Quelle foto mi spaccano il cuore: quella moltitudine di ombre nere come anime di un infinito Purgatorio. (E ognuno, ora lo so, era un figlio, un padre, e lo aspettavano, a casa)
«Mitrofanowka, quando vi arrivammo, era uno spavento.
Erano circa le nove del giorno 18 dicembre ’42. La città bruciava in molti
punti ed era sotto un attacco di caccia russi. I caccia erano una mezza dozzina
e andavano e venivano a volo quasi radente mitragliando fitto, avevano grandi
stelle rosse sulle fusoliere. Le strade tutt’attorno erano gremite di soldati
in fuga. Quasi tutti questi soldati (non so se fossero della Ravenna, o della
Cosseria, o mischiati) avevano una coperta in testa e marciavano incuranti dei
mitragliamenti che aprivano fra loro sanguinosi solchi. Taluni avevano i piedi
avvolti in coperte e si trascinavano, ce n’era che si sorreggevano tra di loro.
Non finivano più di venire avanti, davano l’idea di una interminabile mandria»
(Egisto Corradi, “La ritirata di Russia”, Mursia).
Era quasi di questi giorni la Ritirata, 80 anni fa, e nelle stesse terre dove oggi di nuovo si muore di fuoco, e di fame. L’Ucraina era Urss. Quando ero bambina la guerra da cui tu, papà, alpino con la Julia, eri tornato, mi pareva infinitamente lontana. Tu non ne parlavi quasi mai. Solo, odiavi la neve. Neve, maledetta neve. Che gelo spaventoso, e interminabili marce, e quanti, quanti morti, abbandonati come carcasse ai margini della colonna. Nessuno più si fermava per un morto. Fermarsi era cedere all’assideramento. Bisognava andare, andare, come si poteva.
Le foto della Ritirata mi spaccano il cuore: quella
moltitudine di ombre nere come anime di un infinito Purgatorio. (E ognuno, ora
lo so, era un figlio, era un padre, e lo aspettavano, a casa). C’eri anche tu
nella sacca sul Don, una delle più crudeli trappole che la guerra, o il
demonio, abbiano mai congegnato. Non solo cannoni e caccia a mitragliare, ma lo
spaventoso freddo della steppa, in quell’inverno rigidissimo.
Tu, non me ne hai mai detto niente. Non una parola.
Ma quando a vent’anni ho aperto il tuo libro l’ho
letto tutto in una notte, atterrita. Il carrarmato russo che ti passava a pochi
metri dalla testa, tu sdraiato nella neve, il fragore d’acciaio dei cingoli. E
quelle isbe stracolme in cui si cercava di sopravvivere per una notte ancora, e
i tedeschi che gridavano «Raus!», fuori! I tedeschi, ma, tu scrivi, «eravamo
tutti come cani rabbiosi».
E perché hai obbedito all’ordine di tornare indietro,
sotto il fuoco dei russi, a cercare un battaglione di compagni rimasto isolato?
Li hai trovati, infine, dopo ore terribili. Ma, perché sei andato, papà? Per
onore, o perché tua madre ti avrebbe detto: “Vai”?
Sei tornato. Nell’atroce groviglio di destini della
guerra in Russia, tu sei tornato, siamo nati noi. Io, bambina della Milano anni
Sessanta, confusamente pensavo che quegli accenni degli adulti, quelle case
ancora distrutte appartenessero a un’altra era. C’era la stata la guerra, ma
era finita per sempre. Ora ci sarebbe stata, per sempre, la pace.
Il 24 febbraio 2022 ha dato una spallata a questa mia
certezza. Ho proprio sentito come crollare un muro, dentro. Quei carri, quei
caccia, di nuovo, e più potenti. E di nuovo la neve e il gelo. La fame, gli
sfollati in marcia. Di nuovo, mio Dio – un anno fa non ci avrei creduto.
Sono diventata di colpo più vecchia. Resto più spesso in silenzio. Guardo le
immagini da Kherson, e benché lontana percepisco un abisso di dolore. La guerra
è tornata, torna sempre, la malapianta rispunta, ostinata. I soldati nella neve
oggi potrebbero essere non mio padre, ma i miei figli.
Fare, che cosa? Vorrei
soltanto sapere mettermi in ginocchio, e pregare.
Tratto da TEMPI
Nessun commento:
Posta un commento