martedì 13 dicembre 2022

CAMISASCA FEDE E POLITICA / 1. LA CARICA RIVOLUZIONARIA DELLA VENUTA DI CRISTO

Inserendosi nella storia con l’Incarnazione, il cristianesimo riconosce e si intreccia con le autorità “legali” senza mai coincidervi. Anzi ponendo un autentico argine alla hybris del potere

I PARTE

1. Il Regno


Bartolomeo Manfredi, Il tributo a Cesare, 1610-1620, Firenze, Galleria degli Uffizi

La vita cristiana non è mai estranea all’ambito sociale e civile. I misteri della Creazione e dell’Incarnazione ci consentono di affermare questa verità, attribuendole le giuste proporzioni.

La fede nella Creazione ci ricorda – contrariamente a quanto un certo ecologismo vorrebbe indurci oggi a pensare – che «la terra è opera di Dio, non madre di Dio» (1) , ci preserva quindi dalla tentazione di considerare il mondo come unico orizzonte, e ci impedisce di attribuire ad esso le prerogative che spettano solo a Dio.

Analogamente, ci ricorda che nessuna realtà umana o mondana – nemmeno gli Stati – può porsi a fondamento della norma morale o religiosa, ma trae il proprio senso e la propria esistenza da una più originaria signoria.

Di contro all’estremizzazione della trascendenza, che tenderebbe a negare qualsiasi tipo di contatto o “contaminazione” tra Dio e l’uomo, la fede nell’Incarnazione ci riconduce al mistero di Dio che si implica fino in fondo con la nostra umanità, al punto da farsi uomo Egli stesso. Questo ci permette di riconoscere la Presenza provvidente di Dio in ogni vicenda umana, anche in quella politica. Ed è per questo che Agostino può a buon diritto affermare che Dio «dat regna terrena», concede i regni della terra [2].

La nascita di Cristo si colloca in un punto preciso della storia: un tempo storico che è anche un tempo politico, concomitante con la decisione di Augusto imperatore di censire tutti gli abitanti dell’Impero romano. Anche i Vangeli ci restituiscono l’attenzione di Gesù a questioni politiche e i suoi interventi in tal senso: basti pensare all’episodio del tributo a Cesare (Mc 12,29-30). Proprio questo episodio lascia emergere un punto fondamentale per pensare il rapporto tra cristianesimo e politica: l’esistenza del potere politico è legittima, e a quel potere l’uomo deve obbedienza e collaborazione per quanto ad esso è dovuto. Questa obbedienza, tuttavia, è sottoposta alla signoria di Dio sul tempo, sulla storia e su ogni singola persona. È a Dio, e non allo Stato o alle sue leggi, che l’uomo deve il proprio cuore e la propria vita.

In questo modo Gesù, pur non rigettando la tradizione israelitica, mostra di superarla. Non si identifica con l’ottica teocratica dell’Antico Testamento, ma ne salva l’elemento davvero rilevante: l’unica signoria di Dio.

Contemporaneamente, Gesù porta una novità: «Il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15), «è certo giunto fra voi» (Mt 12,28), «è in mezzo a voi» (Lc 17,21).

Tutte queste espressioni fanno riferimento a un processo del “giungere” che è in atto ora, e che interessa tutta la storia: il compimento in cui si ricapitola ogni attesa umana di giustizia, di bene, di verità. Questo Regno che deve giungere è proprio la persona di Gesù. Non possiamo considerare il Regno di Dio in modo idealistico, come realtà semplicemente “interiore” all’uomo. Nemmeno possiamo ridurci ad una considerazione esclusivamente escatologica: il Regno riguarderebbe soltanto la fine del mondo.

Ancora non convince un’interpretazione secolarista secondo la quale il Regno coinciderebbe con la costruzione, da parte dell’uomo, di un mondo di pace, giustizia, uguaglianza e rispetto del creato. Cristo come compimento e salvezza per ogni uomo è assente anche da questa prospettiva[3].

La nuova vicinanza del Regno di cui parla Gesù è Lui stesso. In Lui Dio opera e regna: regna in modo divino, non assimilabile alla concezione mondana del potere. Dio regna attraverso l’amore spinto all’estremo, fino alla morte di Croce. Allo stesso tempo, questo diventa il paradigma di ogni forma di potere e di autorità. Chi occupa una posizione di autorità o di potere, chi è signore su altri, è chiamato a conformarsi alla più profonda natura della signoria, che cerca il bene dell’altro fino al sacrificio di sé; e che riconosce il criterio di tale bene nel volere dell’unico Signore.

Con Ratzinger lettore di Agostino possiamo affermare che il cristianesimo, inserendosi nella storia, riconosce le autorità “legali” e si intreccia con le strutture statali senza mai coincidervi. Mantiene in sé una carica intrinsecamente “rivoluzionaria”: non può considerarsi identico ad alcuno Stato, ma è una forza capace di relativizzare ogni realtà mondana e immanente, rinviando all’unico Dio, l’Assoluto che governa la storia, e all’unico vero mediatore tra Dio e l’uomo, Gesù Cristo.

2. Politica, uomo, persona

Nel nostro tempo prevale una visione tecnicistica dell’agire politico, che lo riduce ad un insieme di processi decisionali legittimati dal rispetto di regole procedurali. Ciò non significa che le decisioni politiche non si fondino su presupposti etici e su un’idea di ciò che è “buono” o “giusto”: ma non ci si rivolge più ai grandi sistemi morali per ottenere criteri. Questi ultimi sono desunti da altre fonti, come la tecnoscienza o l’economia. La questione etica si dissolve in un “pluralismo etico” che coincide in realtà con un dichiarato relativismo, non privo di tratti intolleranti nei confronti di chi, ancora, si ritenga detentore di certezze morali.

La crisi della politica si spiega alla luce di una più originaria crisi antropologica: la politica nasce infatti in vista della promozione della persona umana. Non può vivere senza un fondamento antropologico, prima ancora che morale. Chi è l’uomo? Cosa significa pensare l’uomo come persona? Quale tipo di rapporto sussiste tra persona e Stato, persona e vivere comune? Qual è il vero bene per la persona, e in quale modo il bene può essere perseguito mediante l’attività politica?

C’è ancora posto per l’uomo nell’età della globalizzazione, nell’imporsi della finanza anonima sui concreti rapporti economici, nello spostamento dei centri decisionali e di potere fuori dalle assemblee elettive degli Stati e nelle mani di élite sovranazionali? C’è ancora posto per il pensiero e la coscienza in un mondo che ha fatto delle tecnologie e della tecnoscienza la propria “infrastruttura”, e che ambisce a superare i limiti dell’umano ibridandolo con la macchina?

Quale ruolo rimane per una politica che sempre più frequentemente (come la crisi sanitaria ha lasciato emergere impietosamente) demanda la definizione dei criteri e la responsabilità decisionale a scienziati ed esperti?

Questi dinamismi hanno una storia. La modernità ha ridotto il mondo a materia totalmente disponibile alla capacità di manipolazione umana; l’uomo stesso è giunto a pensarsi come identità indefinita, eternamente cangiante. Di qui un’idea di libertà come autodeterminazione, semplice strumento per l’affermazione di sé; e di Stato come tutore delle rivendicazioni individuali.

In realtà, per rispondere adeguatamente alla domanda sull’uomo è necessario partire dalla sua strutturale creaturalità. L’uomo è creato per amore: riceve se stesso e la propria vita nel solco di una libera donazione da parte di Dio.

Nel secondo racconto della creazione dell’uomo (Gen 2,7-25) Adamo – qui rappresentante dell’intera umanità – scopre se stesso a partire dalla propria “solitudine originaria” di fronte all’Assoluto. Contemporaneamente si riconosce eccedente rispetto agli altri viventi, tra i quali «non trovò un aiuto che gli fosse simile» (Gen 2,20): proprio perché non trova un essere che gli sia omologo scopre una tensione al dono di sé, che si compirà solo nella creazione della donna da parte di Dio e nella comunione con lei.

La consapevolezza della propria originaria dipendenza creaturale; la percezione della propria unicità tra i viventi (coscienza e autocoscienza); la scoperta di “esistere per qualcuno” sono i caratteri dell’essere umano in quanto persona.

Dal punto di vista della riflessione politica, la categoria di persona costituisce il primo e più profondo argine alla hybris del potere. L’uomo non è individuo avulso da qualsiasi forma di partecipazione, limite o legame; nemmeno è cellula amorfa di un collettivo impersonale. Inoltre, la vocazione di cui l’uomo è costituito acquista il suo senso compiuto solo se torniamo alla “solitudine originaria”, al “rapporto con l’Assoluto” descritto in Genesi. Si instaura così una dialettica, nell’uomo, tra la coscienza del suo limite e la tensione a realizzarsi oltre se stesso.

Tutto ciò costituisce la conseguenza e il segno della sua condizione di creatura, che nel dono di sé trova il punto di massima somiglianza a Dio e il proprio compimento.

(1. continua)

* * *

[1]Agostino, La città di Dio, Libro VI

[2]Ivi, Libro IV

[3]Cfr J. Ratzinger, Gesù di NazaretTomo I. Dal Battesimo alla Trasfigurazione, Rizzoli, Milano 2007, 69-86

https://www.tempi.it/fede-e-politica-1-la-carica-rivoluzionaria-della-venuta-di-cristo/

 


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