NO ALLO “STATO DI GIUSTIZIA” di
Marco Olivetti 24 ottobre 2012
[...] Le prospettive aperte dalla decisione
con cui alcuni componenti della commissione grandi rischi sono stati condannati
per omicidio colposo per non aver adeguatamente informato la popolazione
dell’Aquila dell’imminente terremoto di due anni fa sono talmente gravi da
imporre alcune osservazioni qui e ora. È in gioco, infatti, lo Stato di diritto
nel nostro paese, e il posto della magistratura nell’ordinamento
costituzionale. Dalla decisione emergono infatti alcuni fattori per nulla
isolati nella vita della giurisdizione in Italia.
Il primo riguarda la dilatazione senza limiti della
sfera della giustizia penale, che assorbe qualsiasi altro tipo di controllo.
Se anche si
ammettesse che i membri della commissione grandi rischi siano responsabili di
qualche forma di negligenza, la giustizia penale dovrebbe comunque essere
l’extrema ratio, e una cautela particolare si dovrebbe osservare prima di
ricondurre un comportamento umano ad una ipotesi di reato così grave come
l’omicidio colposo. Non vi è certo bisogno di essere adepti delle ideologie del
“diritto penale minimo” per diffidare della criminalizzazione (in forma così
grave) di ogni comportamento.
Il secondo rilievo concerne la nozione stessa di
responsabilità, la quale, anche in sede civile, ha ormai un’estensione
proteiforme: in questo
contesto nessuno è certo che un qualsiasi suo comportamento non produca danni a
terzi, specie a fronte di professioni (si pensi a quella medica) intrinsecamente
connesse a possibili effetti dannosi di azioni od omissioni umane.
Della
portata imprevedibile di queste concezioni della responsabilità sono ben
consapevoli, del resto, gli stessi magistrati, i quali lottano all’ultimo
sangue – attraverso le loro associazioni – per sfuggire, come categoria, agli
effetti del mostro che hanno contribuito a creare (si veda la polemica sulla
responsabilità civile dei giudici, che ha una storia di ormai un quarto di
secolo, incluso un referendum abrogativo, i cui effetti sono stati prontamente
disattesi).
Un terzo spunto di riflessione viene da una concezione
della giustizia penale che mette al centro le vittime, invece della funzione
statale di repressione oggettiva dei reati.
Si tratta di
una tendenza molto forte a livello internazionale, che dà risposta a domande di
sicuro pregio (evitare, anzitutto, che il processo penale si converta in una
ulteriore umiliazione per chi ha già sofferto). Ma questa tendenza rischia di
condurre all’abbandono di uno dei postulati fondamentali del processo penale,
vale a dire la sottrazione ai privati del diritto di farsi giustizia da sé,
avvicinando pericolosamente il processo penale a quello civile, con il pm e il
giudice che, anziché reprimere le
violazioni della legge penale, si sentono obbligati a “dare giustizia” alle
vittime: una giustizia cui non mancano, talora, elementi di vendetta, più o
meno primitiva.
Questa
miscela diventa esplosiva quando il giudice e il pubblico ministero cercano –
consapevolmente o meno – una sponda
nell’opinione pubblica, a fronte di “casi difficili”. È forse avvenuto nel
caso dell’Aquila, ma anche in altri, pure essi assai problematici, come quello
della Thyssen-Krupp di Torino, nel quale si è assistito a un altro
scivolamento, dall’omicidio colposo a quello doloso (sia pure con il cosiddetto
dolo eventuale).
Il quadro che ne risulta è assai inquietante: quello
dello “Stato di giustizia” (menzionato, fra gli ordinamenti contemporanei, solo dall’articolo 2
della costituzione del Venezuela di Chavez) che sostituisce lo Stato di diritto, e nel quale giudice e pm (da noi
non adeguatamente separati, come è noto, con tutti i deficit di garanzia che ne
conseguono) utilizzano il processo come
arena in cui applicare non i tradizionali meccanismi dello Stato di diritto
(con al centro i valori di legalità, prevedibilità, stretta causalità,
responsabilità personale, ecc.), ma le
loro concezioni personali della giustizia, in raccordo con le aspettative di un
determinato ambiente sociale.
Ne risulta
solo una apparenza di giustizia, che appaga forse qualche anima bella, ma che
distrugge i fondamenti dell’ordine civile di una società libera e si avvicina
pericolosamente a una caccia alle streghe. Alla radice di questa situazione
sta, del resto, una sopravvalutazione
del ruolo del giudice, che viene chiamato a dare risposta a ogni genere di
bisogno umano, per quanto irrazionale (anche se magari comprensibile),
piuttosto che ad applicare il diritto di uno Stato libero.
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