martedì 6 dicembre 2022

GIUDIZIO E LIBERTÀ

DON PAOLO SOTTOPIETRA*

Durante il primo anno di università sentii pronunciare per la prima volta da don Giussani una delle sue frasi più proverbiali: «Imparate a giudicare, sarà l’inizio della liberazione». Era l’eco di una parola di Gesù: La verità vi farà liberi.
Per me fu veramente così. Molti degli educatori che avevo incontrato prima di allora guardavano con un certo sospetto alla parola «giudicare». Non giudicare sembrava essere un imperativo del vero cristiano, un atteggiamento inseparabile dalla virtù dell’umiltà.

Duomo di Monreale, Cristo Pantocratore
In effetti esiste un giudizio cattivo, espressione di malizia e di superiorità, che tende a mettere in cattiva luce l’altro o lo tratta con cinismo e distacco. Papa Francesco ha parlato molto di questo tipo di giudizio, fonte di chiacchiera e di pettegolezzo, contrario alla carità. Ad esso si riferisce Gesù, quando appunto raccomanda: Non giudicate e non sarete giudicati. La misura con cui misurate sarà la stessa che verrà usata con voi.

Esiste però anche un giudizio buono e necessario, a cui Cristo spinge con insistenza i suoi discepoli. Quante volte nel vangelo lo sentiamo ripetere: Ma non capite? Non comprendete ancora? Oppure: Sapete giudicare dal cielo se la giornata di domani sarà buona o cattiva; ma i segni di questo tempo, come mai non li sapete giudicare? O ancora: Voi non giudicate secondo Dio, siete ancora tutti immersi nel modo in cui giudicano gli uomini. Gesù fa appello alla ragione dei suoi discepoli, una ragione liberata dall’esperienza della appartenenza a Lui. Ci sono tante cose inventate dagli uomini, dice loro, che impediscono di guardare alla realtà per quello che è. Io sono venuto a spazzarle via. Non a caso papa Benedetto parlava spesso di un illuminismo cristiano, iniziato ben prima del Rinascimento e della Rivoluzione Francese.

San Paolo riprende l’insegnamento di Gesù, affermando che il cristiano giudica tutto e non può essere giudicato da nulla. La mentalità del mondo infatti non comprende l’uomo che vive in base alla fede, quest’ultimo invece vede con chiarezza anche nelle dinamiche del mondo, le sa giudicare.

Che cosa significa allora giudicare? Significa distinguere ciò che è da ciò che non è, il vero dal falso, la sostanza dall’apparenza, ciò che è autentico da ciò che è simulato. Significa distinguere il bene dal male, ciò che eleva l’uomo e ciò che invece lo umilia, ciò che piace a Dio da ciò che lo offende. Giudicate tutto e trattenete ciò che vale, sintetizza san Paolo.
Coltivare questa chiarezza è una vera opera di liberazione…..

La pressione della mentalità del mondo rende tutto questo non scontato. Affermare le cose nella loro obiettività richiede impegno. Più le situazioni che incontriamo sono complesse o inedite, più è necessario lavorare per conoscere, prima di poter giudicare. Nessun cristiano conosce a priori ogni conseguenza del suo essere di Cristo: crescere in questa coscienza è un itinerario appassionante e mai finito. Ma chi vuole percorrerlo deve essere disposto anche a soffrire.

Subito infatti sale in noi un’obiezione. A che cosa serve continuare a giudicare, a dire cosa è vero e cosa è falso, a riportare l’attenzione sulla natura delle cose, se il mondo non ci vuole sentire, se la direzione che la società vuol prendere è sempre più decisamente contraria a ciò che il cristianesimo ci ha insegnato per secoli a stimare, se sempre più spesso siamo messi in minoranza negli organismi che decidono?
La risposta può apparire semplice, ma viverla richiede l’impegno di tutta la nostra persona in una scelta che può essere molto costosa: giudicare è già di per sé una testimonianza, è anzi la condizione di ogni testimonianza. Non ci possiamo ritrarre dal lavoro del giudizio, perché siamo testimoni di Cristo. A volte questo lavoro rimarrà segreto. La nostra approvazione o presa di distanza saranno solo un momento del nostro dialogo con Dio. Altre volte invece saremo chiamati a esprimerci nell’ambiente in cui viviamo, davanti a tutti.

Don Paolo Sottopietra

Potrà accadere che il nostro intervento non cambi le cose nell’immediato. Non tutti i frutti della nostra testimonianza sono infatti visibili da subito. Per questo la Chiesa parla del sangue dei martiri come seme di nuovi cristiani. I martiri, testimoni per eccellenza, sono persone che non hanno rinunciato a giudicare in cuor loro, e a dire di fronte al mondo, quando è stato loro richiesto, che Dio è Dio e gli dei sono nulla. Per questo la nostra fede si può ancora alimentare guardando a loro. Non importa se dovranno passare una o più generazioni finché il seme germogli. Il cuore degli uomini prima o poi è sempre risvegliato da quell’inconfondibile accento che la verità possiede, perché è fatto per questo.

 

*SUPERIORE GENERALE DELLA FRATERNITÀ DEI MISSIONARI DI SAN CARLO BORROMEO

 

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