Sgomenta l’aborto
«post-nascita». Ma non è nuovo
«Poco lontano dal boschetto di cipressi, Walter – che stava giocando a "King of the mountain" - vide il veicolo bianco, e capì di cosa si trattava. È il camion degli aborti, pensò. È venuto a prendere qualche ragazzino per un post-parto giù alla clinica degli aborti. E, aggiunse mentalmente, forse sono stati i miei genitori a chiamarlo. Per me».
Così inizia Le pre-persone, un racconto di fantascienza di P.H. Dick, di un mondo in cui la legge sull'aborto vale anche dopo la nascita, fino a quando il nato non diventa una persona, cioè - per convenzione - quando comprende le operazioni matematiche complesse, a dodici anni.
Sulla rivista scientifica The Journal of MedicaI Ethics, due studiosi italiani hanno appena riproposto
sostanzialmente la stessa idea: stabilito che un feto è come un neonato, non
ancora persona, poiché l'aborto è legale anche per i feti sani, potrebbe
esserci pure dopo la nascita, per gli stessi motivi per cui lo è prima, cioè
anche quando non c'è disabilità, ma nell'interesse della madre e della
famiglia. Non è un infanticidio - asseriscono i due autori - ma un aborto
post-nascita. L'articolo - segnalato martedì su Avvenire da Gian Luigi Gigli
– ha suscitato orrore e polemiche, la rivista è stata sommersa da proteste e
l'editore ha avvertito la necessità di difendersi, spiegando che non ci sono
vere novità: illustri bioeticisti ritengono lecito l'infanticidio, e d'altra
parte il giornale espone idee, senza dare patenti di verità. Comunque c'è
disponibilità a pubblicare un articolo di confutazione, purché altrettanto
argomentato.
In effetti la difesa dell'infanticidio non
è nuova nel settore. L'editore stesso, il docente universitario Julian Savulescu, è noto per sostenere tesi analoghe: per esempio
considera eugenetico l'aborto tardivo nei confronti dei disabili, lecito invece
se fatto nell'interesse materno e familiare, e quindi non solo sui disabili ma
anche sui sani (su tutti, equamente). E poi favorevole alla selezione del sesso
dei figli con la diagnosi preimpianto degli embrioni, e ha argomentato anche a
favore della «beneficienza
procreativa»: le coppie, sempre con la diagnosi preimpianto,
dovrebbero selezionare il bambino fra quelli che potrebbero avere, mettendo al
mondo chi sembra avere la migliore aspettativa di vita.
Argomenti pubblicati e dibattuti in
prestigiose sedi accademiche, e la fama raggiunta gli ha regalato importanti
collaborazioni con università pure italiane come «Vita e Salute» del San
Raffaele a Milano: nell’ambito del sesto programma quadro, con alcuni docenti
della facoltà di Filosofia, Savulescu ha partecipato al progetto «Enhance»,
sul cosiddetto «miglioramento» degli esseri umani con le nuove tecnologie. E i suoi
scritti in questo settore sono coerenti con il resto del suo pensiero. E sorprendente piuttosto l'ondata di
indignazione suscitata dall' articolo. In fondo, purtroppo, si parla di
qualcosa di già visto: basta ricordare le polemiche, periodicamente ricorrenti,
sulla rianimazione dei neonati sopravvissuti agli aborti, messa più volte in
discussione anche su queste pagine.
Stavolta in Italia, però, la reazione è
stata pesante, probabilmente perché gli autori sono connazionali. Non gente
lontana, ma laureati e dottorati in due tra le nostre migliori università:
Bologna e Milano. La teorizzazione dell'infanticidio in Italia fa ancora orrore
(e meno male). A fare scalpore non dovrebbe essere solo il contenuto del
saggio, ma anche il prestigio accademico di cui godono certe argomentazioni, e
le carriere a cui si accompagnano. Nessun ateneo italiano (o europeo) si
farebbe vanto di lavorare in ambito storico con negazionisti, o con madrasse
per lo studio dei diritti delle donne, mentre la collaborazione con teorici
dell'infanticidio viene riconosciuta e gratificata nell'accademia. E chi
protesta viene accusato di non volere il libero confronto d'idee. Lo scopo di
queste discussioni non è l'approfondimento di tematiche etiche di frontiera:
l'obiettivo è parlarne, anche se con artifici retorici che mascherano la
povertà di argomentazioni. Parlarne con distacco dandosi un tono, possibilmente
accademico, per mostrare che tutte le idee sono lecite, e soprattutto sono
tutte moralmente equivalenti, perché non si possono commentare in termini di
bene e male, ma solo di preferenza personale - io preferisco questa opzione, tu
quella - e quindi soggettiva, relativa: in ultima analisi, insindacabile sul
piano valoriale. Si finisce con l'assuefazione. Ci si abitua a tutto, tutto si
tollera, perché di tutto si parla allo stesso modo, indistintamente.
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Morresi
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