SOLIDARIETA' SECOLARIZZAZIONE E NUOVA LAICITA'
Parigi 27 febbraio 2012
Cardinal
Angelo Scola
Arcivescovo
di Milano
1. Gli equivoci della solidarietà
Parlare
in modo credibile di solidarietà, tema di sfondo delle conferenze di Notre-Dame
2012, significa aggirare due regimi di discorso dominanti, che rappresentano
ormai due luoghi comuni: a) la
solidarietà come appello retorico, puramente sentimentale, a “fare del bene”; e
b) la solidarietà come maquillage del capitalismo, cioè come “etichetta” per
sdoganare con l’inganno un modello economico non raramente predatorio, magari
sotto forma di “aiuti umanitari” in cambio di ricchezza[1].
In
entrambi i casi, come è facile capire, non è in gioco nessuna “esigenza etica”,
né tantomeno una “speranza spirituale”, come invece suggerisce il titolo
generale delle conferenze.
È
chiaro dunque che la “maniera di dare”
(Lévinas) fa davvero la differenza: un conto è dare perché si riconosce una
interdipendenza ineludibile e perciò una corresponsabilità in relazione a un
bene comune da condividere (il che, guarda caso, è proprio il senso etimologico
di solidarietà); un conto è dare perché si ha a cuore solo se stessi.
2. Una prospettiva architettonica
Forse
è per via di questa differenza, divenuta sempre più marcata, che le scienze
sociali si stanno dando da fare per mettere in questione la solidarietà[2], se
non addirittura per ripensarla da cima a fondo[3]. La
dottrina sociale della Chiesa, dal canto suo, ha ben presente l’impoverimento
concettuale cui fa seguito la graduale estenuazione del senso stesso delle
buone pratiche solidali. Così non ha rimandato il compito di sfidare i luoghi
comuni, suggerendo con coraggio un’articolata architettura. D’altra parte, come
si legge nel Compendio della Dottrina
Sociale della Chiesa (nn. 162-163), i principi della Dottrina Sociale, tra
i quali ovviamente c’è anche la solidarietà, devono essere apprezzati nella
loro unità, interrelazione e articolazione.
Quindi estrapolare il concetto di solidarietà è già un errore. Non è allora per
caso che Benedetto XVI, in occasione della 14° sessione della Pontificia Accademia per le Scienze Sociali,
ha ritenuto imprescindibile annodare la solidarietà ad altri tre concetti fondamentali
della Dottrina Sociale: il bene comune, la sussidiarietà e la dignità umana.
L’idea è questa: perché abbia senso parlare
di solidarietà, occorre riconoscere un bene comune sociale, che è innanzitutto
il bene dell’essere insieme (in comune). Di tale bene comune, la solidarietà
esprime appunto la compartecipazione nei beni e nei pesi sociali; d’altra
parte, se vogliamo godere di questo bene comune in un modo non lesivo della
dignità umana non possiamo mortificare (paternalisticamente) l’agire degli
attori sociali: la sussidiarietà serve proprio a questo scopo, cioè esprime
l’iniziativa (singola o collettiva), altrettanto fondamentale e non riducibile
al tutto sociale stesso.
Da tutto ciò emerge un vero e proprio
schizzo architettonico a forma di croce. Dice infatti Benedetto XVI: «possiamo tratteggiare le interconnessioni
fra questi quattro principi ponendo la dignità della persona nel punto di
intersezione di due assi, uno orizzontale, che rappresenta la
"solidarietà" e la "sussidiarietà", e uno verticale, che
rappresenta il "bene comune"»[4].
Ci
sono dunque in questo “schizzo” due assi fondamentali che dobbiamo trattenere, se
vogliamo smantellare i luoghi comuni del discorso corrente sulla solidarietà:
(a) sull’asse orizzontale: non è
possibile rispettare la dignità umana (altro grande luogo comune) senza aver
cura solidale di chi è in difficoltà; ma non è possibile una solidarietà
autentica senza garantire alle persone una fondamentale libertà di iniziativa[5]. Così,
se la sussidiarietà corrisponde alla dimensione di singolarità irriducibile
della persona come protagonista e non oggetto della società, la solidarietà
corrisponde a quella della appartenenza sociale: duplice dimensione, la cui
espressione e il cui rispetto sono indispensabili per una socialità a misura
della dignità di ogni persona umana.
(b) sull’asse verticale: il bene comune
è il bene condiviso nella stessa socialità, che come bene umano non ha
automatica attuazione ma va voluto e praticamente perseguito (la società è maxime opus rationis). Esso sta a fondamento
della società, come un bene di
persone il cui valore dà sostanza e insieme eccede il bene comune. Per questo
il bene comune compiutamente inteso non si conclude con quello storico sociale,
ma è aperto al bene comune delle persone come tali. In questo senso non è
possibile rispettare fino in fondo la dignità umana senza adombrare una
prospettiva escatologica di
compimento della persona e di tutte le persone. Se il bene comune della
convivenza diventasse orizzonte intrascendibile, il rischio più grande sarebbe quello
della deriva totalitaria, cioè dell’appiattimento della persona entro la
soffocante misura di un’aspettativa di salvezza intrastorica: ogni
totalitarismo è, in fondo, la divinizzazione di un’idea mondana di vita buona. Ovviamente questo non deve significare sottomettere la politica al
regime della teologia. Significa, però, liberarsi dal delirio di poter
garantire da soli la promessa di felicità che spinge gli esseri umani a
costruire società ordinate secondo giustizia.
Se
ora proviamo a leggere sulla base dello schizzo proposto da Benedetto XVI questa
necessaria verticalizzazione del bene comune, che cosa succede? Diventa
comprensibile quello che già Maritain aveva indicato nel 1947: c’è un bene comune – come San Tommaso
insegna – che vale di più del bene dei singoli consociati; ma questo bene
comune, che Maritain chiama «bene comune
immanente», vale meno (è infatti “infravalente”) di quel bene cui la
comunità umana è ultimamente ordinata e che per Maritain (come per Tommaso) è il
«Bene comune increato delle tre Persone
divine»[6]. Si capisce allora perché
Benedetto XVI affermi che la vera solidarietà compie se stessa quando diviene
carità e che la vera sussidiarietà compie se stessa lasciando spazio all’amore:
perché è qui, nella carità e nell’amore, che Dio “accade” come risposta
inaudita alla promessa inscritta nel bene comune immanente[7].
Questo
schizzo architettonico diventa allora un riferimento essenziale per tutte
quelle dinamiche contemporanee che puntano a un’ipotesi di vita buona umanamente
sostenibile. In particolare, le due coordinate (orizzontale e verticale)
disegnano un framework che sembra
diventare irrinunciabile per interpretare lo spazio sociale in senso
autenticamente democratico:
a)
l’asse orizzontale (sussidiarietà – solidarietà)
è infatti compatibile solo con un’adeguata valorizzazione del protagonismo
tipico nella società civile:
l’idea, verso cui si stanno orientando le più acute interpretazioni
sociologiche contemporanee, è proprio che c’è un capitale di solidarietà che
solo gli attori della società civile sono in grado di generare e di cui nessuno
Stato democratico può fare a meno. Da qui l’accento posto in maniera decisa su
assetti istituzionali in grado di garantire, attraverso il principio di
sussidiarietà, la libertà e le forme civili dell’essere insieme[8].
b)
l’asse verticale (bene comune immanente – Bene comune increato) esige invece
quella libertà che, da più parti ormai, viene riconosciuta sempre più
consapevolmente come irrinunciabile: la libertà
religiosa[9]. Si tratta infatti di
giungere a riconoscere che la dimensione socio-politica non può essere
l’orizzonte esclusivo della persona umana[10].
Certo,
anche solo parlare di questo progetto architettonico è divenuto oggi tanto
affascinante quanto impegnativo. Ma questa difficoltà è parte del problema che
l’etica cristiana deve affrontare, posto che voglia sostenere ragionevolmente
la speranza di una vita sociale degna dell’umano.
Come
mai, dunque, è così difficile anche solo ascoltare un discorso articolato come
questo?
3. Secolarizzazione
Se
è vero che l’etica cristiana custodisce il senso autentico della solidarietà,
questo discorso non può essere fatto senza confrontarsi con la situazione
contemporanea di inedita pluralità in
cui ci troviamo a parlare e operare. Il fatto è che viviamo una condizione che
già Maritain giustamente definiva di babélisme:
«la voce che ciascuno proferisce non è
che un puro rumore per i suoi compagni di viaggio»[11]. Potremmo dire che viviamo una crisi
comunicativa, nel senso di un’incapacità ad elaborare un codice universale di
intesa. È ovvio che, in assenza di questo codice, la pluralità fa problema,
anche perché l’aumento e l’accelerazione dei flussi migratori hanno decisamente
cambiato l’assetto del mondo: oggi i “diversi” che noi siamo non sono semplicemente
ammessi in astratto come fattispecie etnologiche; i “diversi” si
trovano – volenti o nolenti – a dover progettare una convivenza, senza poter
più contare sui grandi racconti del passato, su quelle potenti narrazioni che suggerivano
d’emblée le coordinate del bene comune.
Questo depotenziamento narrativo globale,
questa difficoltà a dire qualcosa che esca dalla misura puramente soggettiva, e
che dunque colpisce al cuore la pregnanza tipicamente universale dell’etica
cristiana, va comunemente sotto il nome di secolarizzazione. Impossibile
darne conto nei termini precisi della complessa evoluzione storica[12]. È però importante notare il punto attuale
della parabola, rispetto al punto iniziale. All’inizio della modernità, vi è un
attacco frontale al paradossale valore universale della singolarità cristiana,
chiave di volta dell’umanesimo cristiano: la fede viene respinta come faccenda
privata, per di più faccenda estranea alla ragione. Quindi si tentano altri
codici universali di intesa, reinterpretando in modo secolarizzato la pretesa
dell’universale cristiano: la Scienza ,
la Ragione ,
il Diritto, ecc. Qual è l’esito di questa reinterpretazione?
Oggi
non prevale un attacco frontale ai codici universali compreso quello dell’etica
cristiana, bensì un graduale processo di abbandono della pretesa stessa di
universalità: nessuno dei codici secolarizzati è riuscito a mantenere la sua
promessa di raccontare la verità sull’esperienza umana in modo credibile.
Cosicché, non solo si è diffusa una generale sfiducia nei confronti
dell’annuncio cristiano, ma viviamo ormai nella convinzione più o meno esplicita che la ragione umana sia uno strumento
debole, incapace di portare a termine il compito di conoscere la realtà e di
stabilire valori da tutti condivisibili. Tale sfiducia, poi, non sembra
fare problema: assomiglia sempre più a una delusione compiaciuta, che celebra
la provvisorietà, l’incertezza, come esaltazione suprema della libertà di
scegliere senza le fastidiose costrizioni del passato (etiche, religiose,
sociali).
Dunque
il punto attuale della parabola secolarizzante è una specie di “gaia
rassegnazione”: l’uomo si scopre solo con se stesso, incapace – o
semplicemente stanco – di cercare il senso umano della propria esperienza, ma
paradossalmente “contento” che sia così e perciò disponibile, a sua insaputa,
ai nuovi e subdoli dispotismi tecnocratici. La rassegnazione compiaciuta anestetizza
il desiderio di edificare il bene comune, lasciando così le persone in balìa di
logiche che funzionano secondo fini che non sono più necessariamente umani.
Con
questa “gaia rassegnazione” è poi del tutto compatibile anche quella sorta di reviviscenza
post-secolare del religioso, che apparentemente potrebbe sembrare un’inversione
della parabola secolarizzante, ma che, il più delle volte, ne è l’estrema
accentuazione: la religione cristiana, ad
esempio, viene oggi valorizzata come un’etica finalmente libera da ogni pretesa
di verità, dunque come un’etica senza fede e soprattutto senza Chiesa: «nel mondo in cui Dio è morto – scrive ad
esempio il filosofo italiano Vattimo –, si
sono dissolti i metaracconti e si è fortunatamente demitizzata ogni autorità,
anche quella dei saperi “oggettivi”; la nostra unica possibilità di
sopravvivenza umana è riposta nel precetto cristiano della carità»[13].
Si
capisce bene con ciò che non si tratta di un attacco frontale: non si nega la
carità, anzi, la si afferma, privandola però di ogni pretesa di dire qualcosa
di vero sul significato dell’esperienza umana. Vattimo lo dice senza mezzi
termini: bisogna dire «addio alla verità»[14]. E
continua con coerenza: solo quando la verità si sarà «consumata nella carità»,
allora la carità sarà pura e autentica. È come dire caritas in caritate: la carità è pensata come una pratica che si
attesta da sé[15]. Quel che non si capisce
è perché questa carità rassegnata non dovrebbe consumarsi anch’essa nel nulla,
o trasformarsi nel suo contrario, se – per l’appunto – la sua pratica non ha a
che fare con la verità di chi siamo, ma solo – ultimamente – con quel che
sentiamo.
4. Nuova laicità
Considerata
questa atmosfera che respiriamo, si capisce quanto sia divenuto difficile
comunicare tra persone che hanno concezioni del mondo così diverse e
contrastanti. Non è un caso che le democrazie siano oggi per lo più in crisi: la difficoltà a comunicare è un sintomo
che non possiamo sottovalutare, se vogliamo difendere lo spazio politico di una
convivenza democratica. Habermas è sempre stato particolarmente attento a
questo indicatore: «la condizione in cui
si trova una democrazia si può accertare solo sentendo il polso del suo spazio
pubblico politico»[16]. Ed
è abbastanza ovvio che la gaia rassegnazione non è proprio una buona terapia:
bisognerebbe infatti togliere la parola a chiunque (e non sono solo ai
cristiani) non abbia intenzione di compiacersi di dire “addio alla verità”.
Questa neutralizzazione dello spazio
pubblico riduce drasticamente i “battiti” del polso democratico. Naturalmente
la ricetta per avere uno spazio pubblico vitale non può nemmeno essere – come
già abbiamo escluso – la deduzione del politico dal teologico.
Un’intelligente
soluzione è piuttosto quella immaginata ancora da Maritain, nel suo discorso
all’Unesco del 1947 (La voie de la paix).
In quell’occasione, Maritain affermò che, dato il fatto della pluralità
irriducibile degli attori sociali, l’ambito politico deve puntare a convergere
verso un «pensiero comune pratica»,
cioè uno «stesso insieme di convinzioni
volte all’azione»[17]. Il che implica accettare l’inevitabile
divergenza delle visioni del mondo, scommettendo al contempo sulla possibilità
di intendersi concretamente sul da farsi. Questo non vuol dire rinunciare
al piano della giustificazione teorica dell’agire pratico (questa rinuncia sarebbe
già nichilista); significa piuttosto riconoscere che l’ambito politico non
necessita, per essere in buona salute, del consenso totale (assai improbabile) intorno
a visioni sostantive della vita. Solo così si realizza quel bene comune essenziale che Maritain
suggeriva, quando parlava della società umana come “corps de communications
sociales”. Come s’è detto, il bene comune secondo la visione cristiana
abbraccia l’intera vita dell’uomo e non solo quella storica, ma questo non
produce a livello di convivenza civile una pretesa di condivisione totale. Piuttosto
l’ampiezza di visione sostiene l’impegno a contribuire al bene comune sociale
essenziale e ad animarlo con una costante sollecitazione verso un orizzonte
ulteriore integralmente umano.
Se
però accettiamo questo, dobbiamo accettare anche di abbandonare significati secolaristi e meramente oppositivi di laicità: se l’obiettivo del politico è
un pensiero pratico comune, anche i cittadini credenti debbono poter dire la
loro[18]. Di nuovo, ciò non implica
trasformare il politico nell’etico o nel religioso. Significa però che il
politico deve essere l’ambito in cui tutti i “diversi” debbono avere la
possibilità di contribuire responsabilmente al bene comune della comunicazione,
cercando di spiegare ciò che per loro vale, in un linguaggio che sia
accessibile a tutti. Si può allora essere giustamente perplessi di fronte alla presunta laicità di scelte politiche
che mirano a eliminare ogni riferimento religioso nello spazio pubblico:
quel che si ottiene, infatti, non è un pensiero pratico comune, bensì un minimo
comune denominatore, rispetto al quale le differenze culturali subiscono di
fatto una privatizzazione estraniante[19]. È
veramente pubblico, e perciò sanamente laico, solo quello spazio che scommette sulla
libertà dei cittadini, credenti e non credenti, di mettersi nel gioco di una
“narrazione reciproca”, cioè di mettersi nell’opera comune di raccontare il
significato della propria esperienza, secondo una logica – come insegna Ricoeur
– di reciproco, seppur faticoso, riconoscimento[20].
Il
che ci fa capire un altro punto importante: l’impegno a tradurre la propria visione del mondo in un linguaggio
comprensibile anche da chi non la condivide non deve gravare solo sui cittadini
credenti, ma dev’essere inteso –ricorda giustamente Habermas – come «un [comune] impegno collaborativo»[21].
Solo
per questa via si può arrivare finalmente a parlare in modo sensato di solidarietà. In tal misura, non è certo
da sottovalutare il consenso con chi ritiene la carità “l’unica possibilità di
sopravvivenza umana”: possiamo infatti
essere d’accordo sulla convenienza pratica di agire in modo solidale, purché
però si rinunci a dire (in modo del tutto anti-comunicativo) che l’unico modo per difendere la solidarietà
sarebbe la rinuncia alla verità. Anzi, ci dev’essere piuttosto la
disponibilità a lasciarsi interrogare anche da ragioni tipicamente religiose
della prassi solidale. Il che ci autorizza a fare un ultimo delicato passaggio.
5. Implicazioni sociali dei misteri cristiani
«E precisamente cosa c’è di più urgente di
richiamare l’uomo a se stesso?»[22].
Questo invito di De Lubac è quanto mai vero oggi, nell’epoca delle
disillusioni. Si tratta di rivelare l’uomo,
a
partire
dalla sua esperienza più originaria e inconfondibile: non si impara, né quindi
si può ragionevolmente decidere di fare il bene, di essere solidali con
l’altro, se non si è mai fatta l’esperienza di relazioni buone, relazioni –
cioè – con qualcuno che ha a cuore lo sviluppo della nostra libertà. Questa
esperienza primaria, elementare, custodisce una verità irrinunciabile, che fortunatamente
resiste. Una verità che il cristianesimo continua a raccontare. Ecco perché
sarebbe un errore tapparsi preventivamente le orecchie: se infatti non ci fosse
più nessun racconto in grado di difendere quella verità elementare
dell’esperienza, come potremmo evitare una difesa banalmente retorica della
dignità umana e della solidarietà?
È
per questo che lo stesso Habermas ritiene del tutto giustificabile «l’ammissione di enunciazioni religiose non
tradotte nella sfera pubblica». Il motivo è semplice: uno Stato veramente
democratico «non può scoraggiare i
credenti e le comunità religiose dall’esprimersi come tali anche politicamente,
perché non può sapere se, in caso contrario, la società laica non si privi di
importanti risorse di creazione del senso»[23]. E
il racconto cristiano del senso della solidarietà è un caso tipico di questo
genere di risorse politicamente rilevanti.
Prendiamo
ad esempio un passaggio della Lettera di
Giacomo, straordinariamente carico di implicazioni
sociali: «Estote autem factores
verbi, et non
auditores tantum, fallentes vosmetipsos - Siate di quelli che mettono in pratica la
Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi» (1,22). La risorsa politicamente rilevante racchiusa in questo testo
non è da fraintendere: non si tratta ovviamente di appiccicare la “Parola” di
cui parla Giacomo alla sfera pubblica (lo abbiamo ripetutamente escluso); si
tratta piuttosto di domandarsi che cosa implica, per il bene della
comunicazione, il fatto che un cristiano sia chiamato a praticare la Parola.
La risposta sembra venire dalla metafora che Giacomo
utilizza, per spiegare che cosa accade ai soli “auditores”: essi diventerebbero come chi si guarda allo specchio e,
vedendo solo la propria immagine riflessa, subito si dimentica chi egli
realmente sia, ma resta condizionato dalla sua immagine fugace: non ha
autentica coscienza di sé, ha solo immaginazione di sé. Il che, potremmo
tradurre, è esattamente l’illusione di Narciso. Ora, come è facile capire, è
improbabile che Narciso pratichi la solidarietà, cioè proprio uno dei requisiti
primari di una società che difende il bene comune. Chi, al contrario, mette in
pratica la Parola ,
cioè semplicemente si occupa di chi ha bisogno, comprende, attraverso
l’esperienza, che il suo essere reale, il suo consistere umano, la sua relazione con sé, dipendono dalle buone
relazioni che intrattiene con gli altri: «la
solidarietà solidifica»[24], dice ancora – con grande efficacia – De Lubac. Detto in altri
termini, diventare “factores verbi”, cioè praticare la solidarietà, significa –
come si legge nella Sollicitudo rei socialis
– vedere l’altro e non solo se stessi (come accade ai soli auditores)[25].
Insomma
è un’intera antropologia che la pratica solidale rivela e che il racconto
cristiano aggancia al “disegno architettonico” di Dio. Per questo Giovanni
Paolo II si riferisce al racconto di Genesi
e ricorda l’importanza di risvegliare la coscienza
religiosa degli uomini e dei popoli. C’è infatti custodito in questa
coscienza un significato dell’esperienza umana che è davvero irrinunciabile.
Del resto, abbiamo sotto gli occhi gli effetti di questo aut aut, decisivo per
il futuro della nostra vita sociale: o riusciamo a pensare l’idea che ognuno di
noi ha bisogno di essere aiutato ad essere libero; oppure la vita
umana diviene merce di scambio. Di questo aiuto, tutti hanno bisogno e dunque
tutti ne sono responsabili, dal momento che niente può sostituirlo o surrogarlo[26]. È
un paradosso, certo. De Lubac, a modo suo, lo esprimeva così: «alla radice si può immaginare la persona
come una rete di frecce concentriche; nel suo sviluppo, se è permesso esprimere
il suo intimo paradosso con una formula paradossale, si dirà che è un centro
centrifugo»[27].
“Centre centrifuge” significa che siamo interdipendenti, non però nel
senso di un’interazione meccanica, ma nel senso etico di una corresponsabilità
di quel bene primario che è la relazione di reciproco aiuto, in cui consiste
(si “solidifica”), la nostra umanità. Inteso in questo modo, il pensiero
dell’interdipendenza si chiarisce proprio come uno di quei “comuni pensieri
pratici” cui Maritain faceva riferimento: la corresponsabilità, una volta
riconosciuta, diventa convinzione che dirige l’azione, esige – cioè – dei factores del bene primario dell’aiuto (il
che non significa essere per forza credenti).
6. Il travaglio contemporaneo e la virtù della
solidarietà
Se
collochiamo questo pensiero nel contesto dell’attuale mondo globalizzato (a
livello ecologico, comunicativo, economico e finanziario, geo-politico) ci
rendiamo conto di quanto sia attuale, concreta e discriminante la pratica della
solidarietà come condizione di quella socio-politica. Ed è anche facile
comprendere come l’unica alternativa concreta ad una visione globale solidale
sia non certo un democraticismo neutrale, bensì un confronto sempre più
spietato tra politiche di potenza. Proviamo a dare anche solo uno sguardo
all’attuale crisi economico-finaziaria globale[28]:
come non riconoscere che non è in gioco solo un problema tecnico, un
disfunzionamento del sistema, bensì una patologia più profonda, che implica un
intero modo di concepire l’umano? Come non vedere che se non si agisce
responsabilmente a questo livello etico-antropologico, nemmeno il mercato
meglio congegnato e garantito risolverà il problema? Ecco perché varrebbe la
pena, letteralmente, affrontare la crisi pensandola anche come travaglio, in analogia con il senso
tipicamente materno del termine: «una
condizione di sofferenza anche acuta, ma con lo sguardo già rivolto alla vita
nascente»[29]. Il che significa, fuor
di metafora, affrontare la crisi provando a sostenere la fatica di sperare per un
modo nuovo, più vero, di essere insieme. Un modo che, se ci pensiamo bene, si
attua proprio seguendo le due coordinate (orizzontale e verticale) dello “schizzo
archiettonico” proposto da Benedetto XVI. Infatti, non è possibile nemmeno
immaginare «un nuovo ordine economico-produttivo, socialmente responsabile e
a misura d'uomo»[30]
senza i quattri “ingredienti” di cui abbiamo detto:
(1)
bene comune: non esiste benessere economico sostenibile, se non ricostruendo
pazientemente quella fiducia tra le persone che la crisi finanziaria ha
intaccato (cioè il bene comune immanente), e solo lasciando al contempo
libera la speranza di compimento del desiderio umano al di là di ogni possibile
ordine economico-sociale (Bene comune increato).
(2)
dignità umana: non esiste fiducia senza un ordine economico in cui il valore
della persona sia riconosciuto come irrinunciabile, cioè senza generare «un
bene secondo la giustizia che deve riversarsi sulle persone e che ha come
valore principale l’accesso delle persone alla loro libertà di svilupparsi»[31].
(3)
solidarietà: non ci può essere un ordine economico giusto, rispettoso della
dignità della persona, senza reimparare a usare dei beni in un modo opposto
alla logica ossessiva del profitto. A questo proposito è opportuno ricordare,
con i Vescovi francesi, che noi «discepoli di Cristo siamo più spinti dalla
carità in questo periodo di crisi economica e sociale. Le povertà d’oggi sono
forse meno nuove che radicali»[32].
(4)
sussidiarietà: non esiste uso solidale dei beni senza confidare nella
partecipazione responsabile di ciascuno, cioè senza quella libertà d’iniziativa
che può davvero cambiare le cose, portandoci fuori dalla crisi.
Un’architettura complessa, che può forse
scoraggiare, ma che, in realtà, ha un punto di partenza semplicissimo. Ci
riporta – come già detto con De Lubac – a quello che siamo veramente: soggetti
interdipendenti, capaci di rispondere moralmente di questo fatto, cioè capaci –
per l’appunto – di diventare solidali.
Possiamo,
in questo modo, affermare con il compianto cardinal Lustiger: «i principali problemi della crisi mondiale
(miseria, sottosviluppo, guerre, ecc.) hanno una soluzione tecnica possibile. Noi
potremmo nutrire tutti gli uomini, sviluppare tutti i paesi nuovi, interrompere
la corsa agli armamenti, ecc., se lo volessimo. Ebbene, di fatto non abbiamo i mezzi
tecnici disponibili perché non vogliamo il buon fine. L’impossibilità si trova
quindi nelle nostre volontà, nei nostri cuori. Ragion per cui le uniche
risposte vere saranno quelle spirituali, oppure non lo saranno. Il futuro di
una società umana è anzitutto una questione di carità»[33].
Per
questo è appropriato parlare di solidarietà in occasione della Quaresima. La
solidarietà non può essere scambiata per sentimentalismo: perché dipende da un
giudizio pratico sulla nostra comune condizione umana. Ed è proprio da questo
giudizio che dobbiamo partire. Aggiungendo che si tratta davvero di imparare
una virtù[34]. Essere virtuosi, come dice Sant’Agostino,
significa usar bene le cose di cui potremmo usar male[35]. In
che senso, dunque, la solidarietà ci fa usare bene di qualcosa?
La
risposta è molto concreta e, ancora una volta, può essere meglio compresa come
un’implicazione sociale dei misteri cristiani. La solidarietà, infatti,
significa dare qualcosa di proprio agli altri. Se non arriva fino a questo
punto, è un inganno sentimentale o peggio (torniamo ai due luoghi comuni di cui
si è detto all’inizio). Se invece arriva a questo punto, allora diventa – come
dice San Tommaso – «buon uso del denaro»[36]; cioè
si combina concretamente con la liberalità, ovvero con quella disposizione
d’animo di chi – dice ancora Tommaso – «è
libero dall’affetto» verso le cose materiali, dunque è libero per gli
altri.
Ora,
non è forse vero che questa libertà dal denaro dovrebbe proprio essere
un’implicazione quasi naturale per chi crede nella vita eterna? E non è forse
vero che questa implicazione aiuta a edificare la convivenza degna dell’umano?
Anche l’idea di virtù va dunque
riabilitata, perché la pratica solidale di cui abbiamo bisogno deve radicarsi
non solo in un complesso di idee e in una prospettiva culturale, ma anche in
una disposizione soggettiva acquisita con l’esercizio in un contesto educativo
e vissuta con maturità in un impegno comunitario e storico-sociale.
È
nota l’affermazione lapidaria di Kant sulla necessità di un ordine giusto: «Se la giustizia scompare, non ha più alcun
valore che vivano uomini sulla terra»[37]. Ma
forse, arrivati a questo punto, bisognerebbe aggiungere qualcosa, magari
facendo un passo indietro, fino a Sant’Ambrogio. Qual è – si chiede Sant’Ambrogio
– il fondamento, la ratio che fa di
una società una società umana? «La natura
del vincolo sociale presenta due aspetti, la giustizia e la beneficenza che
chiamano anche libertà e generosità»[38].
È
proprio questa ratio che l’etica
cristiana ha a cuore, quando gioca la sua partita pubblica per una vita sociale
migliore, in un tempo di crisi e di travaglio come quello che stiamo vivendo.
[1] Cf. A. Quadrio
Curzio, Il pianeta diviso.
Individualismo e solidarietà tra Nord e Sud del mondo, Mazziana, Verona
2000; M. Deriu (a cura di), L’illusione umanitaria. La trappola degli
aiuti e le prospettive della solidarietà, Editrice missionaria italiana,
Bologna 2001.
[2] Cf. K. Bayertz
(a cura di), Solidarity, Kluwer Academic Publisher,
Dordrecht 1999; A. Bassi, Dono e fiducia. Le forme della solidarietà
nelle società complesse, Edizioni Lavoro, Roma 2000; F. Crespi – S. Moscovici (a cura di), Solidarietà in questione. Contributi teorici
e analisi empiriche, Meltemi, Roma 2001; H.
Brunkhorst, Globalizing
Solidarity: the Destiny of Democratic Solidarity in the Times of Global
Capitalism, Global Religion and the Global Public, Seminario di Teoria Critica, Gallarate 2008.
[3] Cf. S. Paugam (dir.), Repenser la solidarité. L’apport des sciences sociales, PUF, Paris 2007; A.
M. Baggio, Il principio
dimenticato. La fraternità nella riflessione politologica contemporanea,
Città Nuova, Roma 2007.
[4] Bendetto
XVI, Discorso ai partecipanti
all’Assemblea Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, 3
maggio 2008, in M.
S. Archer – P. Donati (eds.), Pursuing
the common good: how solidarity and subsidiarity can work together, The
Pontifical Academy of Social Sciences, Vatican City 2008, 16.
[5] Per libertà d’iniziativa si intende
«La liberté de
s'engager réciproquement dans les domaines du commerce, de la politique et de
la culture»; qui Benedetto XVI si riferisce a Quadragesimo Anno, 80.
[6] J. Maritain, La personne et le bien commun, in Id.,
Œuvres complètes, vol. IX
(1947-1951), Editions Universitaires Fribour Suisse, Editions Saint Paul, Paris
1990, 167-237, qui 178.
[7] Cf. Archer
– Donati, 16.
[8] Cfr. P. Donati
– M. Archer (dir.), Riflessività,
modernizzazione e società civile, Franco Angeli, Milano 2010; J.-L. Laville
– P. Glémain (dir.), L’économie
sociale aux prises avec la gestion, Desclée de Brouwer, Paris 2010 ; J.
Braun – G.S. McCall (dir.), Dilemmas in nation-building, Blackwell
for UNESCO, Oxford 2009; C. Ruzza – V.
Della Sala (dir.), Governance and
civil society in the European Union, vol. 1. Normative perspectives, Manchester University Press, Manchester,
UK; New York, NY (Distributed exclusively in the USA by Palgrave) 2007; M. Magatti, Il potere istituente della società civile, Laterza, Roma Bari 2005.
[9] B. Duarte
(dir), Manifester sa religion, droits et
limites, Harmattan, Paris 2011; J.A. Araña
(dir.), Libertà religiosa e reciprocità,
Giuffrè, Milano 2009.
[10] Come diceva eloquentemente Giovanni Paolo
II, il riconoscimento della libertà religiosa è di fondamentale importanza,
perché «it is an implicit recognition of the existence of an order which
transcends the political dimension of existence» (Address to the Diplomatic
Corps, 1989). Cfr.
anche The Pontifical Academy of Social
Sciences, Universal Rights in a
World of Diversity. The Case of Religious Freedom, XVII Plenary Session, 29
April-3 May 2011, Vatican City 2011.
[11] J. Maritain, La voie de la paix, in Id.,
Œuvres complètes, vol. IX (1947-1951), Editions Universitaires Fribourg
Suisse, Editions Saint Paul, Paris 1990, 143-164.
[12] Cf. F. Botturi, Secolarizzazione e laicità, in
Aa.Vv. (a cura di P.P. Donati), Laicità: la ricerca dell’universale nelle
differenze, Il Mulino, Bologna
2008, 295-337.
[13] R. Rorty – G. Vattimo, Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, tr. it. di
S. Cabala, Garzanti, Milano 2005, 57.
[14] Cf.
G. Vattimo, Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009.
[15] Al
contrario, la carità ha il suo senso come «forza
che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta» (Benedetto XVI, Caritas in veritate 1).
[16] J. Habermas,
La condizione intersoggettiva, tr.
it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2005, 18.
[17] Maritain, La voie de la paix, 158.
[18] Cfr. Regard catholique sur la
laïcité, Documents
Episcopat n. 9/2010 .
[19] Cfr.
F. Botturi, Secolarizzazione e laicità, in P.
Donati (dir.), Laicità: la ricerca
dell’universale nelle differenze, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 295-337.;
cfr. il Rapporto sulla laicità. Il testo
della Commissione Stasi, prefazione di S. Romano e postfazione di E.
Bianchi, Scheiwiller, Milano 2004, su cui si è modellata la legge francese sul
comportamento religioso pubblico. Cfr.
anche M. Gauchet, La religion dans la démocratie, Parcours de
la laïcité, Gallimard, Paris 1998 e M. Troper,
French Secularism or Laicité,
«Cardoso Law Review», 21 (2000), pp. 1267-1284.
[20] P. Ricœur, Parcours de la reconnaissance, Editions
Stock, collections "Les Essais", Paris 2004.
[21] J. Habermas,
Tra scienza e fede, tr. it. di M.
Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2006, 35.
[22] H. De Lubac, Catholicisme, édité sous la direction de Michel Sales; Cerf, Paris 2003, p. 300.
[23] Habermas, Tra scienza e fede, 34.
[24] De Lubac, Catholicisme, p.
287.
[25] «La solidarietà ci aiuta
a vedere l’“altro” – persona, popolo o Nazione – non come uno strumento
qualsiasi, per sfruttarne a basso costo la capacità di lavoro e la resistenza
fisica, abbandonandolo poi quando non serve più ma come un nostro “simile”, un
“aiuto” (Gen 2,18), da rendere
partecipe, al pari di noi, del banchetto della vita, a cui tutti gli uomini
sono egualmente invitati da Dio» (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis 39).
[26] cfr. M. Heimbach-Steins,
Diaconie et identité chrétienne,
«Revue d’éthique et de théologie morale» 265, sept 2011, pp. 91-102.
[27] De Lubac, Catholicisme, pp. 289-290.
[28] La
crisi è stata oggetto di riflessione da parte della Commissione Famiglia e
Società della Conferenza Episcopale Francese. Cf. Conférence des Evêques de France.
Conseil Famille et Société, Grandir
dans la crise, Ed. Bayard/Cerf/Fleurus Mame, Paris 2011.
[29] A. Scola, Crisi e travaglio, Solennità dell’ordinazione di Sant’Ambrogio
Vescovo e Dottore della Chiesa, Discorso del Cardinale Angelo Scola,
Arcivescovo di Milano, Milano 6 dicembre 2011, p. 3. Cfr. anche E. Lasida,
Le goût de l'autre.
La crise, une chance pour réinventer le lien, Albin Michel, Paris 2011.
[30] Benedetto XVI, Caritas in veritate 41.
[31] Maritain, La personne et le bien commun,
203.
[33] Le rôle de l’Eglise aujourd’hui : Mgr. Lustiger s’explique, dans Paris Notre-Dame n° 24, 27 avril 1984, p. 6.
[34] «Si tratta, innanzitutto,
dell’interdipendenza, sentita come sistema determinante di relazioni nel mondo
contemporaneo, nelle sue componenti economica, culturale, politica e religiosa,
e assunta come categoria morale. Quando l’interdipendenza viene così
riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale,
come “virtù”, è la solidarietà» (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis 38.)
[35] Cf. Agostino, De Lib.
Arbit., II, 19, 50.
[37] I. Kant, Principi metafisici della dottrina del diritto, par. 49.
[38] Ambrogio, 1 De Offic., c. 28.
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