liberismo: si batte, il maledetto statalista, contro
la grande finanza sans frontières e contro la delocalizzazione delle aziende
americane. Sempre come l'ex Cavaliere, e al pari di tutti i nemici del popolo,
anche il nuovo presidente degli Stati Uniti porta il parrucchino e ha un debole
per le biondone. Ulteriore somiglianza: sia Trump che Berlusconi sono stati dei
palazzinari, di volta in volta favoriti o sfavoriti dalla sorte, prima di
diventare delle icone pop grazie alla televisione, di cui sono stati entrambi
due grandi protagonisti. Come
Berlusconi, infine, e come Renzi, Trump non piace a Maurizio Crozza, coscienza
morale degl'italiani sciccosi. Cosa penseranno di «The Donald» i nuovi alleati
strategici degli Stati Uniti (Fabio Fazio, Laura
Boldrini)?
Nei prossimi quattro
anni, fino alla scadenza del mandato, i giornali progressisti, non soltanto
americani ma anche (e soprattutto) italiani, continueranno a battere sempre lo
stesso chiodo: impeachment, dimissioni, al rogo il nemico del popolo.
Da noi, come ricorderete, ogni volta che
il centrodestra vinceva le elezioni, oppure a vincerle era un centrosinistra
ostile alla Ditta, c'era subito chi saltava su a dire di vergognarsi d'essere
italiano. Be', anche nei quartieri alti e progressisti di New York e Chicago
oggi risuonano le stesse insulsaggini. Ma in Italia, vedrete, si oserà di più.
Si pretenderà che Donald Trump venga travolto dai report tarocchi di agenzie
d'Intelligence private e che si lasci correre quando le mezze pippe si rendono
platealmente ridicole in Italia e all'estero.
di
Diego Gabutti ITALIA OGGI
mercoledì 18 gennaio 2017
CHI RAPPRESENTA I CATTOLICI?
Alfredo
Mantovano
NON UN PARTITO, MA UN MOVIMENTO PER UN CARTELLO ELETTORALE
Per chi
avverte l’urgenza, i tempi sono stretti: chi ha alternative le prospetti. Nella
futura legislatura potrebbe non esserci più nessuno a difendere certi temi in
parlamento
Prima o
poi si voterà. Più poi che prima: non c’è accordo sulla legge elettorale,
ciascuno dei partiti punta a una riforma che si adatti alla propria attuale
consistenza e alle proprie prospettive. È facile prevedere tempi non brevi,
seguiti, a legge approvata, da ulteriori settimane per ridisegnare
circoscrizioni e collegi. Se va bene si arriva all’autunno, altrimenti alla
scadenza naturale.
Nel frattempo.
Il voto sul referendum costituzionale ha confermato che il No al 60 per cento
non coincide con la sommatoria dei simpatizzanti di M5S, Lega, di una parte di
Forza Italia e della minoranza Pd; ha
fatto emergere ulteriori componenti, fra cui quella costituita dalle tante
famiglie italiane che hanno protestato contro la loro mortificazione avvenuta
negli ultimi tre anni sul piano normativo, dell’azione di governo, delle
crescenti difficoltà nella vita quotidiana. Sono quelle famiglie che per due
volte in pochi mesi, con scarso preavviso e a proprie spese, hanno riempito piazza San Giovanni e il Circo Massimo. È
una forza elettorale che, tradotta in voti, non va al di sotto dei due milioni,
ma potrebbe anche raggiungere i quattro milioni.
Alla prossima chiamata alle urne, chi darà
rappresentatività a questa forza? Vi è un rischio concreto. Fino alla
legislatura conclusa nel 2013 la presenza in Parlamento di deputati e senatori
sensibili a vita, famiglia ed educazione era cospicua: non maggioritaria ma
tale da condizionare le scelte, sia per bloccare il varo di norme ostili a
queste voci, sia per leggi di segno positivo, dalla fecondazione artificiale
del 2004 a quella sulla droga del 2006. Nella legislatura in corso, in virtù di
una rinuncia – non si sa quanto consapevole della posta in gioco – da parte del
mondo cattolico, quelle presenze si sono ridotte ai minimi termini: hanno svolto testimonianza, senza avere la
forza di impedire riforme pessime, dal divorzio breve al divorzio facile, dalle
unioni civili alla droga. Se non cambia nulla, al prossimo turno, quale che
sia la legge elettorale, non ci sarà più nessuno.
Può darsi che
qualcuno lo valuti positivamente: da presidente della Cei il cardinale Ruini
per i cattolici italiani coniò – e praticò – il motto “meglio contestati che
ininfluenti”. Oggi il motto sembra
“ininfluenti per aver scelto di non essere contestati”. Come potrebbe
essere diversamente, quando, per esempio, si è accuratamente evitato di
prendere posizione su una riforma costituzionale che aggrediva in via diretta
il principio di sussidiarietà (quando non si è fatto l’occhiolino al Sì)?
Per chi invece
ritiene che l’abbandono della politica e delle istituzioni rappresenti una grave omissione – soprattutto in un tempo che mette
in discussione i fondamentali – porsi il problema non è fuori luogo.
È immaginabile
dare rappresentatività diretta con la costruzione di un cartello elettorale? Non un partito ma un gruppo identificabile,
espressione delle associazioni e dei movimenti che – senza perdere identità
e autonomia né trasformarsi in qualcosa d’altro rispetto a ciò che si è –
accettino di contribuirvi per quota e per delega. Il che presuppone piena
condivisione del Magistero sociale e altrettanta consapevolezza che la gravità
del momento esige un passo impegnativo.
Va messo nel
conto che non tutti ci staranno: se la
nomina di un ministro dell’Istruzione portabandiera
di quel gender che papa Francesco ha qualificato «colonizzazione ideologica» ha
trovato come immediata e incredibile risposta l’offerta di collaborazione da
parte di talune realtà ecclesiali italiane, è evidente che qualcuno preferisce
altro.
Per chi
avverte l’urgenza dell’ora, i tempi sono veramente stretti: chi ha delle
alternative le prospetti. La Provvidenza nel frattempo ci ha dato una mano:
poco più di due mesi fa pochi dubitavano dell’elezione della Clinton a
presidente americano e della vittoria del Sì.
Diamo per
scontato che dovesse andare così o pensiamo sia il caso di corrispondere
all’aiuto ricevuto, e di darci una mossa?
16 GENNAIO 2017
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